"Andò a caccami e finì impallinato". Quando con la cannuccia il nocciolo "diventava" un proiettile
del 2019-09-19
E' notizia di qualche giorno la proposta di intitolare alla memoria di Giovanni Calvitto, storico giornalista salemitano, corrispondente del Giornale di Sicilia e di altre testate giornalistiche, una via, una piazza o un edificio di Salemi.
Da oggi pubblicheremo sul nostro giornale alcuni racconti scritti da Giovanni Calvitto tratti dal libro "Racconti del Belìce". "Andò a caccami e finì impallinato" è il titolo del primo racconto.
"Il professore, in piedi dietro la finestra della sua casa di campagna, scrutava l'orizzonte e sperava che le piogge cadute in abbondanza non turbassero gli ultimi giorni di villeggiatura. Osservava sorridendo gli incoraggianti raggi di sole che si facevano spazio tra le nuvole e annunciavano il ritorno del bel tempo che a fine settembre può rivelarsi una delle ultime carezze della bella stagione, prima dell'arrivo del bizzoso ottobre. La pioggia settembrina dei giorni precedenti aveva costretto il professore a starsene rinchiuso nella sua villetta e a dedicarsi alla piacevole rilettura dei Promessi Sposi.
Di tanto in tanto guardava la sua doppietta appesa a un gancio fissato alla parete e sperava di poterla imbracciare durante quei pochi giorni che lo separavano dal trasferimento in paese per la ripresa delle lezioni che avevano inizio il primo giorno di ottobre.
Le case di campagna di quei tempi non somigliavano alle eleganti e in qualche caso lussuose costruzioni d'oggigiorno. Erano piccole casette, frutto di sacrifici e sudati risparmi, costruite con la pietra estratta dalle cave locali o, in altri casi, con i conci di tufo provenienti da Marsala. Chi le abitava, si sentiva felice come se vivesse in una reggia.
La villeggiatura era un piacevole e atteso divertimento, sognato durante i freddi mesi invernali soprattutto dai ragazzi i quali, una volta in campagna, si sentivano liberi di giocare all'aria aperta, di rincorrersi fra gli alberi, di preparare trappole per gli uccelli e di inventare, giorno dopo giorno, nuovi giochi. Le strade carrozzabili che collegavano il paese con le borgate o con i paesi del circondario, erano in terra battuta, e i viottoli si nascondevano nel verde che lasciava poco spazio alla penetrazione dei raggi del sole. Un angolo di paradiso (così appariva ai villeggianti) dove si sentiva soltanto il cinguettio o lo svolazzare degli uccelli non disturbati da rumori estranei, come, invece, avviene ai giorni nostri.
Le case mancavano di acqua corrente. Per i bisogni quotidiani bisognava fare ricorso alle pubbliche fontanelle, solitamente poste vicino alle ricche sorgive del nostro territorio, circondate quasi sempre da un'erba detta la " mulinara" che dava un forte senso di frescura. Chi aveva un pozzo nella sua proprietà si sentiva privilegiato e consentiva a qualche vicino di farne uso. La luce elettrica era un sogno e tale rimase fino agli anni '70. Illuminavano la sera i lumi a petrolio, le candele e poi, il gas metano.
I mezzi di trasporto pubblico erano di là da venire. Entrarono in servizio alcuni anni dopo. I villeggianti si muovevano a piedi e raggiungevano il posto di lavoro con lunghe passeggiate quotidiane. Nessuno si lamentava, tutti si sentivano soddisfatti di trascorrere un terzo dell'anno a contatto con la natura. Spesso la sera, si improvvisavano incontri con famiglie di amici e si trascorrevano alcune ore di sana allegria. Nel gruppo c'era sempre qualcuno che sapeva suonare la chitarra. Si cantava, si accennava a qualche ballo e la serata si concludeva quasi sempre dietro la porta di una famiglia amica per la tradizionale serenata.
I caccami
Il professore non aveva figli. Forse non si era ancora sposato. Persona molto garbata, si rapportava bene con i suoi studenti che lo stimavano. Amava la caccia, malgrado fosse affetto da una fastidiosa miopia che lo costringeva a portare gli occhiali. Approfittando del ritorno del bel tempo, riprese con sé il fucile e si avviò verso Bagnitelli, percorrendo i viottoli che risalivano il pendio. Nel mese di settembre avviene la maturazione di un frutto gradito molto dai ragazzi: i caccami.
Pur essendo commestibili, i caccami non venivano raccolti dai giovani per farne scorpacciate ma per servirsi dei nocciòli che, ripuliti dalla polpa, venivano usati come " proiettile" per colpire bersagli come persone, animali e cose (lampade della pubblica illuminazione, per esempio), standosene nascosti. La pianta del caccamo (bagolaro) produce frutti grossi quanto un cece, con pelle coriacea e polpa dolcigna che ricopre il piccolo nocciòlo.
