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Il doloroso ricordo della "Spartenza"

di: Rosanna Sanfilippo - del 2012-09-03

Immagine articolo: Il doloroso ricordo della "Spartenza"

La spartenza non è un semplice allontanamento, non è soltanto una separazione, è una dolorosa lacerazione, uno strappo violento che non potrà mai essere sanato, continuerà a sanguinare per tutta la vita, per tante vite. È lo spasimo del corpo e dell’anima insieme che passa attraverso sensi e sentimenti e ti lascia svuotato.

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  • Il pianto e le grida delle donne di casa mi entrarono dalle orecchie e si conficcarono nella mia testa come acuminate punte di lancia, al solo ricordo di quel dolore, ancora oggi, ad distanza di ottant’anni, hanno il potere di sanguinare.
    Spaurito e con le lacrime agli occhi, mi attaccai alla lunga e avvolgente gonna nera da lutto di mia madre, cercando, così, di celarmi a quella straziante scena di dolore che non avrei più dimenticato.

    All’epoca non avevo più di sette, otto anni, a quell’età il ricordo di fatti e personaggi, sulla scena della vita, si fissa in maniera indelebile nella nostra mente, soprattutto se i ricordi sono dolorosi.
    Il nonno aiutava lo zio Gaspare a caricare sul carretto il pesante baule che la nonna e la zia Vincenzina, avevano riempito, durante la notte, appena presa la decisione di partire, di biancheria e del necessario per il viaggio: un formaggio stagionato, due vastedde di pane e un fiasco di vino.

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  • Quest’ azione si ripeteva per la seconda volta, nel giro di pochi giorni, al pensiero, tremai per la paura.
    Su quel carro avevo visto arrivare il corpo senza vita di zio ‘Ntonu, e poi era stato caricato di nuovo su di esso, dentro la bara di legno, per essere trasportato al cimitero.
    Il cavallo era impaziente ma nessuno si decideva a partire, prolungando così quello spasimo.

    La nonna continuava a gridare e piangere come aveva fatto per la morte del figlio, d’altra parte sapeva che non avrebbe mai più rivisto neanche questo figlio, ne il resto della famiglia!
    La decisione di partire era stata presa in fretta, dopo la morte di zio ‘Ntonu, fratello di papà, morto ammazzato dalla lupara nelle campagne vitesi in c.da Baronia.

    L’avevano avvertito! Gridava il nonno, che lì non doveva mettere più piede! Io gliel’avevo detto – ‘Ntonu, quelli non scherzano, se non ubbidisci, un giorno o l’altro ti fanno  ‘u cappottu di lignu.
    E così era stato.

    Zio ‘Ntonu non voleva passare per pisciasotto, così aveva detto e aveva continuato ad andare alla Baronia a lavorare la terra da lui presa in gabella, soffiandola sotto il naso a quella famiglia mafiosa che ora lo minacciava.
    Io non mi faccio intimorire - disse ‘Ntonu a suo padre - se c’è da sparare, sparo.
    Ma erano stati quelli a sparare per primi, l’avevano sorpreso al casolare a notte fonda.

    La mattina successiva, all’alba, di ritorno dall’esecuzione, avevano pure avuto l’arroganza di passare davanti casa del nonno, mentre uno di loro, soffermandosi, disse, rivolto al nonno, – ma chi successi sta notti ‘a  Baronia? Un si pigghiau sonnu pi li spari!
    Mio nonno comprese subito ciò che era successo, alzò le braccia al cielo, si mise la mani fra i capelli, poi saltò a cavallo e lo spronò ad andare, mentre a fior di labbra ripeteva– ‘Ntonu, ‘Ntonu, ti lu dissi di non sfidarli!
    Anche la nonna capì e rimase immobile, inebetita dal dolore.

    Il nonno trovò il figlio esanime, sfigurato dai pallini della lupara, attaccato mani e piedi come Gesù Cristo.
    D’impeto prese il fucile, abbandonato vicino al cadavere del figlio e, con quanta rabbia aveva in corpo, gridò – quant’è vero Dio, li ammazzo tutti!
    Ma, fatti pochi passi, incrociò lo sguardo buono del suo cavallo, si fermò e quasi parlando a se stesso, cominciò a ripetere – io non sono un assassino, non sono un assassino.

    Il nonno era una brava persona e un grande lavoratore, come lo erano stati suo padre e suo nonno prima di lui. Pensò alla sua famiglia e tornò sui suoi passi, si inginocchiò innanzi al corpo del figlio e, battendo le mani a terra con disperazione gridava – terra, terra suputa di sangu e di duluri, matri chi la matri un sai fari…,  pianse a lungo. Lo trovarono così i suoi, ancora in ginocchio, colpevole di non aver saputo proteggere il figlio.

    Adesso doveva salvare il resto della famiglia, prima che fosse troppo tardi!
    Dopo il funerale, chiuse porte e finestre di casa e radunò la sua famiglia.
    -Figli miei, dobbiamo prendere delle decisioni importanti e non c’è tempo da perdere.
    L’altro figlio, Nicuzzu, che sin a quel momento non aveva spiccicato parola, mal interpretando il discorso del padre, si fece avanti, - padre, vossia è anziano, ma non si deve preoccupare, penserò io ad ogni cosa, quelli che hanno ammazzato a me frati si pentiranno d’ essere nati.

    Ma il padre cercò di calmarlo, - siediti Nicuzzu e attentami. Quando arrivai alla Baronia e trovai il corpo senza vita di mio figlio, col cuore che mi scoppiava d’odio e di dolore, imbracciai il fucile per fare giustizia e vendicare  ‘Ntonu.
    Ma poi ci ripensai, noi non siamo assassini e anche se una persona ci diventa, spinta dall’odio e dala disperazione, se ne pentirà amaramente e non basterà tutta la vita per espiare.

    Invece si deve ragionare ed io ragionai, anche se accecato dall’odio e dal dolore, e mi convinsi che la cosa più giusta da fare è quella di pensare alla nostra famiglia, salvarla da altre faide che porterebbero soltanto altri lutti e altro dolore. Io, come hai detto tu, sono vecchio, perciò tocca a te assumere la guida della famiglia, la responsabilità di pensare alla tua e a quella di ‘Ntonu, a questi picciriddi che cresceranno senza padre, da oggi sarai tu il loro padre e li tratterai come fossero tuoi.

    Ma non potrete più vivere qua, con la paura che ci perseguita, dovrete andare via, lontano e nessuno dovrà sapere dove andrete. Partirete questa notte stessa, vi darò il cavallo e il carretto e quei pochi risparmi frutto di una vita di sacrifici, di sudore della fronte, di duro lavoro.
    A noi, disse, guardando la moglie, d’ora in poi non servirà più niente, buona fortuna.
    Abbracciò il figlio, fece una carezza ai nipoti, disse alla nuora vedova di aver coraggio.

    Poi estrasse l’ orologio dal taschino, slacciò la catena che lo assicurava alla cintola, guardò l’ora un’ultima volta, era l’unico oggetto prezioso che avesse mai posseduto e lo mise nelle mani del figlio.
    - Questo orologio era di mio padre, lo ereditai alla sua morte. Alla nostra morte, non ci sarà più nessuno, qui, a raccogliere la nostra misera eredità o a piangere!
    Correva l’anno 1905.

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