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Il ritorno a casa di Lina dopo 30 anni dal terremoto del Belice tra ricordi ed emozioni

di: Rosanna Sanfilippo - del 2012-07-17

Immagine articolo: Il ritorno a casa di Lina dopo 30 anni dal terremoto del Belice tra ricordi ed emozioni

Provai un’immensa delusione quando, finalmente giunta in quella piazza, vidi quella piccola porzione di cielo, tutto sommato sereno, in quella giornata autunnale, racchiusa tra le mura della Chiesetta di San Biagio e le decrepite case del quartiere, adagiate l’una sull’altra, quasi a sorreggersi a vicenda. Quella piazza rappresentava tutto il mio mondo di bambina felice!

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  • E’ forse per questo che, nel mio cuore, ne avevo serbato un ricordo ben diverso da quello reale! Qui avevo trascorso il tempo più spensierato della mia vita, l’infanzia, avevo passato tante ore liete assieme ai miei compagni di gioco, ma anche momenti tristi magari soltanto per un capriccio non soddisfatto, per una voglia di bambina non appagata.

    Dopo trent’anni d’assenza, tornata nel mio adorato paese, percorsi, col cuore in gola dall’emozione, quelle stradine che mi avrebbero riportato nel mondo incantato della mia infanzia. Ma, arrivata li, mi guardai intorno e, per la prima volta, mi accorsi di quanto piccola fosse quella piazza.

    Oggi, certamente, potevo fare il paragone con le più belle piazze d’Italia e, sebbene, abitando a Bologna, attraversassi spesso piazza Maggiore, non avevo mai pensato che la piazza che portavo nel cuore potesse essere più piccola o men bella di quella. Ad un tratto capii che non ero più la piccola Lina di una volta e, guardandomi intorno, per la prima volta mi resi veramente conto del tempo che era trascorso, degli anni che erano passati!

    Ora tutto si stava svolgendo come al cinema, avevo riavvolto la pellicola sulla quale era impressa la storia della mia vita ed il film era partito da capo nella mia memoria, sempre uguale, come mille altre volte… La memoria!…scrigno di ricordi, custode dei pensieri più intimi, di sensazioni mai svelate, di voglie mai appagate, di odori percepiti a fior di pelle!

    Risentivo l’odore di fracido che in autunno emana la terra, bagnata dalle prime piogge che fanno seguito ad una torrida estate. Rivedevo le foglie, color della terra, cadere giù da quell’unico albero e volare via come inutili pezzi di carta appena strappati e buttati via da un bambino capriccioso, spinte dal vento, intrufolatosi per quelle stradine, in una danza propiziatoria.

    Anche adesso l’albero è spoglio e non per la stagione autunnale, ma perché ormai è solo un arbusto rinsecchito, testimone dello scorrere di tante vite che il tempo inesorabile ha portato via. Chiudo gli occhi e sento ancora l’allegro vociare delle donne del quartiere nei giorni che precedono il tre febbraio, festa di San Biagio protettore della gola, la cui chiesa si affaccia su quest’unica piazza, qui nel quartiere del Rabbato. 

    Le donne si riunivano nella sagrestia per l’annuale fatica e dalle loro mani venivan fuori delle vere opere d’arte pur lavorando materie povere prodotto della nostra civiltà contadina, farina e acqua erano gli unici ingredienti. “Cuddureddi” e “Cavadduzzi” rappresentano, i primi la gola, gli altri le cavallette, sono degli ex voto in ringraziamento al Santo protettore della gola e in ricordo di una leggenda secondo la quale, in tempi molto antichi, vi era stata a Salemi un’invasione di cavallette scacciate via per intercessione del Santo.

    Sento ancora la fragranza del pane, che si sprigiona dal forno della parrocchia, diffondersi per la piazza dove noi bambini giocavamo. Appena sfornati i piccoli pani, la donna più anziana c’è ne faceva dono di quanti riuscivano a contenerne le sue mani, grassocce e callose, unite insieme a mo’ di cesto.

