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Il pensare mafioso

di: Desirè Giancana - del 2012-05-19

Immagine articolo: Il pensare mafioso

Sono ormai trascorsi vent’anni dalla tragica scomparsa di Giovanni Falcone, un grande magistrato siciliano ucciso per mano della mafia nella sua terra. A pochi giorni dall’anniversario della sua morte sento il bisogno di ricordarlo attraverso questo articolo.

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  • Giovanni Falcone affermava che: “se vogliamo combattere efficacemente la mafia non dobbiamo trasformarla in un mostro,né pensare che sia una piovra o un cancro .Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”.

    E’ mia intenzione qui analizzare quel “ci rassomiglia”. La prima domanda che mi pongo è chi rassomiglia a chi?”. E’ il siciliano che rassomiglia al mafioso o viceversa?. Per tentare di rispondere a questo interrogativo prendo ancora a prestito le parole di Giovanni Falcone, il quale sosteneva che: “per lungo tempo si sono confuse la mafia con la mentalità mafiosa”. Mi sembra perciò doveroso, senza alcuna pretesa, cercare di fare un distinguo fra questi due concetti chiave.

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  • Il “pensare mafioso” è un modo di essere, di sentire e di agire diffuso in Sicilia, che trae origine dalla sua storia e che contiene una rappresentazione forte della famiglia e debole dell’individuo. Tale pensiero affonda le sue radici in una cultura che ha sempre avuto la straordinaria capacità di mimetizzarsi all’interno di una realtà civile, determinando una barriera di silenzio ufficiale che l’ha resa invisibile (nasconde, infatti, un timore riverenziale di essere estromessi dal rassicurante e protettivo contenitore familiare). Ma essere invisibile non significa non esserci.

    E’ esperienza comune che se ci capita di chiedere informazioni a tizio su dove abita caio, difficilmente ci verranno date risposte senza quanto meno spiegare il perché lo cerchiamo (cultura diffidente dell’Altro da noi). O ancora, se ci troviamo alla cassa di un supermercato o all’ufficio postale spesso troviamo “lu spirtuni di turnu” che vuole aggirare la fila e “passari prima”. Vi sarà capitato di trovarvi in macchina e non riuscire a passare perché qualcuno ha posteggiato male e, non curante, magari vi risponde “picchì un po’ aspittari?”. Ecco, questi sono pochi esempi che bene si prestano a rappresentare il pensiero mafioso.

    Il pensare mafioso nasconde un’implicita sopraffazione della soggettività individuale e celebra la liturgia della “non-parola”, del simbolico non trasformabile. Il pensiero mafioso è una modalità distorta di vivere la propria identità “al di sopra” dei rapporti con il sociale. Esso non riconosce valore agli altri che sono visti solo come meri strumenti per esercitare il proprio potere (un detto siciliano molto conosciuto è: cu è fissu si sta a la so casa).

    E spesso ci si ritrova a sottomettersi, in silenzio, alle prepotenze, alle ingiustizie e ai ricatti perché l’ambiente propone modelli di comportamento che strutturano la personalità del siciliano sin da piccolo. A scuola i bambini che subiscono l’arroganza di altri bambini tendono a non riferirlo alla maestra per paura di essere considerati “spiuna,sbirri” e di essere perciò estromessi dal gruppo. Questa censura consente infatti l’appartenenza al gruppo-famiglia.

    La nostra cultura si fonda dunque su valori quali l’obbedienza, la fedeltà, il rispetto e l’onore. E il mafioso in senso stretto non s’identifica col criminale ma proprio con l’uomo d’onore. La rappresentazione interna di un mondo buono formato da uomini d’onore (e perciò rispettabili) ed uno esterno malvagio (che costringe alla difesa dal diverso da sé) è ciò che lega i due concetti chiave a cui facevo riferimento sopra. Per l’identità mafiosa è l’alternativa “all’essere nessuno” (nuddu ammiscatu cu nente).

    Dunque sono i mafiosi che rassomigliano ai siciliani e non il contrario, nel senso che la mafia non ha valori propri, ma esaspera i valori siciliani interpretandoli in modo rigido. “Cosa Nostra” è l’esasperazione del pensare mafioso, la manifestazione malata ed antisociale della nostra rappresentazione ideologica.

    Nel codice di comportamento di Cosa Nostra vi è la mancanza totale del concetto di legge e di un’autorità che rappresenti un vantaggio sociale (versus un interesse personale). Il mafioso per farsi rispettare non ricorre alla legge (che significherebbe mostrarsi debole) ma si fa giustizia da sé (affermando il proprio potere sui deboli). La censura diventa omertà (cioè si rende indipendente dalle leggi sociali). La diffidenza (genus sospiciosum) si trasforma in prepotenza. La fedeltà costringe all’impossibilità del pentimento. L’appartenenza alla famiglia serve a manipolare un Io ormai ipotrofico. La parola “MAFIA” indica un modus vivendi in cui manca l’interiorizzazione del NOI. Ma il pregiudizio di considerare tutti i siciliani mafiosi banalizza la complessità siciliana. Nell’organizzazione criminale mafiosa s’intravede infatti una patologia della relazione individuo-famiglia-società, che prescinde dalla cultura siciliana.

    In ogni caso rassomigliare non significa essere uguali. Un cambiamento è dunque possibile. Per poter combattere la mafia è necessario scindere il concetto di mafia da quello di cultura siciliana e mettere i valori della fedeltà, obbedienza, rispetto e onore al servizio del NOI. Proprio come fece Giovanni Falcone.

    Dedicato a Melissa Bassi, Studentessa morta oggi  nell’attentato all’Istituto professionale “Morvillo-Falcone” di Brindisi

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