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La fede che cambia, i preti moderni e non solo. Aspettando l’Aurora tra devozione e religiosità

di: Francesco Saverio Calcara - del 2022-03-30

Immagine articolo: La fede che cambia, i preti moderni e non solo. Aspettando l’Aurora tra devozione e religiosità

(ph. Baldo Genova)

Mai e poi mai avrei pensato, prima del Covid, di potere vivere una Pasqua senza l’Aurora, la festa che a Castelvetrano si deve fare per forza, se no, si la pigghia Trapani, come abbiamo imparato da bambini, quando i nostri genitori ci portavano in piazza, la domenica di Resurrezione, e come abbiamo insegnato ai nostri figli e nipoti.

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  • Dove né il colera, né la guerra, né il terremoto erano riusciti a interrompere la tradizione, ce l’ha fatta il maledetto virus, per la prima volta, dopo 360 anni, a privarci della nostra festa.

    Pare, comunque, che quest’anno torneremo a celebrarla, e mentre aspettiamo tempi migliori, l’occasione è buona per qualche riflessione su questa sacra rappresentazione.

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  • I riti della Settimana Santa hanno costituito, da sempre, occasione di pubbliche celebrazioni di pietà nel popolo castelvetranese. Con la processione del Venerdì Santo, l’Aurora accomuna Castelvetrano a tanti altri centri siciliani, dove, con nomi diversi ma con schema similare, si festeggia l’incontro fra il Cristo risorto e la Vergine Maria.

    La nostra particolarità, oltre nel nome di Aurora – che di là dal connotare l’ora mattutina in cui si svolge, ha un evidente significato propiziatorio relativo al senso cristiano della Pasqua - consiste forse nel ruolo di messaggero ricoperto qui da un grazioso angioletto, e nel volo di colombe, liberate da un meccanismo che fa scivolare il mantello nero di Maria al momento dell’incontro.

    Il rito popolare, che si inserisce nel quadro di quella spettacolarizzazione liturgica tipica dei paesi che gravitavano nell’orbita della monarchia spagnola, fu introdotto a Castelvetrano, verso il 1660, dai padri Carmelitani scalzi di santa Teresa, il cui convento, oggi distrutto, era annesso, alla chiesa di san Giuseppe.

    La confraternita dei falegnami e bottai curava l’addobbo e il trasporto del simulacro del Cristo risorto, mentre quella del Rosario si occupava della Vergine Maria.

    Scomparsa la compagnia del Rosario, è la confraternita di san Giuseppe, ancora esistente, a curare l’annuale appuntamento dell’Aurora, ricorrenza di cui Castelvetrano è tanto gelosa da far nascere, come detto, non si sa bene su quale base, la convinzione che se l’Aurora non si fa si la pigghia Trapani.

    Circostanza che, almeno una volta, fu seriamente temuta, nella Pasqua del 1717, allorquando, come narra il Ferrigno, per l’accidentale mancato rispetto della prerogativa della chiesa Matrice di dare i tocchi della Resurrezione, il burbero arciprete Giglio lanciò l’interdetto alla chiesa conventuale di S. Giuseppe, dove anche allora si custodivano le statue della festa.

    Il rischio che non si tenesse l’attesa funzione venne comunque evitato grazie al provvidenziale intervento di mons. Bartolomeo Castelli, vescovo di Mazara, che in extremis ne autorizzò lo svolgimento.

    Nei tempi passati si costumava sancire addirittura nei contratti matrimoniali l’obbligo dello sposo di condurre la propria moglie alla festa dell’Aurora e alla fiera della Tagliata; mentre i più anziani ricordano la lunga teoria di carretti che sin dalla notte del sabato venivano dalla vicina Campobello a prendere posto per la festa dell’indomani.

    Festa pagana, ha detto qualcuno; trasposizione in chiave religiosa di antichi riti primaverili legati al ciclo agricolo, pontifica qualcun altro; cosicché in passato anche qualche sacerdote, animato da falso spirito di rinnovamento e da uno zelo degno di miglior causa, ne aveva cautamente proposto l’abolizione.