    Quanti ricordi in quella piazza! Le corse sfrenate finite male per quei gradoni acciottolati da piccoli sassi ovali, color della cenere, il pianto di bambina e le sgridate di mia madre! Il Rabbato, nome questo attribuitogli dagli arabi, è uno dei quartieri che si trovano geograficamente più in basso rispetto al centro urbano del paese.

    Salemi è un paese adagiato su una collina dove lunghe gradinate, degradanti verso il basso, collegano fra di loro le strade intagliate a semicerchio nella roccia. Chiudo gli occhi e sento ancora il rumore del telaio provenire dalla casa di…Penelope, che, con ritmo spedito e costante, batte, in modo da legare ben insieme trama e ordito mentre, lentamente, nella parte inferiore del grande telaio di legno, consumato dalla fatica giornaliera, la tela cresce. Faccio fatica a ricordare chi fosse quella… Penelope, forse zia Peppina o zia Sara, ma non ha alcuna importanza ormai! Ora mi guardo intorno, ma le povere case di una volta, provate dal sisma del 1968, mi sembrano fantasmi di un tempo lontano.

    Ai balconi, da dove pendevano gerani e si spandeva nell’aria un profumo di basilico e di bucato fresco ed erano stesi ad asciugare al sole assieme ai panni, pomodori e fichi, conserve per l’inverno, ora cresce indisturbata l’ “erba di vento”, nome comunemente dato alla Paretaria. Non ci sono più persiane a celare l’intimità della famiglia e dalle grondaie di terracotta e dalle fessure dei muri pendono erbacce e bocca di leone i cui semi vengono portati lì dagli uccelli.

    E’ mezzo giorno e a riportarmi alla realtà quotidiana sono i rintocchi della campana della chiesa, quel suono dolce e pacato, risveglia quella vita ormai immobile. Vedo gli uccelli volare via, spaventati da quel suono, un cane che sbadiglia annoiato ed una vecchina sull’uscio che mi guarda incuriosita. Le vado incontro nel vano tentativo di riconoscerla, le dico “sono Lina, figlia di…” e pronuncio il nome di mia madre e quello di mio padre, le dico che da piccola ho vissuto qui, ma che nel ’68, dopo il sisma, sono andata via dal paese, dalla Sicilia.

    Quell’ anziana donna fa segno di riconoscere i nomi dei miei e mi invita ad entrare.  Per lei la vita non è cambiata, niente è cambiato, la piccola casa dal pavimento di mattoni rossi, il soggiorno primo ‘900 ed il Rosario dai grossi grani di legno, dono dei monaci della Terrasanta, appeso alla parete, tutto è uguale da anni. Mi racconta dei suoi figli, andati anch’essi via, all’estero in cerca di fortuna; soltanto uno di loro è rimasto in paese ma, sposatosi, è andato a vivere nel nuovo centro sorto dopo il terremoto. Qui è rimasta soltanto lei a contare ogni sera i grani di quel Rosario e i giorni che ancora le restano da vivere.

    Poi, mi avvio per la stradina che costeggia la Chiesa, dove si trova la casa che apparteneva ai miei genitori, la rivedo; rivedo la scala esterna che porta al piano superiore, l’ “annatu”, da lassù un gatto mi guarda sornione, giù “u catoiu”, a cui si accede scendendo un gradino al di sotto del piano di strada, emana ancora un forte odore di stalla, di sterco antico.

    Alzo gli occhi e vedo la nonna affacciarsi col “falari” di tela bianca, tessuto al telaio di casa, annodato alla cintola e quei capelli grigi tirati ben bene dietro la nuca, il suo viso rugoso e quel suo sguardo attento a ciò che succedeva in strada. Sto sognando!!! Come in un miraggio rivedo la piazza pullulare di vita, l’albero rifiorito, Mimma, Nina, Gasperino, Gino, Maria, Lina giocare al “tocco”, al “Pizzo”, alla “Ria”; rivedo la mia bambola di “pezza”, dai lunghi capelli di lana rossa, abbandonata sull’uscio di casa, sento ancora il rumore del “carruzzuni” per la discesa che passa per l’arco Pisano. Ma è solo un sogno!… Domani farò ritorno al mio presente.

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