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La rocambolesca storia di "Lu Pupu" tra presunti riscatti, l'arrivo in Umbria e la lunga strada verso il ritorno

di: Francesco Saverio Calcara - del 2022-02-01

«Lu pupu si futteru» gridò l’assessore Filippo Li Causi, verso le 11,30 di quel mercoledì 31 ottobre 1962, affacciandosi trafelato dal balconcino del gabinetto del Sindaco, dove il reperto era custodito. 

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  • L’Efebo di Selinunte - preziosa statuetta di proprietà del Comune di Castelvetrano, ritrovata per caso il 22 giugno 1882, da un trovatello di 9 anni, Benedetto Prussiano, guardiano di porci nei campi di Ponte Galera - ivi era custodito, dopo alterne vicende, dal 1946.

    Allo scoppio della guerra, in via precauzionale era stato portato nei sotterranei del convento dei Cappuccini e da lì mio padre, assessore nella prima amministrazione dell’era repubblicana, col camion dell’imprenditore Carlo Spallino, così mi raccontava, era andato a prenderlo per collocarlo, come la Sovrintendenza aveva indicato, nello studio del Sindaco a Palazzo Pignatelli.

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  • La rocambolesca storia di questo bronzo è singolarmente legata a quella della mia famiglia. Infatti, dopo anni di pazienti ricerche, condotte dopo il furto anche all’estero e negli ambienti dei ricettatori – pare che al Comune fosse pervenuta una richiesta di riscatto di 25.000.000 di lire – finalmente, nel marzo del 1968, a Foligno, a seguito di un conflitto a fuoco, l’Efebo venne recuperato per merito del compianto dott. Rodolfo Siviero, ministro plenipotenziario che si interessava della ricerca degli oggetti d’arte trafugati.

    E fu ancora mio padre, che era tornato ad essere assessore, recatosi a Roma, assieme al suo collega Giovanni Forte, a prendere in consegna, a nome del Comune che ne era il legittimo proprietario, la preziosa statuetta. 

    In un libretto, scritto assieme all’amico Giuseppe Bonanno, abbiamo descritto le fasi di quell’avventuroso recupero, nel quale meritoria, coraggiosa e decisiva fu l’azione di Siviero che, avvalendosi dell’aiuto del questore di Agrigento, dott. Ugo Macera, era riuscito ad entrare in contatto con i ladri, avviare delle false trattative e tendere personalmente la trappola che scattò, a Foligno appunto, il 13 marzo 1968.

    Ma come mai l’Efebo era giunto nella tranquilla cittadina umbra?

    Val la pena di raccontare alcuni retroscena, quasi romanzeschi, che condussero al recupero. Il dott. Macera, intimo amico di Siviero, aveva potuto, come s’è detto, stabilire un aggancio tra i ricettatori, in particolare un assicuratore agrigentino, tal Attilio Sciabica, e il funzionario ministeriale che si fingeva parente di un noto antiquario fiorentino e interessato all’acquisto.

    Il 26 febbraio 1968, ad Agrigento, Rodolfo Siviero, dopo due giorni di estenuanti trattative, concluse l’accordo: i ladri, che in un primo tempo avevano chiesto settanta milioni, si aerano accontentati dei trenta che Siviero offriva, essendo quella la somma massima su cui poteva contare, messagli a disposizione da un altro benemerito personaggio, suo amico, l’industriale toscano Dante Meccoli. Si stabilì anche il luogo dello scambio: Foligno e, successivamente, anche la data: il 12 marzo.

    Lo scaltro funzionario fiorentino aveva organizzato la messinscena; recatosi a Foligno, trasformò parte di una antica casa patrizia, presa in affitto, in un finto laboratorio di restauro e l’11 marzo tese la trappola. Erano con lui l’instancabile Ugo Macera che, alloggiato all’Hotel Umbria, sulla strada di accesso a Foligno, faceva da vedetta ed era pronto ad avvisare Siviero attraverso un telefono speciale che lo collegava al palazzo; il vicequestore di Palermo, dott. Aldo Arcuri; il commissario Giovanni Console, castelvetranese di nascita, figlio di Sebastiano Console, legale del Comune; e i brigadieri Salvatore Urso e Calogero Salamone, anch’essi della questura palermitana.

    I quattro poliziotti si erano nascosti in un piccolo locale, una ex stalla, adiacente al finto laboratorio e vi rimasero al freddo e quasi digiuni per circa trenta ore, poiché i ladri giusero con un giorno di ritardo e, come annunzia trafelato al telefono il questore Macera, in misura superiore al previsto, cinque al posto di due: erano il già citato Attilio Sciabica, Vincenzo Ragona da Gibellina, Salvatore Nuccio e Leonardo Bonafede da Agrigento, Gregorio Gullo da Menfi.

