"La rinuncia di Papa Benedetto". Una lettura teologica dell'arciprete di Castelvetrano
di: Don Leo Di Simone - del 2013-02-19

A seguito delle numerose richieste pervenute alla Redazione, da parte dei tanti fedeli, abbiamo chiesto all'Arciprete della Chiesa Madre e della Chiesa di San Giovanni, Don Leo Di Simone, di esprimere le sue opinioni in merito alla recente notizia delle dimissioni del Papa. Don Leo ha così deciso di inviarci, in esclusiva, la lettera che di seguito vi proponiamo.

Mai come in questi ultimi giorni i riflettori del mondo sono stati puntati sulla vita del timido e schivo papa Benedetto XVI. Un tributo pesante che egli sta pagando per l’esercizio assoluto della propria libertà che lo ha condotto alla scelta eclatante di scendere dal soglio di Pietro, dallo scranno più in vista di “capo religioso” che ogni uomo religioso possa desiderare di occupare. Una scelta incomprensibile agli occhi del mondo, un mondo come il nostro che ama essere in vista, dato che l’essere in vista ha una sua non recondita relazione col potere.
E il papa è ancora visto come uomo di potere, religioso, morale, politico che sia, ma uomo che ha relazioni con tutti i potenti della terra. Molti non sembrano convinti appieno delle motivazioni addotte da Papa Benedetto, nel suo fluente discorso in latino, circa il venir meno delle sue forze sia fisiche che spirituali. Altri, pur essendone convinti e avendole date per buone sul piano umano, restano interdetti davanti alla inusualità della decisione; e gli uni e gli altri si riallacciano agli scandali più o meno recenti che hanno chiamato in causa in qualche modo la sede di Pietro ed il pur innocente suo titolare sulla cui rettitudine e santità di vita nessuno può avanzare dubbi.

Così le interpretazioni sulle cause plausibili che hanno provocato un simile gesto sono le più disparate e nessuna del tutto aliena da qualche fondo di verità. Il papa stesso, fino allo scorso “mercoledì delle ceneri”, non ha mai fatto un mistero delle divisioni che feriscono il corpo della Chiesa, così come delle tensioni, per usare un eufemismo, interne alla Curia romana. Ma quando mai la Chiesa ha conosciuto periodi di eirenica concordia, e quando mai, la Curia romana, -nata come organismo di governo romano per una chiesa universale, cioè cattolica, da cui l’ossimoro anacronistico sul puro piano teologico di “Chiesa cattolica romana” o di “santa romana Chiesa”- non è stata teatro di esacerbate controversie che tra medioevo e rinascimento ed oltre hanno dato luogo anche a fatti di sangue?
Oggi si riconosce che non erano fuori luogo le invettive di Lutero contro “Roma-Babilonia”, la pungente ironia di Erasmo da Rotterdam nei confronti del papato nel suo Elogio della follia, ma anche le sante ed intelligenti proposte del cardinale filosofo Nicolò Cusano nella sua splendida opera De concordantia catholica. Sia come sia sicuramente molto c’è da interpretare per leggere il fatto, anche se, del fatto nessuna interpretazione teologica ho sentito. Forse qualcuno l’ha tentata ma confesso di non esserne a conoscenza. Vorrei perciò tentare una lettura teologica del fatto perché da tanto tempo, sin da quando ero sui banchi dell’Università Gregoriana, frequento Joseph Ratzinger teologo.
Cominciai a studiare teologia dai Gesuiti a partire dalla sua Introduzione al cristianesimo. Opera di altissimo profilo che mi ha plasmato sia sul piano dei contenuti che del metodo. L’ho seguito, poi, sempre con interesse ma fino ad un certo punto; fino a quando non si è occupato o preoccupato di liturgia, poco prima che diventasse Benedetto XVI. Essendo io un liturgista, avendolo fatto per molti anni anche come mestiere accademico, e continuando fino al presente a studiare la liturgia, oltre che a celebrarla, anche adesso, non mi sono trovato molto d’accordo con l’ermeneutica liturgica di Joseph Ratzinger, con la sua ermeneutica dell’ermeneutica liturgica di Sacrosanctum Concilium, la Costituzione conciliare sulla liturgia.
Come tanti liturgisti mi sono trovato disorientato dalle prescrizioni di Summorum pontificum, il Motu proprio, ossia l’atto giuridico autonomo, con cui papa Benedetto ha voluto ripescare una ritualità che si rispecchiava in altra eclesiologia, quella verticistica del Concilio di Trento e per cui s’è attirato la nomea di “conservatore”. Così ho scritto un libro che attualmente è in stampa e che uscirà dopo Pasqua, nel quale uso altre chiavi ermeneutiche, quelle che mi hanno fornite i miei maestri dell’Ateneo Sant’Anselmo di Roma dove ho fatto il dottorato di ricerca.
