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La Chiesa della Tagliata: storia e il perchè della sua denominazione

di: Vito Marino - del 2014-02-21

Immagine articolo: La Chiesa della Tagliata: storia e il perchè della sua denominazione

Una volta il territorio di Castelvetrano era cosparso di piccole chiese campestri generalmente costruite, per fede, nei bagli dei ricchi proprietari terrieri. Alla periferia di Castelvetrano, in fondo alla via omonima, vicino lo stradale per Palermo, ne esiste una del XVII secolo: “La Chiesa della Madonna della Tagliata”.

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  • Nel lontano passato ogni chiesa costruita aveva alle spalle una leggenda che si riferiva alle sue origini. Sulla nascita di questa chiesa, narra la leggenda che intorno al 1600 dei “pirriatura” (operai addetti alle cave di tufo), mentre lavoravano per l’estrazione di “cantuna” (conci di tufo), sentirono una voce proveniente dal sottosuolo che diceva ripetutamente: “taglia, taglia”, incitandoli a lavorare più speditamente; stando sempre alla leggenda, ad un certo punto trovarono una giara che conteneva dentro un quadro raffigurante una Madonna con il Bambino in braccio.

    La notizia si sparse e per fede nel 1634, nello stesso luogo del ritrovamento, lungo l’ex reggia trazzera, fu costruita una piccola chiesa campestre a navata unica.  

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  • Siccome in quegli anni si verificarono diversi miracoli fra i fedeli della Vergine Maria, in ricordo della voce che ripeteva “taglia, taglia”, nel 1711 fu deciso di chiamare la sacra immagine: “Madonna della Tagliata”; nello stesso anno la chiesa fu ampliata. Successivamente fu rimaneggiata con un bel portale stile rococò.

    Da quanto riferisce il Ferrigno, il viceré Fogliani in onore della Madonna e su richiesta del sacerdote don Antonio Spallino del 17 agosto 1758, il 04 gennaio 1759 concesse il formarsi di una grande fiera che si doveva svolgere nei giorni decorrenti dal venerdì antecedente la terza settimana di settembre fino al martedì  successivo alla domenica. Nonostante l’immagine della Madonna fosse molto venerata, la chiesa col passare del tempo fu a poco a poco abbandonata a se stessa, restando aperta soltanto nei pochi giorni della fiera.

    Così, lasciata incustodita in aperta campagna, agli inizi del 1900, la chiesa fu derubata del contenuto, compreso il quadro originale della Vergine Maria. Il quadro che si trova oggi sull’altare, raffigurante la Vergine col Bambino è opera del trapanese Mario Giammona. La chiesa, oggi ristrutturata, continua a restare aperta per il culto durante i pochi giorni della fiera.

    Fino agli anni ’60 circa le fiere erano molto attese da parte di tutti i cittadini, per acquistare gli arredi per la casa, attrezzi per l’agricoltura e l’artigianato, corredi per matrimonio; prodotti che difficilmente si trovavano nei pochi negozi del paese; i bambini aspettavano la fiera per ricevere in regalo giocattoli e gustare la “friscabella”, per come si chiamava allora il gelato. Inoltre alla Fiera della Tagliata si potevano comprare anche animali domestici, d’allevamento e da soma, indispensabili durante la civiltà contadina.

    Dai miei ricordi d’infanzia la fiera durava tre giorni: dalla terza domenica di settembre al martedì ma si allungava di un giorno, per allietare la cittadinanza con: “lu iocu di lu addu, di li pignateddi, di la paredda e di li sacchi a li peri”. Per quantificare l’importanza della fiera, una tradizione locale di allora, obbligava il fidanzato, nel primo anno di fidanzamento, a comprare alla fiera una collana alla fidanzata.

    A Campobello di Mazara lo sposo, nel primo anno di matrimonio doveva portare la sposa a visitare detta fiera oltre alla manifestazione dell’Aurora che si svolge tutt’ora  a Castelvetrano in Piazza Garibaldi il giorno di Pasqua. Durante gli anni della mia fanciullezza (intorno agli anni ’50) visitare la fiera e venerare l’immagine della Madonna era una vera avventura: la strada sembrava molto lunga, poiché il paese allora era limitato a “li tri cruci” e a “l’abbiviratura” (il calvario monumentale e l’abbeveratoio diroccati in quegli anni per far posto al rifornimento di benzina) posti dopo la villa comunale “Parco delle rimembranze”.  

    Il percorso, sempre affollatissimo impediva di camminare in fretta, mentre si doveva stare attenti a carretti, carrozze e persone a cavallo, che provenivano anche dai paesi vicini.  Trattandosi della terza domenica di settembre, posta a cavallo fra l’estate e l’autunno, a volte pioveva e la strada, solo sterrata, diventava un pantano con molto fango; viceversa, se tutto era asciutto, un polverone, specialmente con il soffiare dello scirocco, avvolgeva tutti.

