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Anche gli italiani sono stati "immigrati". No ai respingimenti e si al dialogo e all'accoglienza

del 2016-11-21

Immagine articolo: Anche gli italiani sono stati "immigrati". No ai respingimenti e si al dialogo e all'accoglienza

"La storia dell’uomo è storia di migrazioni. Di mobilità costante di singoli, gruppi, talvolta di interi popoli alla ricerca di migliori condizioni di vita. Dalla preistoria all’antico testamento, dalla scoperta-conquista delle Americhe al Novecento, la lista dei possibili esempi è interminabile.

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  • Ne sa qualcosa anche il nostro Paese, e non occorre qui ribadirlo. Eppure oggi in Italia, quando si sente parlare di migrazione, l’impressione è sempre quella di avere a che fare con un fenomeno nuovo, in continua crescita e per questo incontrollabile, a cui da più parti si avverte l’esigenza, con le buone o con le cattive, di porre un freno.

    I salotti televisivi, agorà contemporanee, brulicano di personaggi - politici, esponenti della società civile, giornalisti, gente “comune” - le cui voci si accavallano come in una rissa ingestibile in cui nessuno dei partecipanti arretra di un millimetro dalla propria posizione. Non è mio interesse, qui, analizzare questo teatrino, la sua semantica semplificatrice e generalizzante.

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  • Una simile analisi sarebbe del resto superflua, se non altro perché in ognuno di questi battibecchi, qualsiasi sia il tema in questione, alla discussione sembra sempre mancare qualcosa, un più ampio respiro, una profondità di pensiero che sappia coniugare quanto accade oggi in altri tempi e in altri modi.

    È questa mancanza, questa incapacità di andare al fondo delle cose, una malattia dei nostri giorni, perennemente fissati in un presente avvolto su sé stesso, che pare dimenticare il suo passato, anche quello prossimo, e non porsi in relazione con un futuro sempre procrastinato e lontanissimo. È la modernità, anzi il suo post, il vortice turbo-capitalista nel quale ogni cosa si consuma in un istante, in cui tutto è passeggero, raggiungibile e, una volta raggiunto, inutile.

    È l’idea (che si crede) universale di “progresso” e “sviluppo” ad ogni costo, il pensiero dell’Uno che non considera i Molti e che solo al profitto rende conto, in nome di un monoteismo finanziario (che pare) inarrestabile e insostituibile.

    In questo scenario - che per fortuna incontra ancora forti resistenze in luoghi, talvolta impronosticabili, che a certe logiche non si piegano e anzi propongono interessanti e stimolanti alternative - i migranti, cosa possono dirci?

    Quali insegnamenti possiamo trarre dall’incontro con questi altri-da-noi? Già capovolgere i termini della questione è fondamentale: non “cosa possiamo fare noi per loro?” ma “cosa possono fare loro per noi?”. Innanzitutto bisogna mutare i paradigmi con cui siamo soliti pensare il mondo, uscire di casa e aprirci a una realtà in continua e veloce trasformazione, che non può più essere letta e detta facendo ricorso ai vocabolari impolverati delle vecchie biblioteche.

    Il primo esercizio, quindi, è quello di impegnarsi in un corretto uso delle parole, perché - lo diceva Nanni Moretti - «chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti». In secondo luogo, occorre informarsi - attivamente e non passivamente, in modo il più possibile critico e consapevole - sui fatti, gli attori, i luoghi, la storia, le storie.

    La verità non è qualcosa che altri possano dirci, specie se per altri si intende il sistema mass-mediatico, la verità è una ricerca continua e in continuo aggiornamento, una tensione costante ed inesauribile da assecondare, una luce da mantenere accesa per non perdere la rotta, in questo mare divenuto oceano, pur sapendo che non c’è una rotta sola, che le direzioni sono tante e intrecciate tra di loro, che più si scava alla ricerca di radici più ci si confonde nel caos primordiale.

    Ed è questo il punto: slegare i nodi, superare i confini del sapere che credevamo invalicabili, perché la verità, se una verità c’è, probabilmente è nei contorni sfumati delle nuvole.

    Un lessico appropriato, una rilettura critica e consapevole della contemporaneità, delle sue molteplici e spesso ingannevoli manifestazioni, possono permetterci di capire e meglio definire fenomeni come quello migratorio, di pensarlo non come stra-ordinario ma come strutturale, come un evento con cui, volenti o nolenti, dovremo comunque misurarci negli anni a venire: tanto vale essere preparati, avere a disposizione strumenti e chiavi di lettura adatte, o meglio, adattabili di volta in volta.      

    Il confronto non è mai facile, e questa riflessione non vuole certo negare la complessità della sfida che abbiamo dinnanzi. Nell’incontro può esserci - c’è - il malinteso. Ma questo, ce lo suggerisce Franco La Cecla, non per forza e non sempre è da considerarsi un aspetto negativo, un ostacolo alla relazione. Ancora una volta, lo sforzo deve essere quello di ribaltare i paradigmi, sovvertire gli schemi, attivare nuovi e diversi modi operandi.

