La prostituzione e la chiusura delle case d'appuntamento. E' ancora giusto così?
del 2018-01-18
Utilizziamo solitamente la frase “il mestiere più antico del mondo” per definire un fenomeno, la prostituzione, che nei secoli ha avuto una eco strascinatasi fino ai giorni nostri. Il legiferatore, di volta in volta, è stato costretto a emanare dei provvedimenti di legge appropriati per disciplinare il fenomeno stesso alle esigenze e alle culture del periodo storico che si viveva.
Nel tardo medioevo la chiesa considerò le dispensatrici di sesso delle puttane, nel senso più volgare del termine, e tassò la loro professione. Non sorprenda sapere che il ricavato dell’imposta servì alla chiesa di Roma per finanziare opere come le “Terme di Caracalla”, il selciato di “Piazza del Popolo”, finanche la “Basilica di San Pietro”. La Curia rilasciava una licenza e indicava i luoghi, esterni, dove le meretrici potevano esercitare il loro mestiere.
La prima abitazione che fu adibita a bordello (situata ai bordi delle città) fu aperta a Messina nel 1432. L’allora re delle Due Sicilie, Alfonso d’Aragona, legalizzò, con tanto di patente, lo sfruttatore (magnaccio, protettore, pappone) e colei che poteva tenere (tenutaria) all’interno della sua casa donne disposte a concedersi all’ospite di turno in cambio di denaro.
Nacque, così, la figura del ruffiano. Ruffiana fu la chiesa che, per meglio speculare sul corpo delle donne, condannò quelle che, per evitare di pagare le imposte dovute, svolgevano il mestiere all’esterno dei postriboli, le cosiddette “lucciole”. Esse potevano redimersi dal grave peccato dell’evasione (e non dal meretricio) solo se si pentivano ed erano disposte a farsi suore. Questo poiché anche Gesù aveva redento, molti anni prima, una prostituta, Maria Maddalena, venerata dai fedeli come Santa.
Solo nel 1700 fu adottato un sistema di controllo sanitario per le malattie infettive, con visite mediche obbligatorie. Nell’anno 1859 anche lo Stato si fece tollerante e cominciò la sua opera di sfruttamento della prostituzione. Fu Camillo Benso, conte di Cavour, a istituire in Italia per la prima volta la “Prostituzione di Stato”. Un apposito decreto legge disciplinò le modalità con le quali si poteva aprire una “casa di tolleranza”, imponendo sia le visite igieniche sia il tariffario per le prestazioni sessuali al quale erano applicate le imposte. Un’imposizione fu di tenere le persiane delle abitazioni abbassate tale che, da quel momento in poi, furono identificate come “case chiuse”.
Quest’abominio cessò nell’anno 1949, quando l’“Assemblea Generale delle Nazioni Unite” adottò la “Convenzione per la soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui”. Fu abolita ogni forma d’esercizio e d’induzione alla prostituzione. Non furono tutti gli Stati che la ratificarono, tanto ne è che ancora oggi, in Germania, la prostituzione è riconosciuta come un vero e proprio mestiere, con tanto di garanzie assicurative, orario d’obbligo delle prestazioni sessuali, rivendicazioni sindacali, diritto sia all’indennità di disoccupazione sia alla pensione.
In Italia fu la legge Merlin del 1958 che impose la chiusura delle case d’appuntamento che, per quanto giusta, privò le casse delle Stato di cospicui introiti contributivi. A distanza di sessant’anni si parla, sempre con maggiore insistenza, d’abrogare quella legge, di ripristinare le “case chiuse” e di riregolamentare tutta la problematica, all’unico scopo di reincassare delle somme che sarebbero molto utili a tutto il sistema Italia.
E’ una di quelle questioni per le quali s’intersecano due linee di pensiero: progresso o regresso? Potrebbe essere la fine di quel detto “Il corpo è mio e lo gestisco io”, tanto caro alle donne sessantottine. Per completezza d’informazione è giusto dire che in Italia l’attività prostitutiva, se è resa liberamente, non è vietata. La legge Merlin ha disposto soltanto la chiusura delle “case di tolleranza”, introducendo reati come lo sfruttamento e il favoreggiamento alla prostituzione.
Per quanto riguarda, poi, il fattore fiscale, la Cassazione, con la sentenza n. 10578/2011 e il decreto legge 223/2006, art. 36 c. 34 bis, ha inquadrato l'attività di prostituzione, qualora esercitata in forma autonoma, come soggetta a Iva, facendola rientrare fra le "Altre attività d'intrattenimento e di divertimento non comuni altrove". Ancora la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15596 del 27 luglio 2016, ha fatto un deciso passo avanti assimilando il meretricio al lavoro autonomo se è svolto in forma abituale, oppure annoverandolo nella categoria dei “redditi diversi” se è svolto in forma occasionale.
Ove si tornasse a delle forme di prostituzione legalizzate dallo Stato, è chiaro che i lavoratori del sesso, riconosciuti come tali, dovrebbero avere diritti e doveri analoghi a tutti gli altri prestatori d’opera, con possibilità d’accesso alla previdenza sociale e a tutte le altre forme di garanzia sociale.