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“Li carteddi" e "li panara”. Quando il fiume Modione era utilizzato per l’irrigazione dei canneti

di: Vito Marino - del 2018-04-07

Immagine articolo: “Li carteddi" e "li panara”. Quando  il fiume Modione era utilizzato per l’irrigazione dei canneti

“La cartedda e lu panaru” (la corba o cesta e il paniere), elementi insostituibili durante la civiltà contadina erano dei contenitori generici, per contenere e per trasportare i prodotti della campagna; nel palermitano si chiamavano “gistri”.

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  •  -La “cartedda” serviva in modo particolare per contenere l’uva raccolta durante la vendemmia e per il trasporto della stessa fino al palmento; qui l’uva si pestava in un’apposita vasca “scudedda” con i piedi, e si pressava con la “viti”; argomenti che tratto a parte.

    Fino agli inizi del 1800 ancora non esistevano le strade carrabili e tutti i trasporti per  piccole distanze si effettuavano a dorso dei muli; nel caso in esame, le “cartedde” si legavano a dei ganci del “sidduni” (la sella), poste due a destra e due a sinistra.

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  • La stessa cosa avveniva per la raccolta e il trasporto di arance, limoni, angurie, mandorle e frutta in generale. “A lu scagnu” (al mercato all’ingrosso) i vari locali erano pieni di “carteddi” da 25 Kg. circa di contenuto o di “cartidduna”, ceste ancora più grandi.

    Per la cova delle uova, secondo il procedimento naturale, in una “cartedda” si metteva della paglia, sopra si sistemavano le uova fecondate e quindi, si poneva la “ciocca” (la chioccia), per covarli.

     -“Lu panaru” (il paniere) serviva per il trasporto manuale di prodotti agricoli delicati che facilmente si schiacciavano, come ad esempio la frutta, le uova e i pomodori. Allora la frutta era considerata un alimento voluttuario e di un certo valore; volendo fare un regalo, non c’era di meglio che regalare un paniere di frutta fresca, come fichi, uva, fichi d’India.Nel paniere, prima di porre la frutta si mettevano foglie di fichi o di viti, per rendere le pareti e il fondo più soffice.

    Col paniere si trasportavano anche le more di gelsi: d’estate, la mattina molto presto  passava  per le strade “abbanniannu” (gridando a viva voce), “lu ciusaru” con uno o due panieri di more appena raccolte, ancora fresche di rugiada  e li vendeva a “pitanza”, cioè un tot stabilito ad occhio, che il “ciusaru” metteva in una foglia di fico, come contenitore. Ma il paniere serviva come contenitore generico: così, le uova si portavano in un paniere rivestito all’interno di stoffa e,  quando si partiva per la villeggiatura a Selinunte con il treno, nel paniere si mettevano le bottiglie d’olio e di vino, che restavano in piedi e non  versavano il loro contenuto.  

    Dovendo parlare della costruzione di “carteddi e panara” (ceste e panieri) è indispensabile parlare anche della canna comune, che ne rappresenta la materia prima.

    Durante la civiltà contadina, non esisteva un prodotto della natura che non venisse utilizzato; così la “zabbara” (agave), la canna, la “ddisa” (ampelodesmo), la “curina” o “giummara” (la palma nana) oggi considerate piante inutili, invadenti da estirpare o considerate piante in via d’estinzione, venivano utilizzate le varie parti, dalle foglie alle radici.

    La canna comune o canna domestica è una pianta erbacea perenne e dal fusto lungo, cavo e robusto, che cresce, a dense macchie: “cannitu”, in terreni anche poveri. Secondo un’antica tradizione popolare la canna verde era considerata velenosa; infatti si diceva che bastasse toccare con la punta di una canna un serpente, che questi moriva. Il velo bianco contenuto all’interno della canna si usava per coprire le leggere ferite. La canna raccolta durante lo scirocco, stagionando diventa “masca” (molliccia) e quindi inutilizzabile. La canna verde, con tutte le foglie veniva usata, a volte, come ornamento e come segnale, davanti ai cortili, in occasione di feste popolari religiose, come quella di San Giuseppe. In campagna, una canna verde con tutte le foglie infilzata nel terreno era considerato un messaggio lasciato dal  proprietario al pastore per indicare la presenza di piantine da rispettare.

