Una vita in redazione tra giornalismo e passione alla guida di prestigiosi quotidiani. Storia del salemitano Gaetano Rizzuto
di: Alessandro Indelicato - del 2019-05-30
In foto: 2010 Tanino Rizzuto, nella redazione di LIBERTA’ di Piacenza
Gaetano Rizzuto, a Salemi e nella Valle del Belice conosciuto da sempre come Tanino, è un giornalista siciliano insignito il primo maggio dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella come “Maestro del Lavoro”. Tanino Rizzuto ha iniziato la sua carriera di giornalista a Salemi, quando era ancora uno studente liceale. Dal gennaio 1968, per 13 anni, ha seguito per il Giornale L’ORA la Valle del Belice, poi per 36 anni ha diretto tre quotidiani italiani. Ora vive a Piacenza con la moglie Germana e i suoi due figli, Marcello e Cecilia. Ma il suo cuore è sempre a Salemi. Castelvetranonews.it lo ha intervistato.
Allegati
Da quanto tempo vive a Piacenza?
“Dal primo settembre 2000. Quel giorno sono stato nominato direttore del quotidiano dei piacentini “LIBERTA’”, fondato da Ernesto Prati nel 1883. Arrivavo da Genova, dove avevo diretto il Secolo XIX della famiglia Perrone”.
Torna spesso in Sicilia?
“Un paio di volte all’anno. Mi ricarico tornando alle origini, alla mia Salemi e nella Valle del Belice dove è iniziata la mia storia, dove vive mio fratello Giuseppe e sono sepolti i miei genitori, Mario e Lucia”.
Quali sono i ricordi che le vengono in mente più spesso di Salemi?
“Penso spesso alla mia infanzia, ai miei compagni di scuola, alle prime battaglie, e a quella notte del 14 gennaio 1968, la notte del terremoto, che cambiò anche la mia vita”.
Che studi ha fatto?
“Dopo il Liceo Classico “D’Aguirre”, con preside il mitico padre Maurizio Damiani, feci l’Università a Palermo, in Scienze Politiche, mentre cominciavo a lavorare al Giornale L’ORA”.
Quando si è reso conto che scrivere per Lei era fondamentale?
“Sin da bambino mi piaceva leggere, oltre che i libri della nostra straordinaria Biblioteca Comunale diretta allora dall’avvocato La Grassa, anche i giornali di carta. Li leggevo dove potevo. Ero attratto dai quotidiani, soprattutto dal Giornale di Sicilia e dal Giornale L’ORA. Mi resi conto che il giornalismo mi piaceva molto quando cominciai a scrivere, nel 1966, su “Pianificazione Siciliana”, il giornale della Valle del Belice del Centro Studi di Partanna guidato da Lorenzo Barbera. Ne curavo, con altri amici, la pagina dedicata a Salemi”.
È vero che la sua passione per il giornalismo è nata grazie al maestro Di Vita?
“Sì, è vero. Devo molto al mio maestro delle elementari, Domenico Di Vita. Portava il “Giornale di Sicilia” in classe e ce lo leggeva o ce lo faceva leggere. Così scoprivamo le notizie locali, ma anche quelle nazionali e internazionali. Mi emozionavo a leggere. Tornavo a casa e raccontavo le notizie a mia mamma.
Il maestro Di Vita ci faceva fare le gare sulle notizie lette, tipo “Lascia o Raddoppia”. Dovevano indovinare. Si vincevano soldini di cioccolato. Sono tuttora riconoscente al mio Maestro Di Vita. Lo devo un po’ a lui se oggi sono un giornalista. Quando torno a Salemi, dopo aver visitato la tomba dei miei genitori, porto un fiore sulla sua tomba. L’altra svolta è stata a dieci anni quando mio papà mi regalò una radio a transistor. Così ho scoperto l’informazione radiofonica che mi ha appassionato fin da subito.
Mio nonno, invece, mi ha regalato l’abbonamento al settimanale “La Domenica del Corriere”. Cominciai a scrivere lettere a Indro Montanelli. C’era una sezione, chiamata la “Stanza di Montanelli”, dove lui rispondeva alle lettere. Gli ho scritto diverse volte e Montanelli mi ha sempre risposto sulla “Domenica” o privatamente. Conservo ancora quelle lettere.
