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Il terremoto nel Belice e il ricordo indelebile di quel fischio del treno

di: Rosanna Sanfilippo - del 2012-07-17

Immagine articolo: Il terremoto nel Belice e il ricordo indelebile di quel fischio del treno

S’udiva in lontananza il fischio del treno, trasportato dal vento gelido di tramontana. Il freddo, pungente e secco, che soffiava dal nord, insinuandosi tra i vestiti, penetrava nel corpo e corrodeva le ossa, contribuendo ad aumentare il disagio in chi, come me, era travagliato nell’anima per quell’importante decisione che da lì a poco avrebbe dovuto prendere che gli avrebbe cambiato la vita.

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  • Il ricordo di quell’inverno, ne ero sicuro, ciascuno di noi l’avrebbe portato per sempre dentro di se e non soltanto per l’eccezionalità degli eventi atmosferici! Era arrivata pure la neve ad imbiancare il nostro paesaggio collinare ma non aveva portato allegria, aveva solo aggiunto affanno agli affanni nella mia gente colpita dal sisma.

     Il terremoto, in poche ore, aveva cambiato la vita di noi siciliani della Valle del Belìce, spazzando via ogni cosa, radendo al suolo interi paesi e seppellendo sotto le macerie la gente, colta nel sonno ristoratore della notte che rinfranca le membra stanche dalla fatica quotidiana, facendo vacillare ogni certezza.

    Quel freddo avevamo dovuto sentirlo tutto quanto, essendo stati costretti a dormire all’aperto sotto le tende della Protezione Civile in aperta campagna o dentro le auto, per paura dei crolli che, la notte del 15 gennaio, avevano mietuto tante vittime devastando tutta la Valle.

    Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Montevago, Santa Margherita di Belìce, Partanna, Santa Ninfa,Vita e Salemi, alcuni del tutto, altri in parte, in pochi minuti erano stati distrutti dalla natura, crudele matrigna che, lanciato il suo urlo sinistro e bieco dai meandri della terra, si era sbizzarrita in una danza di morte falciando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, non risparmiando neppure vecchi e bambini, che, per la fragilità della loro condizione, sono stati quelli che hanno subito il maggior danno.

    Alcuni quartieri di Salemi: il Carmine, San Francesco di Paola, il Rabbato, la Matrice, con le loro vecchie case ubicate nel groviglio di vicoli arabeschi tanto stretti al punto che il sole, talvolta, non riusciva a penetrarvi, divennero un ammasso di macerie e una trappola mortale.

    Avevo appena compiuto i 17 anni proprio quel 15 gennaio da poco trascorso e non avevo mai, neanche per un momento, pensato di lasciare la famiglia, di andare via dal mio paese, Salemi era tutto il mio mondo. La mia è una grande famiglia patriarcale, come lo sono le famiglie qui da noi in Sicilia. Non è composta soltanto da genitori e figli, ma da nonni e anche dagli zii che non ne hanno una loro, è difficile sentirsi soli se si fa parte di una di queste famiglie.

    Ma, dopo lo smarrimento iniziale che fece seguito al sisma, la situazione economico-sociale si presentò in tutta la sua tragicità. Eravamo rimasti senza un tetto, senza lavoro e mio padre, da solo, non avrebbe potuto provvedere alle necessità di tutta la famiglia!

    Toccava a me, che ero il più grande dei quattro figli, aiutarlo. Così, quando sentii che si poteva ottenere il biglietto del treno, per poter emigrare e andar a cercare fortuna altrove, corsi subito a prenderne uno anch’io.

    Già molti dei miei coetanei erano partiti con la valigia mezzo vuota di indumenti ma colma di speranze! Alla stazione ferroviaria, però, in attesa del treno, l’entusiasmo iniziale mi si era bloccato a metà fra la gola e lo stomaco, a peggiorare la situazione, non da ultimo, era stato il freddo pungente e gelido di febbraio.

    Per la prima volta nella mia vita avrei lasciato la famiglia ed il paese per incamminarmi, da solo, per i tortuosi sentieri della vita. Mi guardai intorno smarrito, in cerca di consensi, per la travagliata decisione che avevo preso, nelle persone che mi stavano accanto, ma vidi soltanto volti di sconosciuti che, presi dai loro affanni, non si curavano certo degli affanni e del travaglio interiore di un ragazzo qualunque qual io ero.

    Osservai con attenzione i miei compagni cercando di indovinare lo scopo del loro viaggio, ma mi accorsi subito che doveva essere molto diverso dal mio. Intanto il fischio del treno diventava sempre più forte e distinto, di lì a poco questo grande animale di ferraglia sarebbe apparso, sbuffante, all’orizzonte e non ci sarebbe stato più tempo per riflettere sulla decisione da prendere.

    Qualche minuto dopo il treno si fermò, io tirai un lungo respiro per sgombrare la mente dal turbinio di pensieri che l’assalivano e vi saltai su, pronto ad andare incontro al mio destino.

    Foto: Il castelvetranese Doc

     

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