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C'era una volta a Castelvetrano “lu caliaru”, “lu chiancheri” e non solo. Ricordi di un tempo che fu

di: Vito Marino - del 2019-02-21

Immagine articolo: C'era una volta a Castelvetrano “lu caliaru”, “lu chiancheri” e non solo. Ricordi di un tempo che fu

Il tempo malvagio scorre veloce e porta con sé vicende e ricordi di vita vissuta, gioia e dolori di cui è seminata la strada della nostra vita. Nell’immediato dopoguerra, Castelvetrano risentiva ancora gli effetti deleteri di una guerra assurda; ai più fortunati la vita offriva poche attrattive, e limitati svaghi e divertimenti; per molti altri, la vita offriva soltanto fame e sofferenza: fino agli anni ’46 – 47 ricordo che c’erano molte persone che camminavano a piedi scalzi e i pantaloni rattoppati o logori, restando a digiuno intere giornate.

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  • I così detti fortunati, per come li ho chiamati, perché avevano un lavoro assicurato o perché proprietari terrieri passavano il loro tempo libero al circolo, passeggiando con gli amici e andando al cinema la sera. Allora c’era il cinema Marconi con il proprietario Marco Rossano seduto davanti al suo locale con gli amici a chiacchierare; c’era anche il teatro Selinus, che, rimasto chiuso durante gli avvenimenti bellici, riapre nell’immediato dopoguerra, come sala cinematografica di infima categoria; infine c’era il cinema “pirocchino” (perché piccolo), il dopolavoro ferroviario.

    Dopo gli anni ’50 a gestire il Marconi e il Selinus furono i fratelli Nino e Gioacchino Barbera. Pertanto, chi poteva godersi le “delizie”, che la vita di allora offriva, la sera, prima di andare al cinema, aveva la consuetudine di comprate dal “siminzaru” o “caliaru” (produttore di semi tostati) un “coppu” (contenitore conico di carta gialla resistente), contenente un “mmiscu” di “calia, simenza e nuciddi americani atturrati” ( miscuglio di ceci, semi di zucca e arachidi tostati) da consumare durante la proiezione della pellicola.

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  • Lu caliaru” abitualmente di sera, si trovava posteggiato davanti la chiesa Madre, di fronte alla via Vespri dove c’è tutt’ora il cinema Marconi. Ma per i “liccuti” (golosi) c’era la pasticceria Urso che si trovava all’angolo fra la Piazza Garibaldi e la Via Vespri. Anche la domenica, all’uscita dalla messa molte persone acquistavano il famoso “coppo” pieno di “mmiscu” che portavano a casa o consumavano, dopo la messa, durante il passeggio inevitabile, prima del rientro a casa per il pranzo.

    Per rendere i semi sempre croccanti, durante l’inverno, sotto la bancarella, “lu siminzaru” tratteneva “lu scrafamanu” (lo scaldamano), una bacinella piena di carbonella accesa. Ma “lu siminzaru” si dava da fare, e in ogni ricorrenza festiva era in giro con la bancarella provvista di “ruote a palline”, davanti una chiesa o dietro alle processioni o, in occasione della manifestazione dell’Aurora, in Piazza Garibaldi.

    Dietro le processioni, una volta c’era lu zzu Totò lu gelataru, lu zzu Vannuzzu Pellicane, con i suoi “bomboloni”, ma c’era anche Andrea Guarino “lu caliaru(in foto), tutti con la loro rispettiva bancarella. Mi è stata mostrata una foto anni ’50 rappresentante una bancarella provvista di semi tostati e con dietro Andrea Guarino “lu caliaru”.

    Evidentemente il sig Andrea Guarino in quella foto era più giovane dell’immagine da me archiviata nella mia memoria. Infatti nella mia memoria c’è un Guarino degli anni ’70, quindi ingrassato e imbiancato. In ogni caso me lo ricordo benissimo dietro la su bancarella e vendere la mercanzia; me lo ricordo anche davanti la sua abitazione in Piazza Alfieri a fianco della chiesa dell’Addolorata.

    Lo ricordo, perché allora mi recavo spesso da mio padre falegname, che aveva la bottega in via Ruggero Settimo, quindi lì vicino. Il sig. Guarino metteva ad asciugare al sole i semi di zucca, già lavati, prima di tostarli; allora, non circolando macchine, molti lavori artigianali si effettuavano per strada o sui marciapiedi.

    Il Guarino metteva dei teli per terra, sui marciapiedi più larghi di Via Ruggero settimo o addirittura sulla stessa piazza Alfieri e vi stendeva sopra i semi, quindi faceva la guardia, fino a che i semi non si fossero asciugati. Un figlio del Guarino, almeno per un anno ha frequentato la scuola elementare con me, in seguito anche lui aveva una bancarella e vendeva panini e panelle. Intorno agli anni ’70 il Guarino, evidentemente si ritirò da questo lavoro e subentrò nello stesso posto, davanti la chiesa Madre, don Vannuzzu Pellicani, che, oltre a vendere semi tostati, vendeva “bombolona”  (caramelle artigianali di allora) che lui stesso preparava sulla stessa bancarella.

    Da bravo osservatore che sono sempre stato, ricordo che stavo spesso a guardare con interesse tutta la fase della lavorazione. Non ci dobbiamo meravigliare di questa usanza poco igienica per i nostri giorni, anche perché allora le mosche proliferavano in abbondanza e molte strade ancora non erano asfaltate; quando soffiava il vento la polvere si alzava e investiva gli alimenti esposti all’aria per le strade.

    Si trattava di una semplice e normale tradizione; allora non c’erano gli essiccatoi per asciugare certi alimenti, ma ancora non c’era l’inquinamento atmosferico e automobili ne passavano una “ogni morti di papa”. Ricordo che anche “lu chiancheri” (il macellaio), il venerdì, quando “scannava” (macellava gli animali) metteva la carne a sgocciolare ed asciugare, appesa ad un gancio, davanti la sua bottega “la chianca”.

    Anche i pastai mettevano ad asciugare la pasta al sole sul marciapiede o per strada, su degli stenditoi. Nella stessa piazza Alfieri, ad angolo con la via Colletta c’era il pastificio di Giammarinaro, altri pastifici di cui ho dei ricordi sono: (Guarino in piazza San Giovanni e Montalbano in Via Garibaldi). Ma in Via Crispi c’era anche il cappellaio che metteva ad asciugare davanti la sua bottega la pelle di animali, che rappresentavano la materia prima per i cappelli di lusso.

    Tuttavia, la bancarella del “siminzaru”, del venditore di “bombolona” la carrozzella del gelataio, nonché la figura del Guarino, del “zzu Totò” e di “don Vannuzzu” erano delle note folkloristiche che abbiamo perso. Le sementi, la pasta, ma anche le pelli del cappellaio che mettevano ad asciugare al sole erano delle attrattive che ancora troviamo nei popoli in via di sviluppo e che noi oggi andiamo a visitare e fotografare.

    Se la globalizzazione ci ha un poco svegliati del “sonno” gattopardesco, è pure vero che ci ha rubato le nostre tradizioni, la cultura di casa nostra, che restano ancora vivi soltanto nella memoria di chi ha un’età avanzata.

    Per la foto si ringrazia "Il castelvetranese doc"

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