    Alle 17 Sciabica, da solo, picchia al portone; vuol vedere i 30 milioni, li esamina e li marca mordendo le mazzette per riconoscerle al momento dello scambio. Quindi esce per ritornare subito dopo con gli altri, a bordo di un’auto. Il sangue freddo di Siviero evitò il possibile fallimento dell’impresa: protestando col capo dei malviventi per l’eccessivo numero dei presenti ad una operazione così delicata, riuscì a farne allontanare tre; condusse i rimanenti due in fondo alla stanza; aprì la valigia che gli porgeva Sciabica; trovò fra la biancheria la preziosa statuetta; la esaminò e ne accertò l’autenticità; consegnò, infine, la borsa col denaro e, come convenuto, si tolse il cappello.

    Era il segnale: i quattro poliziotti, nascosti nel ripostiglio, fanno irruzione, immobilizzano il capo che sta ancora contando le banconote, e arrestano dopo una breve colluttazione anche l’altro. Nel frattempo, il brigadiere Urso disarma un terzo malvivente che, rimasto fuori, insospettito dal fracasso stava rientrando armato di pistola; gli altri due complici, dall’esterno, aprono il fuoco, ma la pronta risposta delle forze dell’ordine li costringe alla fuga. Arcuri e Urso risultarono leggermente feriti.

    L’Efebo fu così avventurosamente recuperato. Con protocollo del 4 aprile 1968, pertanto, il ministro plenipotenziario Rodolfo Siviero, alla presenza del ministro Gennaro de Novellis, del colonnello dei carabinieri Giovan Battista Vescovo, del delegato della Criminalpol dott. Vincenzo D’Alessandro, procedeva alla restituzione dell’Efebo di Selinunte ai rappresentanti del Comune di Castelvetrano e nella fattispecie proprio a mio padre.

    L’opera, tuttavia, che aveva bisogno di un urgente restauro, fu lasciata in consegna al dott. Siviero, anche per evitare, come si disse, che potesse venir sequestrata dal Ministero della P.I. Il 21 aprile 1968 tornava a riunirsi il Consiglio Comunale che prendeva atto dell’esito della missione a Roma e deliberava il restauro dell’Efebo.

    Purtroppo, la via proposta fu quella di eleggere la solita commissione (che in Italia è il sistema più sicuro per insabbiare e non decider nulla); e del resto basta leggere il dispositivo della delibera n. 3068, scritta in perfetto burocratichese, per rendersi conto di quanto farraginosa fosse la procedura scelta: “Il Presidente proclama che il Consiglio Comunale ha deliberato il restauro dell’Efebo Selinuntino a cura e spese del Comune e con l’ausilio della Commissione testé costituita ed eletta; ha altresì autorizzato il Sindaco a chiedere alle competenti autorità le autorizzazioni per il restauro ed ha fatto riserva di adottare i provvedimenti deliberativi per l’impegno della spesa, dopo che l’Amministrazione sarà venuta in possesso dei preventivi (almeno due) che saranno forniti dai restauratori che saranno stati designati dalla Connissione stessa all’Amministrazione Comunale, che provvederà all’affidamento del relativo incarico”.

    La Commissione risultava composta dal ministro Rodolfo Siviero, presidente; dal prof. Gianfilippo Carrettoni, sovrintendente alle Antichità di Roma; dal prof. Vincenzo Tusa; dal Presidente del Tribunale di Trapani; dal Sindaco pro-tempore; dal prof. Luciano Messina, presidente della Pro-Selinunte; dall’onorevole Vincenzo Occhipinti, deputato regionale; dallo scrittore Carlo Levi; dal senatore Simone Gatto.

    Nessuno si rese conto, oltretutto, di quanto sarebbe stato difficile poter riunire uomini, alcuni dei quali di effettivo grande prestigio, oberati da gravosi incarichi e per di più residenti in città diverse e fra loro tanto lontane.

    Tuttavia, l’impegno preso dal Comune fu considerato sufficiente a Roma, e così, il 9 maggio 1968, chiuso in uno speciale contenitore sul quale Siviero aveva scritto di suo pugno una dedica alla città di Castelvetrano, l’Efebo veniva consegnato ai nostri amministratori e, scortato dal commissario Console e dai brigadieri Urso e Salamone, protagonisti del recupero, caricato sul treno alla volta della Sicilia.