Oggi come oggi non posso più aggiungere una sola riga alle più di quattrocento pagine del libro che è una indagine storica, teologica e culturale frutto dei miei studi degli ultimi dieci anni; però, se papa Benedetto avesse fatto il suo passo qualche tempo prima, avrei meglio com-patito la sua ermeneutica, l’avrei considerata più vicina alla mia, non tanto sul piano epistemologico quanto su quello esistenziale e cristico; adesso credo che la rinuncia del papa teologo abbia un solido fondamento teologico, ed anzi, in virtù della sua splendida trilogia su Gesù, un fondamento cristologico, nonostante la sua visione conservatrice della liturgia.
La questione è molto complessa e articolata perché io ne possa qui riferire sinteticamente. Bisognerà leggere il libro. Sul piano umano però non posso non stimare Joseph Ratzinger per la schiettezza ed il coraggio delle sue idee. Ciò nonostante uno dei punti del magistero di Benedetto XVI che condivido senza riserve è la critica del relativismo. Ontologico, gnoseologico, etico, estetico, ermeneutico. La nostra cultura postmoderna sembra fermamente convinta che non c’è una verità assoluta e che tutto sia interpretazione. E qualcuno lo sostiene facendo una non corretta lettura di Hans Georg Gadamer che dell’ermeneutica come scienza è stato il rifondatore.
Gadamer sostiene che quando qualcuno emette un giudizio è influenzato dalla propria visione del mondo (Weltansicht), e che ciò non costituisce un inconveniente, bensì una condizione fondamentale del processo cognitivo. Per tale ragione "[…] di per sé, pregiudizio significa solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi obiettivamente rilevanti". Così il pregiudizio non va eliminato, ma frequentato con una certa phrónesis -"saggezza", o meglio "prudenza", termine che richiama il latino pro-videre ovvero la capacità di "guardarsi [se videre] intorno [pro]"-. "L'interprete", per Gadamer, "non può proporsi di prescindere da sé stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova".
Perciò, in ordine all’ottimizzazione della comprensione Gadamer conclude che " l'essere, che può venire compreso, è linguaggio ". Linguaggio e comprensione sono costitutivi di ogni rapporto dell'uomo col mondo; il linguaggio assume una portata ontologica universale, è il luogo in cui può avvenire ogni “esperienza della verità”, cosicché l'ermeneutica, portando alla luce questa struttura fondamentale del rapporto dell'uomo col mondo, ha anch'essa una dimensione di universalità. Ora, tale posizione teoretica può apparentemente apparire estranea all’ermeneutica del fatto della rinuncia di papa Benedetto se non si considera la sua stessa libera rinuncia come linguisticamente molto più eloquente della sua teoresi teologica collocata in una ben determinata “situazione ermeneutica”.
Mi spiego. Il papa, inserito in un contesto ermeneutico speciale, quale può essere il Vaticano o la Curia romana, si è sentito chiamato ad affrontare anche istituzionalmente il tema della riforma della Chiesa a partire dall’ermeneutica testuale dei documenti del Concilio Vaticano II. Non ho sentito neppure un accenno, in questi giorni, a ciò che papa Benedetto, da maestro e teologo, ha denominato “ermeneutica della riforma”. Egli è un sostenitore della necessità della riforma della Chiesa e si è opposto a quanti hanno letto il Concilio Vaticano II utilizzando “l’ermeneutica della rottura-discontinuità” o quella della “tradizione-continuità”.
Non è un mistero per nessuno la contrapposizione interna alla Chiesa attuale tra “progressisti” e “tradizionalisti”. Non sono neanche piaciute a tutti le aperture di papa Benedetto ai “lefebvriani” -ora frustrate dalla loro chiusura senza ritorno ad ogni accoglienza conciliare- né la legittimazione della liturgia in latino secondo i dettati del Concilio di Trento. Il famoso rito romano “straordinario” o “rito antico” come impropriamente, l’ho mostrato nel mio libro, lo chiama qualcuno. Anche qui il papa ha utilizzato una sua ermeneutica che ha provocato un certo disorientamento tra i fedeli e nel clero. Ma la motivazione dichiarata di tale scelta ermeneutica, contraddetta dall’utilizzo di forme simboliche tradizionaliste, è sempre stata l’attuazione del Vaticano II e la riforma della Chiesa.