La cosa straordinaria è che negli anni ’90, quando ero direttore del “Secolo XIX” a Genova, ho fatto due incontri pubblici con Montanelli. Era un giornalista di razza, un fuoriclasse che ha lavorato fino alla fine dei suoi giorni. Espressione del giornalismo come si faceva un tempo, consumando le scarpe. Ha rischiato la vita più di una volta, le brigate rosse gli hanno sparato alle gambe”.
Quando invece ha capito che poteva fare una professione della scrittura?
“Qualche mese dopo il terremoto, nell’estate del 1968. Da gennaio collaboravo come corrispondente da Salemi e dalla Valle del Belice del Giornale “L’ORA” di Palermo. Di mattina andavo al Liceo e di pomeriggio scrivevo articoli sul dopo terremoto, sulle lotte dei terremotati, sugli scandali. Articoli che mandavo al giornale con il “Fuori Sacco”. Giravo per tutta la Valle.
Un giorno vengo convocato a Palermo dal direttore del Giornale “L’ORA”, Vittorio Nisticò di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Mi voleva conoscere. Mi diede l’incarico di fare un’inchiesta su tutti i paesi terremotati del Belice per un dossier. Quel pomeriggio tornando, in treno, a Salemi pensai che avrei fatto il giornalista”.
Qual'è stata la sua prima esperienza come giornalista?
“Dopo gli articoli scritti su “Pianificazione Siciliana”, la mia prima esperienza come giornalista l’ho vissuta a “L’ORA”, da corrispondente prima e dopo qualche anno, dal 1970, come responsabile della redazione di Trapani de “L’ORA”. Il primo articolo che ho scritto su “L’ORA” era sul crollo della Matrice di Salemi e sul rischio che, per i danni subiti dal terremoto, crollasse anche la torre rotonda del Castello di Salemi”.
Lotte civili. Giornalismo di denuncia e non violenza. Ci parla del suo incontro con il Gandhi siciliano, Danilo Dolci?
“Avevo 16 anni quando incontrai prima Lorenzo Barbera, a Partanna, e poi Danilo Dolci a Partinico. Mi accompagnò il sindacalista Peppe Amante, mio amico. Peppe mi aveva insegnato a scrivere a macchina. Danilo Dolci mi colpì subito per la sua visione del mondo, per la forza pacifica che metteva nelle lotte, per quella sua imponenza fisica e quel suo maglione bianco. Mi affascinò. Ero un ragazzo, ma partecipavo con loro agli incontri internazionali a Borgo di Dio a Trappeto. Lo seguii per alcuni anni nelle lotte non violenti per lo sviluppo delle Valli dello Jato e del Belice, negli scioperi della fame, nelle marce per la Pace. Lasciò subito un segno profondo in me e lo considero il mio secondo Maestro.
Il giornalismo di denuncia e d’inchiesta che poi ho realizzato in Sicilia e nei giornali che ho diretto nasce da quell’incontro con Danilo Dolci. Danilo era un protagonista in Sicilia, si batteva contro la mafia e l’arretratezza siciliana. Ci insegnava a fare battaglie non violente, con scioperi passivi che Dolci chiamava “scioperi alla rovescia”: scioperavi lavorando! Eravamo una ventina di ragazzi, pieni di coraggio e passione per la nostra terra.
Ci ha coinvolto nei suoi progetti trasmettendoci valori importantissimi. Grazie a Danilo ho incontrato grandi scrittori, poeti, pittori. Mi viene in mente Leonardo Sciascia, Ernesto Treccani, Renato Guttuso, Carlo Levi e grandi giornalisti come Giampaolo Pansa. Con Dolci ho cominciato a conoscere il mondo”.
Eventi. Il sisma del 1968 ha devastato la Valle del Belìce. Un giovane cronista, lei, si mise a raccontare l'accaduto. Quali sensazioni provava e cosa l'ha incoraggiato a farlo?