    Fra l’entusiasmo generale, la statuetta, giunta a Castelvetrano il mattino successivo, fu portata a Palazzo Pignatelli, esposta nell’aula consiliare e quindi custodita per sicurezza nel sotterraneo del Banco di Sicilia.

    Passarono due anni senza che, come era facilmente prevedibile, si fossero compiuti passi significativi sia per quanto riguardava la costruzione della famosa “camera blindata” sia per risolvere il problema del restauro. Si giunse, pertanto, al 3 aprile del 1970, allorquando la Corte d’Appello di Perugia – ancora competente, giacché stava celebrandosi il processo di appello contro i trafugatori, e il bronzo era il corpo del reato – con ordinanza comunicata alla Soprintendenza con successiva nota del 15 aprile n. 7/1949, autorizzava il Comando dei Carabinieri – Nucleo di Tutela del Patrimonio Artistico presso il Ministero della P.I. di Roma, a prelevare il bronzo dal Banco di Sicilia di Castelvetrano e a consegnarlo all’Istituto Centrale di Restauro di Roma “per provvedere alla rimessa a punto dell’opera stessa per danni subiti in seguito al trafugamento”.

    Evidentemente, mentre a Castelvetrano si perdeva tempo dietro a pletoriche commissioni, qualcun altro si adoperava a caldeggiare un restauro che comportava il trasporto dell’Efebo verso altri lidi.

    Così l’11 maggio 1970 giungeva a Castelvetrano il colonnello dell’Arma Felice Mambor il quale, nonostante l’opposizione del Comune e la diffida da questi fatta al Banco di Sicilia a non consegnare l’opera, prelevava quasi di forza la statuetta e la portava a Roma.

    Immediatamente fu riunita la giunta municipale che con deliberazione del 12 maggio 1970, n. 294 “temendosi che tale prezioso bene patrimoniale non venisse più restituito al Comune”, decideva di inviare a Perugia il vicesindaco, prof. Pippo Piccione, e il dinamico assessore Giovanni Forte per far luce sulla vicenda e difendere i diritti di proprietà del Comune.

    In effetti, la Corte di Appello di Perugia, sezione penale, nella sentenza del 16 maggio 1970 in cui si condannavano i colpevoli del furto, riconobbe al comune di Castelvetrano, validamente rappresentato dall’avv. Leonello Leonelli, la legittima proprietà della statuetta, ordinandone la riconsegna al Comune, quando fosse ultimato il restauro.

    L’operazione di recupero, lunga e difficile, si concluse, come già detto, nel maggio del 1979 con una mostra didattica a Roma dal titolo “Il restauro dell’Efebo di Selinunte”. In particolare, si provvide a svuotare la statua del cemento e dell’armatura metalllica posti nel corso del primo restauro; fu quindi predisposto un nuovo assemblaggio mettendo a punto una tecnica che permette di smontare e rimontare l’opera agendo su un sistema meccanico inserito all’interno del manufatto, ma non legato ad esso in modo irreversibile.

    Il 31 maggio, in singolare coincidenza con la conclusione della campagna elettorale che vedeva la candidatura del dott. Vito Lipari, già sindaco della città ed esponente di spicco della D.C. castelvetranese, su un aereo militare messo a disposizione dal ministro della Difesa, on. Attilio Ruffini, l’Efebo giungeva a Palermo e quindi, con verbale n. 1990, riconsegnato dal prof. Mauro Micheli, funzionario dell’Istituto Centrale di Restauro al comune di Castelvetrano, rappresentato dal sindaco Marilù Gambino, alla presenza del Soprintendente, prof. Vincenzo Tusa.

    L’Efebo rimase appena sei giorni a Castelvetrano; infatti, con delibera n. 606 del 6 giugno 1979, venne affidato “in comodato” al prof. Vincenzo Tusa il quale, come asseriva, intendeva esporlo al Museo di Palermo in occasione di una mostra dedicata ai reperti selinuntini. La delibera, cui si allegava una convenzione, è un capolavoro di ambiguità; infatti da una parte si dice che trattasi di un semplice prestito, valido per il periodo della mostra; dall’altro si dichiara di aderire alla richiesta di Tusa “in considerazione, anche, del fatto che l’Amministrazione provveda alla costruzione di una idonea custodia del prezioso cimelio”; e mentre si conveniva che il bronzo fosse restituito a semplice richiesta dell’Amministrazione, questa subito dopo si assumeva un obbligo che costituiva un vincolo oggettivo alla restituzione. Ecco spiegato pertanto il motivo di questa lunga, lunghissima “cattività”, per cui l’Efebo, prestato a Palermo per un mese, vi è rimasto poi per molti anni.