    Mi par di comprendere che la preoccupazione sia quella di una religiosità che si limita solo alla suggestione, che cerca un rapporto col sacro fatto di fuggevoli impressioni piuttosto che di autentica conversione. Ma è una preoccupazione che, a questo punto,  dovrebbe indurre i parroci ad essere molto più cauti anche nel dispensare certi sacramenti, quali il battesimo, l’eucaristia o il matrimonio…

    Certo, spesso preferiamo rapportarci a statue di cartapesta sulle quali dipingiamo il dolore universale (Cristo morto, l’Addolorata) o la vittoria della vita (ecco le varie Giunte, Aurore, Paci, Incontri che si celebrano un po’ dovunque), che resta, tuttavia, al livello di sacra rappresentazione, alla pirandelliana dimensione dell’eterno teatro; di qualcosa che è bello a vedersi o a farsi, ma che dopo, quando torniamo a casa, non ci riguarda più.

    Ma non voglio avventurarmi in analisi sociologiche né – Dio me ne guardi ! – propugnare l’abolizione o la trasformazione delle tradizioni religiose concernenti la Settimana Santa. Vorrei solo riflettere sulla necessità di superare appunto la suggestione, verso la radicale e coinvolgente assunzione di responsabilità che deriva dalla fede nella morte e resurrezione di un uomo che disse di essere Dio.

    Si tratta di fare davvero Pasqua, di “passare” cioè da un fideismo accomodante alla trasformazione interiore che capovolge tutto il sistema di valori basato sulla logica del successo e dell’apparire. Ma per arrivare a questo, non serve a nulla scagliarsi contro gesti e segni che si ripetono da secoli e che sono entrati nella stratificazione culturale di un popolo e che, non essendo di per sé sconvenienti o blasfemi, val la pena di convogliare verso una più convinta assunzione di fede.

    Il rischio, altrimenti, è quello di non essere compresi o, peggio, di essere fraintesi e, come suol dirsi, di gettare con l’acqua sporca anche il bambino che vi è immerso. Sentiamo piuttosto la necessità di testimoni coerenti, di annunciatori fedeli della Parola.

    Molti preti hanno creduto che bastasse alla loro missione il fatto di apparire aggiornati, di essere controcorrente, di fare i moderni, mentre ciò di cui gli uomini (e i giovani, soprattutto) hanno bisogno è di sentire qualcuno che proclami loro la Verità, anche se scomoda e difficile. Di questo abbiamo bisogno in particolare noi Siciliani, così bravi nel rabberciare, nel mediare, nel giustificare; così insuperabili nell’arte del compromesso; così ostinatamente presuntuosi nel pensare di essere sempre i migliori perché abbiamo capito tutto, e così tragicamente “isole”. “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no. Tutto il resto viene dal maligno”: è questo che dobbiamo imparare.

    Per tornare all’Aurora, a qualcuno potrà apparire una festa pagana, o la trasposizione in chiave religiosa di antichi riti primaverili legati al ciclo agricolo. A me sembra, invece, che il rito vada conservato e valorizzato, quale espressione della simbologia della vittoria della vita sulla morte; e ciò mi sembra importante, di là dal valore religioso, che pure è importante e va riscoperto, anche come fattore di riscatto da un’idea tanto sedimentata nell’anima del nostro popolo.

    Fra tutti, come dicevo prima, il pensiero della morte e di ciò che la segue ha da sempre attraversato la fantasia della nostra gente. Non a caso, uno dei più grandi scrittori siciliani, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ha individuato nel motivo della morte il protagonista implicito del Gattopardo: «Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte…».

    Il fascino oscuro della morte e dell’aldilà è largamente attestato in Sicilia dalle fonti e dal  mito. Il passaggio dalla sfera mitica al rito si applica in modo esemplare proprio nell’Isola, quando si parla di Demetra e Kore, le due divinità note per i misteri eleusini. La vena ispiratrice di questo mito è legata all’attività agraria e alla fecondità; l’agricoltura e i suoi simboli, il grano, la spiga, sono il sostrato di base da cui si sviluppa tutta la vicenda, per culminare nel rapimento della figlia, e si traduce nell’avvicendarsi del ciclo stagionale di nascita-morte-rinascita.

    A questo si affianca il rituale del rapimento, della discesa agli inferi, della theogamia con Ade, della ricerca da parte della madre, del ritorno di Kore sulla terra. La stessa presenza del santuario di Malophoros a Selinunte è la testimonianza più prossima di quanto il culto dell’oltretomba sia radicato nella memoria collettiva del nostro popolo.

    Intesi a procurare la felicità oltre la tomba, i misteri rivelavano probabilmente la via che l'anima era obbligata a seguire dopo la morte: «Felice è chi ha ricevuto tale visione prima di scendere sotto terra; - esclama Pindaro - egli conosce cosa sia la fine della vita; ne conosce il principio donato da Zeus».