Quando i ragazzi si affrontavano nei loro giochi di "guerra", si mettevano in bocca la giusta quantità di frutti che venivano celermente masticati per liberare il nocciòlo e renderlo pronto per essere soffiato. Polpa e pelle venivano inghiottiti perché di gradevole sapore. Per lanciare i nocciòli si servivano della porzione più sottile di una canna, utilizzata come cerbottana. Sotto la spinta del soffio, il nocciòlo usciva velocemente dal "cannolo" e colpiva l'obiettivo".
Lu "zu Nenè"
Poiché in molte occasioni il gioco scatenava violente zuffe tra ragazzi, i vigili urbani intervenivano e li costringevano a consegnare caccami e cerbottana. Tutto quello che veniva sequestrato, finiva nello"zimmile" (bisacce di "curina", ovvero foglie essiccate di palma nana, bene intrecciate) sistemato sulla groppa dell'asina di "lu zu Nenè", netturbino con funzioni di raccoglitore della spazzatura, in precedenza accumulata dai suoi colleghi scopini negli angoli meno esposti ai venti della Strada Maestra, la Porta Gibli e Piazza San Francesco.
Quando "lu zimmile" era completamente colmo, "lu zu Nenè" si dirigeva verso la concimaia di via Schillaci, strada secondaria sotto la via Corso dei Mille e lo svuotava. Poi, tornava indietro e riprendeva il suo lavoro.
"Lu 'zu Nenè" era uno dei tanti simpatici personaggi della vecchia Salemi. Sempre sorridente, conosciuto da tutti e in tutti i quartieri, gli piaceva scherzare con i ragazzi che lo incrociavano nella Strada Mastra, a cavallo della sua paziente asina, mentre compiva uno dei suoi spostamenti per adempiere ai suoi incarichi. Veniva salutato dai "picciotti" con rispetto: "Vossia benedica, zu Nenè". A volte rispondeva "Biniditteddi," altre volte "Biniditti finu a Pasqua". E dopo Pasqua? gli chiedevano i ragazzi. "Dopo Pasqua rinnovamu". Qualche volta prendeva in giro il suo nome canticchiando questi versi: "Nenè, Nenè, chi beddu figghiu è. Avi 'nna testa quantu 'nna palla quannu camina pari c'abballa". Lo "zu Nenè", per malattia, lasciò il servizio e non si vide più in giro.
La schioppettata
Un pomeriggio di fine settembre, tra gli anni 1948 - 1950, pochi giorni prima che si aprissero le scuole un ragazzo, emigrato da parecchi decenni al Nord, s'era inerpicato su di un albero di caccamo, in una campagna tra Filci e Sinagia, per fare provvista di frutti. Fare provvista significava approvvigionarsi tanto quanto potesse bastare per sè e per la compagnia, solitamente una decina di ragazzi. Quel giorno, non si sa perché, era andato da solo a fare rifornimento.
Occupato com'era ad alleggerire i rami, non si avvide che sotto l'albero si era seduto un cacciatore per riprender fiato. Era il professore. Il docente, stanco per la salita, si era adagiato all'ombra dell'albero e con il fazzoletto si asciugava il volto sudato. Improvvisamente, percepì che dalla chioma dell'albero arrivavano fruscii che interpretò come lo svolazzare di uno stormo di uccelli che, posatisi sui rami, di tanto in tanto si spostavano cambiando posizione. Il professore rivolse lo sguardo verso l'alto ma non vide nulla che potesse insospettirlo. Non provocava rumori per evitare che i volatili si spaventassero e riprendessero il volo. Si fidò del suo intuito. Imbracciò il fucile, lo puntò in direzione delle foglie che stormivano e sparò due colpi.
S'aspettava una caduta di uccelli che immaginava già in pentola. Invece dall'albero non caddero pennuti, ma venne giù il ragazzo di cui si è detto, coi glutei che sembravano un colabrodo (in quel caso un colasangue) che gridava "aiuto, aiuto! , m'ammazzaru"! Il povero professore per poco non svenne.
Si fece forza e resistette perché richiamati dallo sparo e dalle grida, accorsero alcuni contadini i quali, pur essi in preda a grande preoccupazione, non si persero d'animo. Organizzarono un rapido soccorso e portarono il giovane a braccia fin sulla strada dove venne poi adagiato su di un calesse e accompagnato in ospedale, che allora si trovava nei locali dell'ex convento delle Clarisse, oggi sede dell'Ufficio Tecnico. I medici si accorsero subito che le ferite non erano gravi. Solo pochi pallini gli bucarono le natiche.
Nella sfortuna, cacciatore e vittima, furono aiutati dalla sorte: le cartucce erano caricate con pallini adatti alla caccia degli uccelli. Il giovane, aiutato dagli infermieri, venne messo in posizione prona e medici e paramedici lo liberarono dai corpi estranei. Un intervento doloroso, ma non pericoloso. Ai lamenti del ferito, qualcuno degli accompagnatori che lo confortava tenendogli la mano, scherzando parafrasava un vecchio proverbio e gli diceva che "…chi di palline (nocciòli) colpisce, di pallini (di piombo) patisce".