    Pur riconoscendo la legittima proprietà del Comune, l’Assessorato Regionale ai BB.CC. subordinava, infatti, il ritorno dell’Efebo alla realizzazione di una idonea struttura museografica che ne garantisse la sicurezza e il pubblico godimento.

    In effetti, il vecchio Museo Selinuntino, malamente ospitato in una stanza terrana del municipio, non poteva offrire alcuna garanzia; cosicché anche gli altri reperti, che ne costituivano la ricca collezione archeologica, furono posti, nel settembre 1983, sotto la custodia della Soprintendenza: una mortificazione che questa città, a causa della insensibilità di una certa classe dirigente, ha dovuto, assieme a tante altre, amaramente subire.

    La cosiddetta inaugurazione del nuovo museo, l’11 aprile 1987, aveva alimentato la speranza nel ritorno dell’Efebo; ma il museo chiuse lo stesso giorno della sua apertura, perché assolutamente sprovvisto di quei requisiti che la Soprintendenza reputava necessari per autorizzarne il funzionamento. Tale circostanza emerse in tutta la sua gravità nel corso del sopralluogo effettuato il 19 marzo 1988 (dopo un anno, cioè, dalla inaugurazione-fantasma) e fu ribadita dalla Soprintendenza nella nota n. 119 del 23 gennaio 1990.

    Si trattava quindi di adempiere alle prescrizioni imposte, per potere reclamare la restituzione dell’Efebo. Pertanto, una delle maggiori preoccupazioni della Amministrazione Comunale, a partire dal 1993, fu quella di munire il museo di tutti quegli accorgimenti idonei alla sicurezza del materiale archeologico: dagli allarmi collegati con la polizia, ai sensori, ai rilevatori di fumo, alla porta blindata, alle grate di protezione, alla sorveglianza continuata.

    Per l’Efebo, in particolare, si provvide ad una campana di vetro antiproiettile, in grado di garantire le condizioni ideali per preservare il bronzo.  Completato il museo, nulla si frapponeva ormai al diritto della comunità castelvetranese a riavere “lu pupu”, con buona pace di certo mondo accademico che ha sempre voluto dipingerci come dei barbari, insensibili alle ragioni dell’arte e incapaci di sollevarci alla contemplazione del bello; con buona pace di taluni apparati della politica che hanno sistematicamente giocato a discriminare, in nome di ben individuati interessi, questa parte della Sicilia e della provincia; con buona pace di coloro che, anche in mezzo a noi, non hanno mai seriamente creduto all’investimento culturale come fattore di sviluppo armonico del territorio; con buona pace, infine, di qualche esponente di certa nomenclatura che si è riempita la bocca di turismo e sviluppo, salvo poi avallare le più squallide operazioni speculative e di saccheggio del territorio, offrendo, magari, attestati e medaglie proprio a chi ostacolava i legittimi interessi di Castelvetrano: intelligenti pauca!

    E così, dopo essere stato esposto dal 27 marzo all’8 dicembre 1996 a Palazzo Grassi di Venezia, il 20 marzo 1997, l’Efebo di Selinunte, superate le ultime difficoltà burocratiche, venne finalmente riconsegnato al suo legittimo proprietario, il Comune di Castelvetrano, nella persona del sindaco Giuseppe Bongiorno che, a buon diritto, poté essere orgoglioso di aver portato a termine una vicenda così lunga e complessa.

    Per singolare coincidenza, quella mattina a Palermo, l’Efebo fu materialmente affidato alle mie mani, essendo io assessore delegato dal Sindaco, cosicché ho quasi rivissuto l'esperienza della consegna fatta a suo tempo da Siviero a mio padre, a Roma.

    Mi piace ricordare come in quel fausto giorno – caratterizzato dalla gioia nostra e dal malcelato malumore dei funzionari del Salinas - fossi accompagnato dal compianto dott. Paolo Natale e dal vigile Antonio Ferracane, mentre un particolare riconoscimento è doveroso tributare al prof. Giuseppe Libero Bonanno, assessore comunale alla Cultura pro-tempore, anch’egli in prima linea nel seguire la tormentata questione.

    Va, del pari, ricordata la sensibilità dell’on. Nicola Cristaldi, allora presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, che ebbe un ruolo chiave nel determinare le fasi della agognata riconsegna che, nella storia di Castelvetrano, va certamente iscritta in uno dei successi di quella compagine amministrativa alla quale ho avuto l’onore di partecipare.

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