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Castighi, penitenze e voti. Ricordando “l’abitinu” tra credenze popolari e tradizioni ormai perse

di: Vito Marino - del 2018-05-29

Immagine articolo: Castighi, penitenze e voti. Ricordando “l’abitinu” tra credenze popolari e tradizioni ormai perse

Durante la Civiltà Contadina, scomparsa intorno al 1950, solo la terra produceva un reddito sicuro e consistente; ma la terra era di proprietà dei nobili, della borghesia e della Chiesa.

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  • La Chiesa possedeva ancora una buona fetta di terreni  agricoli, ricevuti come lasciti dai fedeli in punto di morte, per assicurarsi un posto in Paradiso o per  essere sepolti  in chiesa.

    I contadini nullatenenti, che erano la stragrande maggioranza della popolazione, non potendo accedere al benessere col semplice e duro lavoro,  per assicurarsi un avvenire sicuro, spesso sceglievano la carriera ecclesiastica, anche se non possedevano una vera vocazione. Succedeva spesso che una buona parte dei  prelati era ignorante e abusava della veste che indossava.

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  • Essi, infatti, in quegli anni incutevano il terrore fra i fedeli con la minaccia del fuoco eterno dell’inferno, e, dopo la confessione assegnavano ai peccatori, come penitenza dei peccati commessi, degli “esercizi spirituali” disumani, come camminare con le ginocchia e, contemporaneamente  strisciare la lingua sul pavimento della chiesa, dal portone d’ingresso all’altare principale. Si trattava di una punizione molto pesante, che tuttavia il paziente peccatore eseguiva  per redimere i propri peccati. Ma c’erano delle punizioni ancora più rigide, come flagellare il proprio corpo a sangue, come castigo dei peccati commessi.

    Altre penitenze potevano essere camminare a piedi  scalzi in un pellegrinaggio o per seguire una processione, salire una scalinata di chiesa camminando con le ginocchia.

    Queste forme estreme di penitenze imposte dai pretidell’epoca, durante la “Santa Inquisizione”, degenerò al punto che addirittura si bruciavano vivi i peccatori per peccati  molto gravi commessi, come l’eresia e la stregoneria.

    Ma, allora la gente era più credente ma anche più sempliciotta: per loro era più che giusto effettuare una penitenza anche pesante per scontare i peccati commessi.

    Quando una persona chiedeva una grazia alla Madonna o ad un santo, prometteva come contraccambio, “lu votu”, che poteva essere: una penitenza (come fare un viaggio a piedi scalzi), dare degli aiuti ai poveri (come l’artaru di San Giuseppi), portare un abito votivo addosso.

    Chi ha fatto un “voto” a San Giuseppe, a grazia ricevuta, oltre alla “cena” (tavolata), deve preparare “l’Altare di San Giuseppe”, un lavoro e un rituale lungo, che ho già spiegato in occasione della Sua ricorrenza .

    Un altro caso tipico di “voto” era   “L’abitinu”, per come era comunemente chiamato l’abito votivo, un saio con colori e ornamenti prestabiliti per ogni santo,  che si doveva indossare a grazia ricevuta.

    L’abito, per evitare l’ira del Santo, si toglieva solo, quando era completamente logoro.

    Per ottenere da Dio la cessazione di catastrofi, guerre o epidemie, si effettuavano in maniera collettiva, preghiere, processioni, punizioni corporali.

    A Castelvetrano, in occasione di prolungate siccità, nel passato  si effettuavano processioni e si pregava San Giovanni, considerato Santo protettore della città dal 30 marzo 1697.

    Ma, se la grazia non arrivava, l’esasperazione popolare portava alla esecuzione di pene contro gli stessi Santi. Ce ne da una ricca testimonianza il Vuiller, uno scrittore e pittore francese del 1800, nel suo libro “La Sicilia”; egli visitando Castelvetrano, fu testimone di un castigo popolare verso tutti i Santi adorati a Castelvetrano.

    Egli scrisse:  Lo scirocco soffiava con estrema violenza […] Al suono delle campane i popolani e specialmente le donne, si dirigevano verso la cattedrale di San Giovanni. Ho seguito la folla e sono entrato in chiesa. Il coro è pieno zeppo di statue. La Madonna dei Sette Dolori, vestita di nero, come si conviene, alza gli occhi al cielo; ha un gran pugnale d’argento immerso nel cuore e tiene in mano due fazzoletti ricamati. San Vito, in costume da pioggia, ha il privilegio di guarire gli idrofobi, conduce due molossi incatenati; insomma una gran quantità di Santi a me sconosciuti finora sono messi in fila. Stavano lì in penitenza, quei poveri Santi; erano stati tolti dalle loro parrocchie e riuniti tutti in quella chiesa; non saranno riportati a casa loro che dopo la pioggia, se poi si castigheranno, se non vorranno ascoltare le preghiere di questo popolo che li supplica, il loro castigo si prolungherà. Le donne, imbacuccate nei loro scialli, s’accostavano devotamente alle immagini dei Santi, ne toccavano i piedi due volte e portavano poi, subito, le punte delle dita alle labbra; altre si prostravano baciando la terra, i ragazzini e le bambine facevano altrettanto e nella penombra della navata quella processione di donne vestite a lutto aveva qualche cosa di veramente lugubre, c’è n’erano di accoccolate negli angoli, che biascicavano preghiere a mezza voce, mentre sgranavano i chicchi della corona, e tutte si muovevano senza far rumore. Una di loro venne verso di me, mi prese per mano, mi trascinò con sé senza proferir parola; girammo dietro l’altare, sollevò un velo e mostrò la statua di San Giovanni. Perché quella statua velata? Forse per ottenere la pioggia, le si faceva quell’affronto?

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