“Al momento della prima scossa, quella domenica 14 gennaio 1968, mi trovavo a Vita, quando - dopo un incontro del Comitato Cittadino con Lorenzo Barbera (Centro Studi di Partanna) e Vito Accardo nel piccolo cinema del paese - mentre stavo ritirando i cannoli per festeggiare il compleanno del mio fratellino Pino di 4 anni, sentiamo la terra tremare. Erano le 13.28. Ci guardiamo negli occhi. “E’ il terremoto?”, ci interroghiamo.
Torno a Salemi con Lorenzo Barbera, mi lascia in piazza. Vado a casa a piedi. Siamo a tavola. Un’altra scossa. Erano le 14.15. Inizia la grande paura. Inizia anche la mia missione di giovane cronista che per anni ha raccontato la Valle del Belice, ha denunciato le condizioni disumane prima nelle tende e poi nelle baracche, i ritardi nella ricostruzione delle case, il mancato sviluppo, l’emigrazione di tanti giovani, le mani della mafia sulle baraccopoli prima e sulla ricostruzione dopo.
Quella notte del terremoto ero in piazza Libertà con migliaia di salemitani. Quella notte mi sono impegnato a dare voce alla mia gente, di raccontare la grande tragedia del terremoto”.
Giornalismo d’inchiesta, mafia. Ha collaborato con L'ORA, il primo giornale a parlare di mafia. Il giornale pregiato da firme autorevoli come Sciascia e Guttuso. Come ricorda quegli anni?
“Per 13 anni, sino al gennaio 1980, ho lavorato per il giornale “L’ORA”. Quei 13 anni sono stati unici. E’ stata la mia vera scuola di giornalismo in un giornale di frontiera che per primo aveva denunciato la mafia di Corleone e gli intrecci tra mafia e politica, con un giornalismo d’inchiesta all’avanguardia in Italia.
I grandi giornali italiani e stranieri per capire cosa succedeva in Sicilia, per raccontare la mafia passavano sempre dalla redazione del Giornale “L’ORA”. Un giornale punto di riferimento per la cultura siciliana ed italiana. Scrittori come Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo, pittori come Renato Guttuso e Bruno Caruso, erano di casa a L’ORA.
Si respirava un’aria pulita. Ci sentivamo protagonisti di una nuova Sicilia. Sono stati anni in cui in molti abbiamo sperato in un cambiamento, in un futuro diverso per la Sicilia. Ma poi sono arrivati gli anni bui degli attentati e delle stragi di mafia. A “L’ORA” facevamo un giornalismo di impegno civile. Lì c’è stata la mia formazione. L’ORA è stata una grande scuola di giornalismo con un mitico direttore come Vittorio Nisticò, una scuola che ha sfornato una decina di direttori di quotidiani in Italia”.
Tra i caduti de L'ORA, cronisti zelanti che hanno perso la propria vita per raccontare la verità. Ci parla del suo rapporto con Mauro De Mauro?
“Ho conosciuto Mauro De Mauro a Salemi, la mattina del terremoto, all’alba del 15 gennaio 1968. Era stato inviato in piena notte dal direttore del Giornale L’ORA, Nisticò, nelle zone terremotate. Si era spinto sino a Gibellina e, di ritorno, cercava, a Salemi, un telefono per dettare il suo reportage per l’edizione straordinaria del giornale.
Lo incontrai, per caso, in piazza Libertà e mi chiese se c’era un telefono. Lo accompagnai al cinema Italia dove il telefono pubblico funzionava ancora. Dettò a braccio il suo pezzo e alla fine mi chiese “Ma tu che fai? Perché non scrivi per L’ORA”. Il giorno dopo cominciai a dettare, anch’io dal telefono pubblico del Cinema Italia, i miei articoli su Salemi e sul Belice. Mauro De Mauro mi chiamava spesso, mi chiedeva informazioni e ogni tanto ci vedevamo in redazione a Palermo o nella valle del Belice. Sino a quel 16 settembre 1970 quando venne rapito e ucciso dalla mafia”.
Era rischioso scrivere di mafia per un ragazzo di 18 anni a Salemi?