    La strada non era illuminata, pertanto al ritorno non si vedeva nulla; perché si era fatto già buio; per arrivare al paese e uscire da quel trambusto, bisognava seguire quella fiumara umana. Tuttavia questi elementi negativi non fermavano l’affluenza della gente. Allora la vita offriva pochi divertimenti e nessuno rinunciava a questo svago. Camminando sullo stradale, quando si stava arrivando alla meta, già si sentiva il profumo delle “panelle” fritte e dell’arrosto della prima salsiccia di maiale.

    Fino agli anni ’70 circa, per motivi d’igiene, d’estate era proibita la macellazione e la vendita della carne di maiale, poiché lo spesso strato di lardo che l’animale di allora portava e, a causa del caldo e dalla mancanza di refrigeratori, diventava dannoso alla salute. Pertanto, la prima salsiccia si poteva mangiare in coincidenza di tale festività.

    La gente, stimolata da quell’odore provocante, non perdeva l’occasione per fare uno spuntino seduti in appositi ritrovi in baracche preparate per l’occorrenza o stando anche in piedi o seduti ai bordi dalla strada. Dopo le baracche dell’arrosto già si notavano, accatastate alla rinfusa vasellami di terracotta e tutti gli attrezzi per l’agricoltura e l’artigianato. Articoli ormai superati e i cui nomi restano sconosciuti ai più giovani come “bummuliddi di Sciacca, quartari, nzira, raffii, lemmi, cantari, giarri e giarriteddi, cunculina, cisca, lattera, circu e scrafalettu, criva di sita e criva d’occhiu, sbarratozzu…” .

     Finalmente in prossimità della chiesa c’erano le logge, fatte in muratura. Qui si trovavano i giocattoli variopinti che facevano restare i bimbi più poveri di allora meravigliati e delusi, perché i genitori non potevano comprare quello che desideravano. Allora questi bambini, nei cortili o per strada, si arrangiavano a giocare con altri coetanei con giocattoli inventati dalla loro fantasia.  Dietro la chiesa c’era la fiera del bestiame.  

    Tutta la ricorrenza era circondata da un’aureola di festa, da un fascino particolare che il grande poeta dialettale Nino Atria, nostro concittadino riesce a trasmettere nella sua poesia: “La fera di la Madonna di la Tagghiata a Castedduvitranu” pubblicata nel suo libro di poesie “Cialoma” del 1909 e di cui mi fa piacere ricordare l’inizio: “Iemu tutti a la Tagghiata/ chi la festà è cominciata,/ e lu patri cappillanu, dici già a lu sagristanu:/ Masi sona! Campania!/ pi la vergini Maria”.  Bellissima la descrizione delle mercanzie messe in vendita in occasione della fiera: “E li loggi sunnu chini / di pignati e cunculini , / di cucchiari e cucchiaruna; / di rinali e di cannati,/ di buttigghi smirigghiati, / di piatta, di latteri, / di biccheri e cannileri; / di cosetti, di scarpini, / di liacci e di tappini, / di cirotti, di picati / pi li beddi nnamurati: / di spiruna, di stivali, / di siringhi e di vracali. / E cchiù sutta di corpetti, di pruvigghia e sapunetti; / di fadali riccamati, / pi li fimmini ‘mpupati; di birritta e birrittuna , / di cammisi e di buttuna, / di cravatti mafiusi, / pi li fimmini pastusi. / E poi vennu li trummetti, / sampugnetti ed organelli, / mariola e carruzzeddi, / friscaletti e tammureddi, / cavadduzzi e pupi tisi, / comu chiddi di paisi”.    

    Con il subentrare della civiltà del consumismo e del falso benessere è scomparsa tutta l’atmosfera gioiosa: alla fiera, che ancora oggi si effettua, più per consuetudine che per esigenze commerciali, non si vendono più animali, mentre giocattoli, stoviglie, attrezzi agricoli si trovano in tutti i supermercati e nei negozi specializzati.  

    Così, a poco a poco scompaiono tutte le nostre tradizioni centenarie, inghiottite dalla globalizzazione e sostituite da quelle provenienti da altri popoli con una civiltà completamente diversa dalla nostra; una civiltà vuota di valori umani, dove ogni individuo egoisticamente vive un mondo a sé, disordinato, ritmato dal tempo velocissimo che va via. Per fortuna nella mente di noi adulti resta il ricordo di quel tempo che fu. E’ nostro compito e dovere riesumare il passato per trasmetterlo ai giovani e ai nostri posteri. Questa trasmissione di dati ed eventi storici, questa corrispondenza attraverso il tempo passato, presente e futuro rappresenta  anche una battaglia vinta contro il nulla eterno.

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