"Il mio primo anno d'insegnamento tra ricordi, ansie e gioie". Il ricordo della maestra Anna Bono
di: Anna Bono - del 2019-07-20
Che sempre l’insegnamento sia stato un lavoro faticoso cominciano a capirlo in parecchi. Fino a poco tempo fa infatti attorno a questa professione circolavano molti luoghi comuni: hanno tre mesi di ferie all’anno; a Natale e Pasqua se la spassano tranquillamente a casa; lavorano poche ore a settimana.
Come tutte le professioni ad alta esposizione relazionale infatti, l’insegnamento affatica emotivamente, in quanto presuppone il “pescare” da se stessi ogni mattina quelle competenze, motivazioni ed emozioni utili a stabilire i migliori contatti tra sé e gli alunni.
E’ spesso necessario mettere da parte i problemi personali, le proprie difficoltà, le ansie, cercando di mostrarsi sempre disponibili, senza cadere nell’eccesso opposto del permissivismo e dello stare sempre a disposizione. Poi ci sono gli alunni: unici, con caratteristiche, sensibilità e problemi particolari. Problemi di sempre (vivacità, prepotenza, disattenzione, indisciplina), ma anche problemi nuovi, inediti, difficili da evitare e ancor più da affrontare (il bullismo, l’aggressività, il nichilismo, la strafottenza).
Oggi pubblichiamo un racconto della maestra campobellese Anna Bono che ricorda con emozione i primi giorni: "Avevo vinto il concorso magistrale...ero fresca di studi pedagogici e di metodi didattici provenienti dal pragmatismo americano ed appresi sui libri ma, quando mi trovai di fronte ad una scolaresca vera, non più ipotetica, mi resi conto che dovevo reinventarmi come persona e soprattutto come insegnante ...mi sentivo smarrita e confusa...
Ero in assegnazione provvisoria al De Amicis di Campobello per il biennio di prova e la giovane direttrice didattica Nicolina Accardi Tardo, che mi aveva preparato per il recente concorso, mi affidò una prima classe frequentata anche da sua figlia Sonia. Era una classe d'elite, in cui erano presenti le figlie di alcuni professionisti, ma, per fortuna, anche di bimbe provenienti da famiglie umili.
Capirete il mio stato di preoccupazione...essere sotto il controllo continuo del capo d'istituto con i quaderni che andavano e venivano dalla direzione. Per fortuna qualcuno dall'ALTO ebbe pietà di me perché tutto andò nel migliore dei modi.
C'era però un fatto che mi sconvolgeva e che non mi dava pace. C'era una bimba diversa, dolcissima, laboriosa, sempre attenta ma incapace di motricità fine della mano e non c'era bisogno di scomodare l'alta psicologia per capire che quella bimba aveva bisogno di interventi specifici individualizzati.
Allora non esistevano gli insegnanti di sostegno, ma le scuole speciali, dove venivano radunati tutti i bimbi con handicap fisici, psichici o intellettivi, dove si faceva di tutte le erbe un fascio, dove ogni individuo era destinato a peggiorare. Malgrado le varie sollecitazioni per spedire quella bimba alla scuola speciale mi opposi e volli tenerla con me.
Impugnava la matita con entrambe le manine come se fosse stato un manico di scopa e premeva con forza la punta sul foglio del quaderno, poi saliva e scendeva senza tener conto del rigo, tanto che lo scritto sembrava il referto di un elettrocardiogramma. In questo suo strano modo di scrivere ci metteva tantissimo impegno, non si distraeva, non parlava con nessuno, a volte si fermava sfinita e sudata, però, sia pure un po' più lentamente delle altre, cominciava a leggere. Non la rimproverai mai, anzi la incoraggiavo e la lodavo per il suo impegno e la valutavo sempre scrivendo sul quaderno BRAVISSIMA.
Una compagnetta, con l'innocente gelosia dei sei-sette anni di età, si tolse gli occhiali da vista e me li portò perché mi rendessi conto che la sua compagna non sapeva scrivere. Le spiegai con garbo che ci vedevo bene, anzi che doveva essere proprio lei ad aiutarla...questo incarico la inorgoglì tantissimo.
Escogitai un metodo particolare che rese felici tutte le bimbe. Feci portare a scuola, dentro una scatoletta vuota di formaggini, tanti bottoni. Tutti quelli che riuscivano a reperire in famiglia, di tutte le fogge e misure, di cui dovevano disegnare il contorno sul quaderno. Per loro era un gioco, per me un mezzo per recuperare la bimba che non riconosceva le forme rotonde.
Tutte le compagnette l'aiutarono e nel mese di maggio ci fu la fioritura completa del mio rosaio. Tutte, alla pari, avevano conquistato l'abilità tecnica del leggere e dello scrivere, in un clima di affettuosa collaborazione.. Fu allora che mi convinsi che nella scuola occorre sempre essere fiduciosi e saper aspettare, perché ogni fiore, prima o poi, secondo i propri modi e i propri tempi, viene a sbocciare. Se noi vogliamo forzarlo a fiorire anzitempo, rischiamo di distruggerlo per sempre."