“Andavo al Liceo Classico e sull’ORA scrivevo articoli anche sui mafiosi del mio paese e della Valle. Non mi rendevo conto, però, dei rischi che correvo. Una sera uscì un mio grosso articolo, in prima pagina, sugli affari della mafia che aveva messo le mani sulle aree destinate alle baraccopoli. Quel pomeriggio il giornale arrivò a Salemi con la corriera alle 17.
Quando entravo nei locali pubblici uscivano tutti, per paura che la mafia mi colpisse. Mi sono sentito isolato. Ho reagito, non mi sono fermato. Lì ho capito che ci vuole coraggio, tanto coraggio a fare il giornalista in Sicilia. Quella sera sono cresciuto molto come uomo e come giornalista”.
Qual è stato il suo primo incarico come direttore di una testata giornalistica?
“Già nel 1971 diventai direttore di una rivista “L’Unità Trapanese” e poi anche per un periodo di “Pianificazione Siciliana”. Ma il mio primo incarico di direttore di un quotidiano arriva alla fine del 1980, quando il mio terzo Maestro, Mario Lenzi, mi chiamò, a nome di Carlo Caracciolo, a dirigere la “Provincia Pavese” di Pavia da poco entrata nel Gruppo L’Espresso.
Avevo 30 anni, il più giovane direttore di un quotidiano italiano. Portai a Pavia la mia esperienza siciliana, trasformai il giornale, feci tante inchieste e portai la “Provincia Pavese”, in otto anni, a 25 mila copie. Alla Provincia Pavese avevo una redazione tra le più giovani d’Italia. Il nostro era un giornalismo d’inchiesta che faceva tremare la città. A Pavia mi sono sposato con Germana”.
Libertà, il Secolo XIX, la Provincia Pavese. Sono questi i giornali da Lei diretti. Direttore per 36 anni. Ha incontrato difficoltà in questo suo compito?
“Sì, 36 anni di direzione di quotidiani sono un pezzo importante della mia vita professionale. Ho vissuto gli anni dello sviluppo dell’editoria, quando le copie in edicola crescevano e i giornali erano molto letti ed erano in buona salute. Ho vissuto gli anni della grande trasformazione tecnologica, con il passaggio dal piombo al computer in redazione.
Ma ho vissuto anche gli anni della crisi, gli ultimi, quando il sistema della carta stampata non ha saputo affrontare come si doveva la grande rivoluzione di internet. Non è stato facile fare per 36 anni il direttore. Ma il bilancio è positivo. Ho aiutato a far crescere una nuova generazione di giornalisti, e fra questi alcuni sono diventati direttori e capi redattori e spero di aver fatto del buon giornalismo e di avere bene informato la gente”.
Cosa non l'ha mai fatta desistere dalla sua professione durante gli anni di piombo, quando i colleghi perdevano la vita? O durante il periodo delle stragi di mafia di Falcone e Borsellino?
“Un giornalista, ancora di più un direttore di giornale, non può avere paura né del terrorismo né della mafia. Ho conosciuto gli anni del terrorismo e gli anni degli attentati mafiosi. Non ho avuto paura a fare il giornalista a Salemi, a Trapani e a Palermo. E non era facile in quegli anni. Ho subito minacce, ma sono andato avanti.
Mi hanno bruciato la macchina a Palermo dopo un’inchiesta sulla mafia di Trapani. Ma non mi sono fermato. Ero a Pavia quando i terroristi a Milano hanno ucciso Walter Tobagi. Si va avanti a fare buona informazione contro il terrorismo e contro la mafia. Ero a Genova, al Secolo XIX, in quell’anno terribile, il 1992, quando furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Di fronte alle stragi un giornalista deve aumentare il suo impegno di denuncia. Ho collaborato nei miei anni trapanesi con Giovanni Falcone e con Giangiacomo Ciaccio Montalto, due giudici che mi hanno insegnato tanto e mi hanno spiegato come combattere la mafia”.
Recentemente è scomparso l’editore del Secolo XIX, Cesare Brivio Sforza, della famiglia Perrone, a cui lei era molto legato. Come descrive la sua esperienza di direttore di questo giornale?
