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Morto Scalfaro. Presidente della Repubblica nel periodo delle stragi di mafia

un'intervista del 2009 cerca far luce sulla tattativa Stato-mafia

(fonte: Corriere della Sera) - del 2012-01-29

Immagine articolo: Morto Scalfaro. Presidente della Repubblica nel periodo delle stragi di mafia

Si chiude un capitolo della storia politica italiana. È morto nella notte, all'età di 93 anni, Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica tra gli anni '92 e '99, anni caratterizzati sopratutto dalle stragi di mafia, in cui, tra gli altri, persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino.

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  • È soprattutto sulla trattativa Stato-mafia e sul possibile collegamento tra Scalfaro e le stragi di mafia che la nostra redazione si è voluta soffermare, riproponendo un'intervista, fatta al Presidente nel luglio del 2009, di Marzio Breda del Corriere della sera:

    Presidente Scalfaro, si indaga sull’ipotesi che pezzi delle istituzioni abbiano avviato una trattativa con la mafia nei 55 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio, 17 anni fa. E che il giudice Borsel­lino sia stato ucciso — come dice il procura­tore di Caltanissetta — «perché non voleva la trattativa o per costringere lo Stato a veni­re a patti». Che ne pensa?
    «Voglio essere netto perché questa è una materia che non ammette equivoci o ambigui­tà: nessuno, in nessuna maniera, né diretta né indiretta, e neanche ponendo il tema sotto forma di interrogativo, mi ha mai parlato di cose del genere quando ero presidente della Repubblica. E, come sa, lo ero diventato esat­tamente in quel periodo, subito dopo l’atten­tato in cui rimase ucciso Giovanni Falcone».

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  • Ma le pare uno scenario inverosimile, quello di una «regia esterna» tratteggiato da diversi pentiti e dallo stesso capo dei ca­pi, Totò Riina?
    «Non è la prima volta che il mondo della mafia cerca di capovolgere le situazioni scari­cando una serie di sospetti sullo Stato. Quanto ai servizi de­viati, hanno una lo­ro storia e chi ha lun­ga esperienza parla­mentare ne ricorda alcuni capitoli. I ser­vizi deviati sono pe­rò anche il primo e più comodo teore­ma che le varie orga­nizzazioni criminali possono presentare a proprio discarico, con la tattica del depistaggio. A volte si ha la sen­sazione che i servizi di sicurezza in quanto ta­li, in Italia, possono esserci oppure no, ma i servizi deviati, quelli sono diventati ormai un’istituzione fondamentale. Anche se è qua­si sempre mancata la prova della loro esisten­za » .

    Neppure la successiva stagione di stragi, del ’93, targate anch’esse Cosa Nostra, le diede la sensazione che le cosche «facesse­ro politica» con le bombe? Che intrattenes­sero in quel modo un feroce dialogo con ap­parati dello Stato, inserendosi nel passag­gio tra Prima e Seconda Repubblica?
    «Ebbi più che una sensazione. Dietro quel­le vicende, infatti, si intravedeva, se non una strategia unitaria che riconducesse ad appara­ti dello Stato, un intreccio di interessi che si sovrapponevano, mettendo a rischio la sal­dezza democratica del Paese. Un pericolo che denunciai agli italiani, con quel messaggio te­levisivo di cui i giornali di solito tramandano solo la frase del 'non ci sto'».

    Che cosa spiegò, allora, che fosse riferibi­le a questa catena di misteri?
    «Dissi quel giorno, il 3 novembre 1993: 'Prima si è tentato con le bombe, poi delegitti­mando la politica, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali, attaccando l’istituto costituzionale della presidenza della Repub­blica... a questo gioco al massacro non ci sto'. L’allarme era lanciato. Ci fu chi non perdonò il mio pubblico avvertimento su quelle mos­se destabilizzanti».

    Insomma: lei esclude che qualche uomo delle istituzioni abbia negoziato con Cosa Nostra. Però ricorda che «il combinato di­sposto » dello stragismo dei corleonesi, di alcune attività dei servizi deviati e di qual­che entità politica rappresentava — di fatto — un progetto di destabilizzazione.
    «Parlerei piuttosto di un intreccio di inte­ressi sovrapposti. Esprimevo ciò che stavo vi­vendo in prima persona, dopo aver assistito a dei veri e propri atti di guerra (le bombe ma­fiose) e dopo aver colto da certi ambienti (contigui alla politica, ma non solo) diversi segnali di intimidazione. A chi insiste sulla faccenda della trattativa e del famoso 'papel­lo' sul quale Riina avrebbe scritto le condizio­ni di Cosa Nostra, l’unica risposta possibile dev’essere di assoluta cautela, per non intossi­carci tutti. Anche se non si può mai escludere che ci possano essere state persone, nell’am­ministrazione dello Stato, che abbiano tradi­to i loro doveri. Come non si può escludere che anche un criminale dica a volte una veri­tà » .

    L’ex ministro dell’Interno Enzo Scotti re­crimina d’essere stato spostato improvvisa­mente agli Esteri, nel giugno convulso del 1992. E cita, come una singolarità tutta da capire, il fatto che aveva appena varato un decreto con misure eccezionali contro la mafia.
    «Non mi pare che siano sensate doppie let­ture: c’erano state le elezioni ed era cambiato il governo. Il nuovo premier, Giuliano Ama­to, su indicazione della Dc, insediò al Vimina­le Nicola Mancino. Una scelta considerata otti­ma per le responsabilità politiche che Manci­no aveva ricoperto e per il prestigio che si era conquistato in Parlamento, e che fino ad allo­ra non aveva ricoperto incarichi di governo. Ma, ragionando su quella stagione, va ricorda­to il lavoro svolto dall’allora capo della Poli­zia, Vincenzo Parisi, funzionario eccezionale, con grandi doti professionali. Uomini così non avrebbero avallato mai trattative incon­fessabili per far 'alleggerire la posizione giudi­ziaria' dei boss mafiosi».

    Mancino ha spiegato che nessuno chiese allo Stato di trattare. D’altra parte Luciano Violante, all’epoca presidente dell’Antima­fia, sostiene che il negoziato era «tra le cose possibili».
    «Insisto che bisogna stare molto attenti a non superare i confini tra vero-verosimile-fal­so, quando si analizzano vicende complesse come questa. Qui è il compito essenziale e as­sai delicato del magistrato, qui si entra nella sfera dell’indipendenza e dell’autonomia del­la magistratura. Servono fatti, elementi, no­mi, prima di sbilanciarsi in un giudizio. Rian­dando con la memoria a quei giorni, c’è però una suggestione che mi torna alla mente. La coincidenza per cui, ucciso un magistrato, Fal­cone, il Parlamento avesse deciso in poche ore di puntare su un parlamentare magistrato come me, per il Quirinale. Fu un segno che ho sempre tenuto presente».

    L'intervista completa sul Corriere della Sera

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