    Aprirsi al dialogo, un dialogo con l’alterità che abbia per base non l’interrogativo del “chi è lui?” ma quello, forse ancora più arduo, del “chi sono io?”. Perché la mediazione non deve - e non può - essere inter-culturale, la mediazione è sempre, prima di tutto, intra-culturale, va ricercata solo attraverso un confronto con il proprio sé, con la propria cultura. Innanzitutto, bisogna chiedersi “quanto il mio modello culturale mi condiziona?”.

    Questa mediazione interna, questo guardarsi allo specchio è il primo passo per uscire da (l) sé, per beneficiare di una prospettiva altra che ci permetta di prendere atto dei luoghi comuni in cui - spesso inconsapevolmente - siamo ingabbiati.

    L’incertezza di sé è il motore che muove la comprensione dell’altro. Non è, sia chiaro, una condizione di precarietà, una debolezza, ma un valore aggiunto per ricercare un confronto in e fuori da sé. Interrogarsi sul proprio sé per andare verso l’altro da sé. Questo, a mio avviso, è da intendersi per un pensiero che si dica inter-culturale: un processo perennemente in divenire, un essere verso mai compiutamente compiuto, non costruttivo ma creativo e quindi non-definibile.

    È in questo senso che i migranti - ma non solo i migranti, ci si potrebbe riferire, gramscianamente, ai subalterni - giocano un ruolo fondamentale e decisivo nella costruzione di una società che sempre più a fatica si divincola tra le contraddizioni che caratterizzano il terzo millennio: da un lato il villaggio globale, i ristoranti etnici e i McDonalds gli uni di fianco agli altri, il mondo intero a portata di click; dall’altro, come (preventivabile) conseguenza, la filiera corta, il recupero delle tradizioni e dei luoghi di origine e - il passo è più breve di quanto si possa pensare - il forte riemergere dei movimenti nazionalisti e xenofobi.

    A pranzo un kebab - si potrebbe sintetizzare - a sera “non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”.

    Con questo magma che ci cola attorno, in cui senza filtri si addensano generalizzazioni e luoghi comuni, false notizie e mistificazioni, è normale - direi legittimo - sentirsi spiazzati, paralizzati, impauriti.

    Lo spaesamento - e qui ancora una volta è fondamentale lo sforzo verso una ridefinizione dei concetti - può però rappresentare una condizione privilegiata dei nostri tempi, uno sguardo altro, denudato, spogliato dei pre-giudizi - o in grado di ribaltarli e costruirne sempre di nuovi, in un’ottica gadameriana - e capace di mettere a fuoco più ampi orizzonti, più estesi scibili.

    Se perdiamo le certezze, se d’un tratto crollano i pilastri e le strutture su cui abbiamo edificato le nostre esistenze, se scopriamo gli altri non più come oggetti prodotti dalla nostra cultura ma come soggetti che hanno voci e storie da raccontare, possiamo accorgerci che il mondo va ben al di là delle nostre mappe, dei confini fisici e mentali a cui una parte dell’umanità - la nostra - lo ha costretto e ancora cerca di costringerlo.

    Di nuovo, conoscendo l’altro - i tanti altri - conosciamo meglio noi stessi, i nostri limiti, la contingenza del nostro stare al mondo, la precarietà degli assoluti che credevamo incrollabili e che invece vengono a disfarsi, giganti dai piedi d’argilla, in questi tempi in cui l’incertezza è l’unica certezza.

    «Solo l’assolutamente estraneo - direbbe Lévinas - può istruirci». È questa forse la vera paura. Non paura dell’altro, ma paura di quello che l’altro può dirci di noi, paura dei giudizi che qui, in questo pezzettino di mondo che chiamiamo “occidente”, si è sempre stati bravi a dare e mai a ricevere.

    L’altro-da-noi, così simile e così diverso, giunge allora a ricordarci un’umanità comune che troppo spesso dimentichiamo, un’umanità che ci comprende tutti e tutti ci riguarda, al di là delle categorizzazioni e di ogni artificiale costruzione identitaria.

    Messi con le spalle al muro, potremmo allora volgere a nostro favore la sensazione di spaesamento, farne uno strumento nuovo con cui guardare al mondo e a tutti i suoi abitanti e, senza più quella certezza che diventa pre-sunzione, metterci in viaggio nudi, non più per comprendere (dal latino cum-prehendĕre: contenere in sé) l’altro, ma per sorprenderci insieme a lui e insieme a lui prendere fiato, fermarci a riflettere su cosa siamo, su dove stiamo andando, su cosa di buono è stato fatto e cosa ancora c’è da fare.  

    Ecco, l’incontro: arrestare la corsa e sedersi. Parlarsi. Ascoltarsi. Dare vita ogni volta a una genesi.      

    Igor Giammanco                                                                                        

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