“I miei 13 anni al Secolo XIX di Genova sono stati straordinari. Il Secolo XIX della famiglia Perrone, in quegli anni, è stato tra i più importanti quotidiani italiani. Indipendente da qualsiasi potere economico, finanziario e politico Il Secolo XIX, giornale regionale e nazionale, è stato un esempio di giornalismo libero. Cesare Brivio Sforza è stato un vero grande editore puro, indipendente, illuminato, che mi ha sempre sostenuto e incoraggiato nelle scelte più innovative.
Nei miei anni di direzione al Secolo XIX l'ho sempre avuto vicino. Con l'editore Brivio Sforza abbiamo portato, nel 1989, il Secolo XIX al massimo di diffusione della sua storia. Era il suo Secolo! Autorevole e popolare, nazionale e locale”.
“Mafia offline”, un progetto che sta portando avanti a Piacenza. Il giornalismo d’inchiesta oggi come ieri. Ce ne vuole parlare?
“Sì, quello di “Mafia OFFLINE è un progetto in corso da due anni a Piacenza. Abbiamo creato un laboratorio di giornalismo d’inchiesta con una trentina di ragazzi e ragazze dei licei piacentini. Ne è nata una redazione che ogni anno sceglie un tema, lo sviluppa con la tecnica del giornalismo d’inchiesta e alla fine pubblichiamo un giornale di carta che ha come testata “MAFIA OFF LINE”.
Il primo anno l’inchiesta è stata dedicata alla mafia al Nord, a Piacenza, e alla confisca di un capannone vicino a Piacenza di proprietà di un imprenditore di Palermo condannato per mafia. Il capannone confiscato è stato consegnato ai ragazzi del Comune di Calendasco, a pochi chilometri da Piacenza, sulle rive del Po, che lo hanno intitolato a Rita Atria, la ragazza di Partanna che si ribellò alla mafia. Quest’anno l’inchiesta è sulla droga tra i giovani”.
Verosimilmente lei non si è mai allontanato dalle lotte sociali e dallo studio della nostra società analizzata sotto la lente di ingrandimento del giornalismo. Il tema del non lavoro.
“Sì, sia nei miei anni di giornalista in Sicilia che nei miei anni di direttore in Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna ho sempre seguito con particolare attenzione le lotte popolari, dei lavoratori, dei giovani, delle donne. L’ho fatto nella Valle del Belice negli anni del dopo terremoto per dare dignità alle popolazioni, per avere lo sviluppo, per dare un futuro ai giovani che conquistarono, primi in Italia, il servizio civile alternativo a quello militare.
Ricordo le battaglie giornalistiche e popolari contro la mafia. Battaglie che da giornalista e da siciliano ho continuato e continuo anche dal Nord, con un pensiero sempre a Salemi, alla Valle del Belice e alla nostra Sicilia. Ho affrontato più volte il tema del non lavoro in quegli anni siciliani quando migliaia di belicini lasciavano i nostri paesi. Purtroppo l’emigrazione non si è fermata. Oggi interi paesi sono spopolati. Molti giovani, dopo la laurea, partono per il Nord o per l’estero, come hanno fatto i nostri nonni e padri. Bisogna fermare questo esodo”.
Anche la bioetica è un argomento per lei interessante. Ce ne parla?
“Sì, i temi della bioetica mi hanno sempre coinvolto, come quelli dell’etica e della deontologia nella professione giornalistica. A Piacenza abbiamo fondato l’Istituto Italiano di Bioetica, di cui sono vice presidente, e stiamo realizzando i “Giovedì della Bioetica”, un progetto culturale destinato a studenti, studiosi, intellettuali, semplici cittadini per sensibilizzare la gente sull’importanza del sapere scientifico.
Ci interroghiamo sulle implicazioni etiche delle innovazioni scientifiche e biotecnologiche con grandi personaggi come Telmo Pievani, Domenico De Masi, Carlo Alberto Redi, Roberto Cingolani e Remo Bodei”.
La tv come strumento ed estensione della professione del giornalista. Si può considerare come una nuova frontiera del mestiere per cui oltre ad essere una buona penna, per fare il giornalista, si rende necessario una buona dialettica e capacità davanti le telecamere?
