"Lu cafe’ nella storia castelvetranese ricordando il cavalier Zonfrillo e “La cafittera”
di: Vito Marino - del 2015-06-29
“Cauru cauru è, accattativi lu cafè...”, “Susitivi chi tardu è, accattativi lu cafè”. Mia madre mi raccontava che verso gli anni ’30 – ’40, quando ancora non si sapeva dove stesse di casa l’igiene, era facile sentire per le strade “l’abbanniata” del venditore di caffé. La bevanda calda, oltre che nei bar, si poteva vendere anche in un qualsiasi “putiaru” (bottegaio); infatti, nel rione San Giovanni c’era una bottegaia soprannominata, per questo motivo, “La cafittera”.
“La putiara”, in una civiltà maschilista, era uno dei pochi casi in cui la donna poteva esercitare un mestiere senza che nessuno avesse nulla da ridìre. Il caffé generalmente si vendeva verde dalla bottegaia; nelle case di quei tempi non mancava mai “l’atturraturi”, spesso sostituito da un tegame di terracotta fuori uso, e “lu macina cafè” (il classico macinino con la manovella). Molte famiglie si preparavano il surrogato in casa con l’orzo torrefatto. Mentre il macinino del caffè si trova facilmente come sopramobile in quasi tutte le case, l’atturraturi è più difficile da trovarsi.
Allora la torrefazione si eseguiva con il fuoco del carbone, sulla furnacella. “Lu tuffu” (i fondi del caffé) era detto anche “rituffu”. Una persona, che aveva una pessima moralità e reputazione, era considerata un “rituffu” della società.
Fino agli anni ’50 circa, come bibite esistevano in commercio solo le gassose ai vari gusti. Volendo preparare in casa una bibita gradevole e dissetante, si aggiungeva un po’ di caffé all’acqua fresca del pozzo o del “bummuliddu di Sciacca” (tante volte citato) per ottenere “l’acqua cafiata” oppure limone spremuto e zucchero o latte di mandorla.
Intorno agli anni ’50, nel centro storico della vecchia Castelvetrano, famoso era il caffè Stella, posto in Piazza Principe di Piemonte, più comunemente conosciuta come “Piazza del caffè Stella”. Era un bar ampio, elegante, pulito e ricco di specchi alle pareti; famosa era la granite di limone che servivano la mattina d’estate.
Nella stessa piazza c’era un altro bar, meno rinomato, ma noto a tutti per gli assurdi racconti di caccia, raccontate dal proprietario, cavalier Zonfrillo. In Via Vittorio Emanuele c’era l’extrabar.
Allora per le strade passavano pochissime macchine e carrozze, per cui i tavolini dei caffè occupavano, oltre ai marciapiedi, una fetta delle strade e delle piazze. Anche allora questi locali erano frequentati assiduamente da viziosi, scansafatiche e da chi stava bene economicamente. Come avviene oggi, anche allora gli avventori parlavano di sport, di politica e giudicavano il prossimo. Erano delle proprie vetrine viventi in cui gli avventori si mettevano in mostra e nello stesso tempo si “godevano il passeggio” scrutando i passanti e criticando.
Quando l’Italia pensò bene di assicurarsi un posticino al sole d’Africa, il prezzo di questa bevanda diventò proibitivo e difficilmente si trovò in commercio. Il popolo si vendicò verso il Re d’Italia con questa rima: - “Quannu era re / aviamu lu cafè, / ora ch’è ‘mperaturi / n’arristà l’atturraturi.
A proposito di caffè, riporto una conversazione tratta dal primo capitolo del romanzo “L’amante inglese” di Leda Melluso, dove il conte Guido Guarneri e Fabrizio Ruffo, principe di Castelcicala per distrarsi, bevono un caffè. "Lento, troppo lento... una brodaglia... acqua di polpo.
Non capisco questo improvviso amore dei napoletani per il caffè. Una moda, solo una moda che non può attecchire in città", sbotta il principe allontanando con la mano la tazza di porcellana.
Viene da riflettere su questa battuta marginale: il caffè è per definizione progressista e sovversivo, mentre la cioccolata, che compare sulla scena europea in concomitanza, ha un che di reazionario e soporifero. Il primo, dunque, ideale per i palati irrequieti e democratici; la seconda, più congeniale al gusto codino e nostalgico, più contigua alle mollezze e ai deliqui.
Viene quasi naturale associare la caffeina alla rivoluzione, mentre il «brodo indiano» fa da perfetto pendant al più bieco conservatorismo. Non è un caso del resto che nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 guarda caso di Vincenzo Cuoco, a un certo punto si legga che un condannato a morte, "prima di avviarsi al patibolo volle bevere il caffè".