    Né è estranea al deposito di tale struttura mentale la fortuna in Sicilia, durante la dominazione araba, di un testo che si vuole sia stato fra i modelli della Commedia di Dante: il Libro della Scala di Maometto, nel quale si sviluppa il concetto di ascesa dell’anima individuale nei regni ultraterreni, come allegoria della purificazione graduale dell’uomo; un elemento, questo, che fin dal secolo VIII costituisce il motivo di fondo di numerosi racconti mistici ispirati al miraj di Maometto.

    E non è fortuito che a uno di questi racconti si ispiri un’opera cristiana, redatta in Sicilia alla fine del sec. XII e resa nota da M. T. D’Alverny in Les pérégrinations de l’âme dans l’autre monde (1940-42), nella quale l’anonimo redattore, che aveva molta familiarità con la filosofia neo-platonica e con i commenti avicenniani ad Aristotele, prospetta, dopo la morte, un’ascensione dell’anima al Paradiso e una sua discesa all’Inferno.

    E come non ripensare al fatto che in Sicilia sono ( o erano) proprio i defunti a recare i doni ai fanciulli, segno di una ideale continuità generazionale, del radicato convincimento di una qualche forma di vita oltre la morte? o il perdurare, appunto, delle sacre rappresentazioni pasquali, retaggio della lunga influenza spagnola, nelle quali il dramma della passione di Cristo e dell’angoscia della Madre sono vissuti - in quella che Sciascia definisce, forse troppo frettolosamente, una visione materialistica della religiosità - come la proiezione del dolore universale, vissuto però nella prospettiva catartica e liberatoria della Resurrezione; laddove la gioia della vittoria della vita sulla morte, della luce sulle tenebre – Aurora, appunto! - si esprime sovente in toni che possono apparire, a chi non conosce sino in fondo l’animo del popolo siciliano, esagerati e quasi pagani?

    Mi sovviene a proposito quanto scrisse Jean Houel nel suo Viaggio in Sicilia, compiuto tra il 1776 e il 1780, allorché, assistendo proprio a Castelvetrano ad una processione religiosa, annotava che la sacra cerimonia si presentava più pittoresca che edificante, e aggiungeva: «La natura di questo popolo si rivela nelle feste. E spesso se non fossero trattenuti dal decoro che la religione comporta ed esige, gli impulsi di un santo zelo li porterebbero a stravaganze non meno strane che ridicole». Quel viaggiatore di Rouen aveva capito ben poco della Sicilia e dei Siciliani.

    Per dirla con Giuseppe Cocchiara, «il siciliano (…) sarà siculo-sicano, greco, arabo, normanno o quel che volete. Egli, tuttavia, è tutto ciò e nulla di tutto ciò. Era greco, e in Lui la nostalgia sicano-sicula agiva come forza assimilata. Era arabo, e in Lui  rimanevano i caratteri migliori della Grecità. Era normanno, e in Lui agivano i ricordi di tutte le dominazioni del passato. Le conquiste, le distruzioni e le spoliazioni non lo avviliscono: sono come la lava dell’Etna. Sotto la lava cresce la ginestra e la lava diventa di nuovo terreno; la stessa cosa accade al siciliano: come quell’arido terreno rinasce a nuova vita. E se i re hanno lasciato la loro storia nei palazzi e nel diritto, i popolani l’hanno segnata nella leggenda, nei culti, nei canti».

    Questa, dunque, la vera anima del popolo siciliano e, visto che una delle prassi più intelligenti della Chiesa è stata quella della inculturalizzazione, non si capisce perché non si possa adattare il kerigma al sostrato della nostra cultura popolare.

    E a coloro che storcono il naso, ritenendosi “cristiani adulti”, ribadisco di saper bene che non sono le manifestazioni esterne a misurare di per sé l’autenticità del sentimento religioso; ma so anche che “lo spirito soffia dove vuole”, che infinite sono le vie attraverso cui la novità del Vangelo può arrivare, e non comprendo, pertanto, gli atteggiamenti iconoclastici.

    Sia come sia, piaccia o meno, quel rito di Resurrezione costituisce un appuntamento in cui la comunità ritrova e rinsalda i vincoli della sua memoria storica, il senso della sua identità, della sua religiosità e della sua dignità di popolo, e dunque “Viva l’Aurora!”

    Francesco Saverio Calcara

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