“Ho fatto anche Televisione, a Trapani negli anni Settanta, dopo aver fondato e diretto la prima radio libera, Radio Trapani Centrale, con una redazione di ragazzi liceali. Ho diretto per alcuni anni Tele-Valderice, la tv dove poi lavorò Mauro Rostagno. Sia la radio che la televisione mi hanno dato molto. Anche a Piacenza ho diretto per 10 anni Tele-Libertà, legata al quotidiano.
La tv ti fa vedere quello che la radio ti racconta in diretta e il giornale di carta ti spiega. Sono mezzi di comunicazione diversi, ma un bravo giornalista deve saperli usare in sinergia per comunicare bene. Hanno tre linguaggi diversi, la tv sicuramente è il mezzo che negli ultimi sessant’anni ha cambiato l’Italia, in qualche modo unificandola. Oggi la carta stampata vive una difficile crisi, la radio sta vivendo, invece, una seconda giovinezza grazie anche a internet, mentre la tv regna incontrastata nonostante internet e nelle nostre case arrivano migliaia di canali”.
Lei crede che la rivoluzione digitale possa contaminare la professione? O non andremo mai oltre i giornali online? Riprendendo il grande Umberto Eco, la carta non sarà mai spazzata via completamente?
“La rivoluzione digitale ha già cambiato la professione giornalistica. Ha costretto tutto il mondo dell’informazione tradizionale (giornali, radio e tv) a fare i conti con l’immediatezza e la globalità della rete. In qualche modo questa rivoluzione ha costretto i giornali, le radio e le televisioni a cambiare pelle, a stare al passo coi tempi. Radio e tv l’hanno fatto meglio.
I giornali sono ancora indietro, per diversi anni hanno sottovalutato la portata di questa rivoluzione ancora in atto, e solo ora stanno cercando di trovare una strada per non perdere tutti i lettori puntando su una buona qualità dell’informazione, garantita dalla professionalità dei giornalisti e dalla serietà delle testate, andando oltre la notizia e scegliendo più approfondimento e più rapporti diretti e bi-direzionali col territorio. Il futuro dell’informazione scritta sarà nei giornali locali, che già oggi sono l’ossatura dell’informazione e lo saranno ancora di più in futuro.
Perché hanno un rapporto diretto e immediato con il lettore che può verificarne la validità dell’informazione. Anch’io penso che la carta stampata non scomparirà, come non scompariranno i libri di carta. Ma i giornali del futuro forse non saranno più di carta e non li compreremo in edicola, ma li stamperemo direttamente a casa o li leggeremo, come già avviene, sul grande schermo del computer. La carta stampata non deve avere paura di Internet, deve andare oltre e spiegare ciò che internet non può né spiegare né approfondire”.
Nel 2018 ha tagliato il traguardo dei 50 anni di giornalismo. Cosa si sente di consigliare a chi oggi vorrebbe fare giornalismo?
“Sì, nel gennaio dell’anno scorso ho fatto 50 anni di giornalismo. Ho attraversato due secoli e due millenni, passando dalle linotype (le macchine tipografice che componevano e giustificavanp automaticamente ciascuna linea di caratteri del testo) del giornale L’ORA ai più moderni computer, con video impaginazione a colori, del quotidiano LIBERTA’.
Oggi fare giornalismo è difficile come lo era per noi ragazzi 50 anni fa. Oggi è più difficile non solo per la crisi dei giornali. In Italia ci sono scuole di giornalismo che preparano bene alla professione sui diversi mezzi. Per fare del buon giornalismo ci vuole coraggio, anima, cuore e cervello: questi elementi ho sempre messo nel giornalismo che ho fatto nei giornali.
Coraggio in Sicilia nella lotta alla mafia e in Lombardia, Liguria e Emilia Romagna nella denuncia delle corruzioni, degli sprechi, delle ingiustizie. Ho cercato di dare un’anima ai giornali in cui ho lavorato e diretto. Ho usato e uso sempre il cuore e il cervello nel rapporto con la gente, i lettori, il territorio. Nell'era di Internet il buon giornalista, per fare buona informazione, deve sempre essere un buon testimone, vivere i fatti per poi raccontarli, essere scrupoloso e rispettoso delle persone, avere la schiena dritta verso il potere ed essere sempre il cane da guardia dei cittadini-lettori, il difensore civico dei diritti della gente.
