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Violenza sulle donne... (dalla de-generazione alla ri-generazione)

di: Desirèe Giancana - del 2012-07-20

Immagine articolo: Violenza sulle donne... (dalla de-generazione alla ri-generazione)

“La violenza sulle donne è in forte aumento”. A mio avviso, sarebbe più corretto dire che ad essere in forte aumento sono le denunce di violenza. Evento triste che affonda le sue radici nella storia più antica, solo negli ultimi anni, le donne hanno, finalmente, trovato il coraggio di rompere il cerchio dell’indifferenza e della rimozione.

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  • Nella maggior parte dei casi, infatti, questa violenza è consumata in ambito familiare, vale a dire in un contesto in cui dovrebbero prevalere fiducia, rispetto, amore e lealtà. Questo è uno dei principali motivi per cui l’atto violento, ancora troppo spesso, rimane sommerso, subito in silenzio: fino a poco tempo fa la donna non lo denunciava  per diverse ragioni: paura, vergogna, minacce, sensi di colpa, tendenza a negare o minimizzare l’accaduto, volontà di proteggere l’aggressore (magari padre dei suoi figli), nella speranza che qualcosa cambiasse (come spesso promette l’uomo violento).

    Solo negli ultimi anni questo fenomeno drammatico si è trasformato da “questione privata” a “problema pubblico”. Basti pensare agli agghiaccianti fatti di cronaca cui i mass media ci hanno quotidianamente abituato.

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  • Proviamo allora a ragionare sui possibili fattori che scatenano questo tipo di comportamento. Significativo è il fatto che la violenza viene agita laddove si concretizzano le più intense e ravvicinate relazioni, in famiglia: l’uomo violento è spesso un marito, un compagno, un ex fidanzato; questo ci fa pensare che si tratta di una “forma patologica di relazionarsi all’altro” , basata sulla marcata distinzione fra ruoli.

    Il filo conduttore nella “riflessione sulla violenza alla donna” è, dunque, la constatazione di una diseguaglianza (che troppo spesso scade in discriminazione) fondata, innanzitutto, sulle diversità biologiche. Che siamo “diversi” è un fatto facilmente percepibile, ma l’elaborazione di questa diversità (che in nessun caso significa inferiorità!) è compito assai più complicato.

    Il primo fattore è il “vizio d’origine” , che costringe l’uomo ad essere primo nella mente di Dio, per far nascere solo successivamente e da una costola dell’uomo, la donna. L’uomo, dunque, nell’immaginario collettivo, è potente (quasi onnipotente), mentre la donna diviene ostaggio di pregiudizi (come ancora avviene nelle vicine culture arabe) e di presunta inferiorità.

    Questo è il processo che sta alla base della distinzione dei ruoli fra i due generi, all’interno di una società patriarcale: l’uomo diviene autorità, la donna assume su di sé il ruolo di responsabilità, che costituisce anche il suo limite, poiché, inevitabilmente, lo scarto fra autorità e responsabilità crea dipendenza. Il ruolo  che la donna svolge all’interno della famiglia patriarcale costituisce di per sé un ostacolo alla sua individuazione, denuncia e sottrazione al comportamento violento, giacchè è organizzato intorno al “prendersi cura sempre, comunque e prima degli altri”, favorendo i meccanismi di dipendenza di cui parlavo poc’anzi.

    Il ruolo femminile/materno entra così nella formazione del circuito di violenza in due momenti:

    • Quando pone la donna nell’atteggiamento di colei che cerca di soddisfare i bisogni altrui, presentandola come disponibile ad  ogni richiesta;
    • Quando riduce la capacità di reazione, attraverso il limite delle sue responsabilità derivate da richieste non soddisfatte o ignorate.

    E’ qui che riesce difficile alle donne distanziare l’azione violenta dal violento, spesso giustificandolo. Questo circuito si autoalimenta e spiega gli avvenimenti che purtroppo restano di un’attualità sconvolgente.

    Il secondo fattore determinante nella spiegazione della violenza alle donne (strettamente collegato al primo) è la rivoluzione culturale avviata dalla donna nel corso del XX secolo, proprio per rivendicare il proprio ruolo non solo all’interno della famiglia, bensì all’interno di un sistema sociale più ampio.

    La donna che, come abbiamo visto, fino a poco tempo fa, doveva mantenere l’unità familiare “a tutti i costi”, oggi è una donna che ha imparato a porre il limite, oltre il quale, l’uomo può accedere solo abusando di lei.

    Questo mutamento della donna, nel tentativo di ricercare la sua nuova identità sociale, ha però destabilizzato l’uomo, il quale non ha parallelamente avviato una sua rivoluzione culturale, rimanendo ancorato ad uno stereotipo di marito e padre oramai desueto e vedendo vacillare la sua posizione, senza riuscire a ridisegnare i suoi spazi.

    La donna ha, cioè, messo in crisi quei diritti dell’uomo sanciti e riconosciuti fin dai primordi, scoprendo le sue debolezze e  da “macho” è diventato “micio”. Questo ha fatto scattare in lui una delle passioni più devastanti, come definite da Lacan, cioè l’odio, che in questo contesto deve essere inteso come “gelosia” per una donna che sottrae e deruba l’uomo di qualcosa che, fino a pochi anni fa, era esclusivo appannaggio dell’essere nato maschio.

    La violenza nasce allora come tentativo di ristabilire, attraverso la forza, quello status quo e diviene unico mezzo per comandare e, in casi limite, eliminare la rivale, affrancata del ruolo di nemica. La donna, in queste menti deviate, è vista non come una persona, ma come una proprietà da dominare, un oggetto da consumare.

    L’uomo violento non vuole rinunciare “alla sua preda” e la tormenta (stalking), la umilia, la insulta e la maltratta (violenza psicologica), la prevarica fisicamente (acting-out).

    Nel suo intimo la donna viene, in tutte queste forme, lesa nelle sue sicurezze e nella sua autostima fino a provare dei sentimenti d’impotenza, disturbi del sonno, ansia e depressione. E’ per questo motivo che la richiesta d’aiuto diventa momento estremamente difficile e doloroso.

    Il compito della società allora è quello di aumentare l’accesso alle risorse per queste donne a rischio, attraverso l’informazione e le reti sociali di sostegno che promuovono l’ascolto dei racconti tragici di queste donne, aiutandole a trovare gli strumenti per superare il trauma e fornendo loro la spinta motivazionale a reagire.

    Questo rappresenterebbe il passaggio dall’autoritarismo (di cui la donna è stata vittima) all’autorevolezza e al rispetto, in cui la donna rinasce protagonista.

    Questo è il mio auspicio: una sfida che, seppur difficile, travalichi il piano strettamente socio-culturale e investi la mentalità.

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