L’antica “balata liscia” di Castelvetrano tra storia, riti e leggende smentite dal Ferrigno
di: Salvatore Di Chiara,Enzo Napoli - del 2022-08-03
Ogni singola informazione storica individuata, rappresenta un pezzo di vita castelvetranese. Ricerche e approfondimenti, rendono appetibili le conoscenze di un paese ancora “segretamente” intrappolato nei riti e nelle leggende populistiche.
All’angolo fra la via Vittorio Emanuele e la via Gioberti (secondo Centonze) o via Gioberti (ex via Agate - via Balata Liscia), secondo lo storico Ferrigno, è possibile vedere una lapide murata a tre metri dal suolo che riporta le parole “Cantone della Balata Liscia”.
Quale significato assume e quali sono i riferimenti storici? Sono comunemente riconducibili a delle usanze dei secoli scorsi, che meritano un approfondimento conoscitivo. Sotto la stessa lapide, nell’incurvamento del marciapiede, era posizionata una balata divenuta celebre per essere “liscia” e l’uso frequente che se ne fece nel tempo.
Le leggende metropolitane divennero abbastanza ripetitive a tal punto che alcune rimasero schiave di un’idea primitiva e rigorosa del concetto. Tra le più gettonate, senza dubbio, l’uso per discriminare la moglie adultera la quale eniva condotta, incatenata e mostrata in pubblico per la sua infedeltà.
Altri raccontavano di un momento “d’indignazione” per quei ladri catturati che venivano legati attorno alla balata e quindi, fustigati. Grazie alla mente sapiente dello storico Ferrigno, il quale riuscì ad esaminare diversi documenti, venne a galla una verità certa che mise a tacere quella scia di leggende immaginarie.
Dall’Archivio delle Tradizioni popolari, ricavò la dicitura “... Et ob dictus Franciscus Giacone, ter tacto natibus discopertis, in ejus vituperium dicendo: chi ha d’aviri si venghi a paghi, cessit et cedit bona sua dictis ejus creditoribus juxtaforma dictarum litterarum..”.
La parte conclusiva fu individuata durante un processo verbale a Salaparuta del 1633. Quindi, la sostanza si ridusse al mancato pagamento delle somme ricevute e l’incubo della gente di trovarsi nella condizione di debitore degli stessi importi.
La lapide rappresentava “la pietra dei debitori”, da utilizzare in un momento preciso davanti ai creditori. Un’immagine triste e pubblicizzata dal banditore, che chiamava la gente in massa. Una volta giunto sul lastrone, il debitore abbassava le braghe e batteva per tre volte il sedere sulla pietra, invitando i creditori a venirsi a pagare (grazie all’umiliazione posta in atto) della somma insolvente.
Entrava in atto il beneficio della “cessio bonorum”, una sorta di pignoramento degli averi dove si lasciavano solamente i beni di prima necessità. Sin dai tempi antichi, si poteva pretendere il corpo di colui che non pagava le somme dovute e condannarlo a morte.
Giulio Cesare pose fine, nel I secolo a.C., alla legge ad hoc e introdusse il “cedo bonis”. Ritornando alla nostra Castelvetrano e la possibile datazione in cui venne abolito il rito, si presume sia avvenuto attorno al 1848. Alcune fonti indicano la fine del Settecento.
Quest’usanza era in voga in tutta Italia e parte dell’Europa (Firenze, Napoli, Torino, Padova, Amsterdam, Prussia e Francia). Dimostrava un uso e costume per evidenziare il fallimento morale dell’essere umano e, in assenza di un tribunale in grado di giudicare il torto subito, la balata era il chiaro esempio di giustizia improvvisa. Un’umiliazione dalle ampie proporzioni, che spingeva spesso il debitore al suicidio per la “vergogna” pubblica subita.
Un pezzo di storia internazionale vissuta anche nel nostro paese. Una pagina in chiaroscuro dai connotati rigidi, racchiusa in un angolo che merita un ricordo malinconico.
Un ringraziamento allo storico Napoli per l’impegno profuso nel concedermi una foto “decente” e oscurata dalla presenza di oggetti indesiderati.