Si va, purtroppo, sempre più di corsa ma questi valori sono fondamentali, anche oggi, per informare bene, nel modo più completo ed offrire al lettore-cittadino tutti gli strumenti per farsi una propria libera idea. E' la scommessa del giornalismo del terzo millennio. Fare un giornalismo di qualità e garantire i lettori con una informazione certificata, credibile, verificata e approfondita”.
Fare giornalismo in Sicilia oggi è possibile?
“Certo che è possibile, anche se è molto difficile, come è difficile, in questi tempi di crisi, anche nel resto d’Italia. La Sicilia ha bisogno di bravi giornalisti e di una corretta e completa informazione. Ci sono i giornali di carta che non vivono più nell’oro e che anche in Sicilia si stanno riorganizzando, ci sono alcune tv che resistono, ci sono giornali di carta come settimanali o mensili che hanno un ruolo, ci sono sulla rete molti giornali locali elettronici che sono legati al territorio e lo raccontano bene.
Sì, si può fare giornalismo in Sicilia. Ci vuole tanto coraggio e stanno crescendo tanti giovani bravi cronisti che questo coraggio ce l’hanno, ogni giorno e spero possano avere la mia stessa fortuna”.
Cosa pensa dell'esodo di giovani che lasciano il sud?
“Mi mette tanta tristezza. Quando torno in Sicilia e nei nostri paesi vedo soprattutto anziani mi si stringe il cuore. Quando leggo le statistiche sulla fuga dei ragazzi laureati nelle Università siciliane – si parla di 25 mila giovani addirittura - che per avere un futuro devono partire per il Nord, o la Germania, o l’Inghilterra penso che non sia giusto e bisogna fare di tutto per creare le condizioni di lavoro in Sicilia, nel Sud. Ogni giovane che la lascia la Sicilia è una sconfitta, un impoverimento.
La grande sfida dei prossimi anni per la Sicilia è bloccare questa desertificazione umana. I paesi senza giovani non hanno futuro. Quando leggo di ragazzi che decidono, nonostante tutto, di restare a Salemi, nella Valle del Belice o in Sicilia e si inventano nuovi lavori sono contento e cresce in me la speranza che quelle battaglie combattute in Sicilia dopo il terremoto del 1968 non siano state vane.
La Sicilia ha tutte le potenzialità per creare occasioni di lavoro per i nostri giorni. Dipende molto anche dalle scelte della Regione Siciliana, dal sostegno a iniziative di sviluppo libere dalla mafia e dalla corruzione. Non c’è tempo da perdere se non vogliamo trasformare in deserto i nostri bellissimi borghi. La Sicilia deve credere e investire nei suoi giovani, deve ascoltarli e coinvolgerli”.
Di recente, ha ricevuto un prestigioso riconoscimento come “Maestro di lavoro". Si aspettava ciò?
“No, non me lo aspettavo e mi ha fatto molto piacere riceverlo. Il primo maggio sono stato nominato Maestro del Lavoro con decreto del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Sono stato al Quirinale, su invito del Presidente. Mi è stata conferita la Stella al Merito del Lavoro “per singolari meriti di perizia, laboriosità, operosità, moralità, per lo spirito di iniziativa e la dedizione al lavoro quali fattori di progresso sociale”.
In questa motivazione ci sono i miei 50 anni di giornalismo. C’è anche Salemi. Ho dedicato pubblicamente questo riconoscimento alla mia Città di Salemi che mi ha visto nascere come giornalista; al mio maestro delle elementari, Domenico Di Vita, che mi ha fatto amare il giornalismo e la carta stampata sin da bambino; ai miei genitori, Mario e Lucia, che mi hanno sempre sostenuto ed incoraggiato nella mia scelta di fare il giornalista, anche di fronte alle prime minacce della mafia che ho subito quando ero ancora un ragazzo liceale”.
Ringraziamo Tanino Rizzuto per la disponibilità a raccontarsi per i lettori di Castelvetranonews.
In allegato, una nota biografica e una selezione di foto esclusive dall'archivio del giornalista.