    Un detto antico diceva:  “Lu focu di la canna picca dura”; infatti, il fuoco di canna e, specialmente di “ova di canna” (le radici), come quello di paglia, dura pochissimo; tuttavia, siccome una volta non si buttava niente, si usavano per “camiari” (riscaldare) il forno; un proverbio, infatti diceva: “cu fa lu focu di canni e di pagghia perdi lu tempu e malu si cunsigghia”. La canna è anche considerata simbolo di leggerezza di carattere. “Arristari cu ‘na canna ‘nta li manu” significava restare “povero in canna”.  

    La canna si presenta solida, elastica, leggera e si trova facilmente anche allo stato selvatico, quindi ad un costo accessibile; pregi, difficilmente raggiungibili da altri prodotti della natura. A documentare l’importanza delle canne nel passato, cito G. B. Noto, che nel 1732, nel suo libro: “Platea della Palmosa Città di Castelvetrano”, così scrisse: “Il fiume Modione era utilizzato per l’irrigazione dei canneti, tanto necessari per le culture delle vigne. L’irrigazione si effettua nei mesi da maggio agosto”.

    Le canne destinate alla lavorazione devono essere dritte, robuste e  “sanzeri o sanizzi” (non ammalate); inoltre, devono stagionare 4 mesi senza togliere il fogliame che l’avvolge.

     -Con la canna tagliata a misura desiderata si potevano ottenere: - Ditali dei mietitori da porre sui diti mignolo ed anulare della mano sinistra per evitare di ferirsi con la falce, “agugghera” (agorai, contenitori per aghi), tutori per vigna e alberetti, come segnale per assestare un terreno per vigna, come “furcedda o staccia” per tenere alta la “curdina” (corda per stendere la biancheria), gabbie per gli uccelli e per gli animali da cortile, forchette, pipe, “friscaletta” (zufoli), girandole, “cannola” (cerbottane per il “caccamo”), frangivento per proteggere le viti, tettoie per il sole, “cannari” per mettere a scolare “li vasceddi” (le forme di ricotta e di formaggio) e per essiccare al sole fichi e pomodori, canne da pesca, “cannedda” per spillare il vino dalla botte, il fucile per giocare i bambini, manico per la scopa, le logge al mare, ecc..

     -L’intreccio delle fibre era una delle arti più antiche dell’uomo nell’utilizzare i prodotti della natura; un’arte che apre la strada alla tessitura. Tra i materiali d’intreccio la canna era  quella più largamente adoperata. Per tale lavoro la canna si tagliava in quattro parti a strisce lunghe, che servivano  per la costruzione di: “cannizzati” (cannucciate) per tettoie d’ombra e per la costruzione di soffitti e muri divisori, con l’ausilio del gesso; si preparavano “cannizzi” (per la conservazione del grano), “panara, carteddi e cartidduna” (contenitori già trattati), “cannistra” (canestri). Per irrobustire detti contenitori si intrecciavano anche rametti di “agghiastru” (oleastro) o di tamerice o di olmo o frassino, che crescono alla base delle piante adulte (polloni). Inoltre, due strisce di canna servivano come scheletro (una tesa e una ad arco)  per la costruzione della “cumerdia” (l’aquilone), che i ragazzi più bravi sapevano preparare da soli.

    Se la lavorazione avviene con strisce di canne ormai secche, esse si rompono facilmente durante la manipolazione, quindi si devono mettere in acqua a rammollire. Il cestaio, che spesso era lo stesso contadino provvedeva pure ad “impagliare” damigiane e fiaschi di vetro, con lo stesso materiale e sistema del paniere, per proteggerli dagli urti.

     

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