Ciò è sembrato a molti una contraddizione in termini. Il bello, però, è che adesso il papa ha aperto la via a tale urgente necessità proprio con un atto che rompe con la “tradizione”, o meglio con una certa visione statica di “tradizione” che consiste nel considerare l’immutabilità delle forme, ed anzi considerando la forma più importante del contenuto. Col suo gesto il papa ha rotto con la tradizione. Non so, e forse non lo sapremo mai, almeno che il papa non lo dichiari expressis verbis, quale sia il grado di consapevolezza del suo atto di rinunzia come atto di metamorfosi ontologica, di trasfigurazione teologica secondo il monito evangelico: “se il chicco di grano non muore rimane solo; se invece muore porta molto frutto” [Gv 12, 24].
E ancora, secondo l’inconsapevole profetizzare di Caifa: “è meglio che un solo uomo muoia per il popolo” [Gv 11,50]. O secondo le parole paradossali di Gesù ai discepoli per convincerli che la Chiesa sarebbe nata solo dalla sua morte: “è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado non verrà a voi il Consolatore ” [Gv 16,7]. Naturalmente papa Benedetto ha colto lo spirito di tali affermazioni evangeliche e se ne è lasciato guidare. Un mio amico teologo mi ha inviato, “a caldo”, un suo scritto in cui dichiara come “secondo Benedetto XVI, c’è bisogno di qualcosa di nuovo, rispetto a cui egli stesso si sente in ritardo. È il bisogno di una riforma interna alla Chiesa, che fa a pugni con la consapevolezza che le strutture in cui la Chiesa stessa si è configurata e persino anchilosata sono, con i metodi e le risorse di cui il papa dispone, irreformabili”.
Nella linguistica della rinuncia papale c’è questo anelito alla trasfigurazione della Chiesa - dove metamorfosi è essenzialmente ri-forma- concretizzato dalla sua morte al mondo o al “mondo” di questa Chiesa. Lo ha esplicitamente dichiarato che ha deciso di restare nascosto, in disparte, in solitudine, in una mistica forma di clausura, in attesa della trasfigurazione ultima, sua e della Chiesa. E siamo sicuri che lo farà, che asseconderà questa forma di morte mistica per il viscerale amore che porta alla Chiesa.
Nell’ermeneutica del gesto papale assunto ad atto di linguistica simbolica, stolta per il mondo ma non per la fede cristiana, traspare esteticamente, proprio nell’ottica gadameriana, la bellezza della verità, con la sua portata universale di svelamento che collima con l’atto teologico della ri-velazione, che è ad un tempo togliere il velo e rimetterlo. Una lezione che vale anzitutto per la Chiesa.
Le implicazioni sono molteplici, a partire dalla considerazione non sacrale della persona del papa, dallo smantellamento dell’assetto monarchico vigente nella Chiesa e la consequenziale instaurazione di una prassi di governo collegiale che il Concilio ha caldeggiato e che pochi profeti coraggiosi e inascoltati, come il cardinal Martini, hanno strenuamente sostenuto. Inoltre la rinuncia ad un primato di giurisdizione papale che può accelerare, e di molto, il processo ecumenico e la reale riconciliazione tra le Chiese.
Lo scandalo di Chiese separate appare insopportabile in un tempo come il nostro di marginalizzazione del cristianesimo proprio a causa delle sue contraddizioni interne. Poi, una più efficace partecipazione laicale alla vita della Chiesa, su basi di maggiore consapevolezza teologica e non di scimmiottature clericali a base devozionale; per una Chiesa sempre più consapevole del suo ruolo sociale e politico, termini da intendere come servizio all’umanità, per il riscatto delle povertà, della dignità umana, della libertà, della giustizia.
Queste ed altre cose possono discendere dalla “morte mistica” di papa Benedetto XVI data perché venga il Consolatore al prossimo Conclave che potrebbe essere l’ultimo della storia della Chiesa; se il Consolatore sarà lasciato entrare si potrà pensare ad una rappresentanza più ampia delle chiese locali all’elezione del successore di Pietro. Papa Benedetto passerà alla storia per aver adempiuto simbolicamente il suo ministero pastorale mostrando con un solo “fatto” che sulla solida base del Vangelo tutti i presunti valori sono scardinati e altri vengono messi in luce, i più nascosti, quelli che nessuno considera; e che la Chiesa è semper reformanda.
Papa Benedetto ha messo in luce non tanto il suo essere Pontefice, termine magniloquente quanto biblicamente inappropriato, quanto piuttosto il suo essere “servo”, “umile operaio nella vigna del Signore” come esordì nel suo primo discorso alla Chiesa e al mondo. Forse pochi sanno che il vero titolo del papa, quello che segue il suo nome nei documenti ufficiali è servus servorum Dei: servo dei servi di Dio! E’ nella logica del Vangelo che il più grande sia il servo di tutti e il più piccolo di tutti! Leo Di Simone