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Quando nell'antichità "Li Patrunedda" erano di casa nelle abitazioni castelvetranesi

di: Vito Marino - del 2013-12-17

Immagine articolo: Quando nell'antichità "Li Patrunedda" erano di casa nelle abitazioni castelvetranesi

Durante la civiltà arcaica contadina scomparsa intorno al 1950, la maggior parte della popolazione conduceva un tenore di vita ai limiti della sopravvivenza. Martellata periodicamente da morbi e carestie, cercava aiuto e conforto in credenze che riuscissero a placare i continui mali. Tuttavia era molto religiosa, ma di una religiosità che non faceva distinzione fra “Li cosi di Dio”, per come si diceva allora, la superstizione e paganesimo.

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  • Per quanto riguarda il paganesimo si tratta di reminescenze di quello celtico e germanico risalente al periodo quando i popoli barbari conquistarono l’Impero Romano; in quel momento storico il loro paganesimo si fuse con quello romano e col cristianesimo che incominciava a divulgarsi.

    La superstizione invece è un’eredità lasciataci dai musulmani durante la loro colonizzazione in Sicilia. Così, fede, preghiere e scongiuri stavano assieme per avere più efficacia. Se, ad esempio, una persona ammazzava anche per negligenza, un gatto, dopo ne restava terrorizzato, non perché aveva ucciso un essere vivente, una creatura di Dio, ma perché, secondo la superstizione, avrebbe trascorso sette anni cattivi.

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  • Così i cattivi raccolti o il tempo inclemente erano considerati il frutto dei peccati commessi e dalla mancanza di preghiere, mentre le malattie erano causate da “fatture” fatte da persone invidiose e cattive.  In tutte le case non mancavano mai le immagini sacre o gli altarini; ma, per avere maggiore protezione (non si sa mai!), molte famiglie aggiungevano cornetti, gobbetti e fiocchi, tutti rossi contro le “maarii”.

    Inoltre, spesso si vedevano grosse corna di bue, poste a bella vista sull’architrave della porta d’ingresso. Molte donne, male interpretando “li cosi di Diu”, consideravano peccato anche fare l’amore con il marito e accettavano l’atto mal volentieri; addirittura ogni volta si facevano il segno della croce e andavano a confessarsi.        

    Una volta il popolo era più credulone e certe credenze popolari apparivano come delle grandi verità. Le storie di diavoletti, folletti, spiritelli affascinavano un po’ tutti; d’inverno al calduccio del braciere con la carbonella accesa o nella stagione estiva di sera seduti fuori a prendere il fresco, ognuno aveva la sua storiella da raccontare.

    Secondo la credenza popolare, in tutte le abitazioni coabitavano fate, spiriti o folletti, che dir si voglia.

    Esseri "impalpabili", entità soprannaturali,  chiamate con nomi diversi a seconda della zona: “donni di fora, gintuzzi di casa,  donni di notti,  donni di locu, belli donni, beddi cavalieri, beddi signuri, donni di casa;  a Trapani le chiamano “fatuzzi”, a Castelvetrano “patrunedda di casa”.

    Questi esseri, a seconda delle situazioni, assumevano figure evanescenti di animali, o diventavano vento, o presenze invisibili ma percepibili. Solo le persone a loro sottomesse erano nelle condizioni di percepirli o addirittura di vederli.

    Essi si presentavano come belle signore, eleganti, vestite con una lunga veste bianca,  con drappeggi da antiche romane o col manto nero da monaca, oppure con raffinati costumi dai vivaci colori, suonavano strumenti a corda e tamburelli, danzavano in gruppo nella notte.

    Li “patrunedda” se venivano accettati e rispettati degnamente, avrebbero preservato gli abitanti della casa da malattie; in modo particolare avrebbero protetto i neonati e li avrebbero fatto crescere sani e forti. Se invece erano trascurati si sarebbero vendicati anche con torture o mandando malattie, e disgrazie fino alla morte.

    Queste entità più che malvagie erano capricciose e inaffidabili, nessun sentimento profondo e duraturo albergava in loro; esse racchiudevano in sé caratteristiche che appartenevano sia alle fate che alle streghe, personificavano, cioè, l’unione di forze che nella mentalità occidentale sono sempre state considerate opposte e separate.

    Spesso porgevano doni o indicavano nel sonno tesori nascosti (truvatura) o comunicavano i numeri del lotto. Essi vivevano stabilmente nelle case, la volevano sempre in ordine e pulita e amavano le mense imbandite. Chi andava ad abitare in una casa nuova o cambiava abitazione, doveva prima farsi conoscere e accattivarsi la loro simpatia; a tale scopo metteva agli angoli delle stanze dei doni, di cui poteva disporre, con la speranza che fossero graditi dai “patrunedda”. Generalmente si trattava di soldi e di roba da mangiare odorosa, come pesci fritti, ma si potevano porre anche patate cotte e condite con olio e sale o insalate.

    Mentre si friggevano i pesci si doveva ripetere più volte la seguente frase magica: “Isci, isci, tuttu l’annu crisci, crisci”, dove “isci” sta per pesce (prosperità). Se nella famiglia c’era un bambino ancora lattante, occorreva la presentazione; a tale scopo si girava la casa con il bambino in braccio ed in ogni stanza si diceva: “cca lu fici so matri, comu lu fici lu curcavi (qua lo fece sua madre, come lo fece lo coricai), viceversa le fate si offendevano e, per vendetta  lo scambiavano con un altro, menomato.

    Infatti, secondo le antiche credenze e superstizioni dei Siciliani, si raccontava di bambini che, lasciati sani e belli, si trovavano poco dopo gobbi, storpi, o con qualche altro grave difetto fisico. In effetti, si trattava di gravi malattie invalidanti come la poliomielite, decalcificazioni ossee, vaiolo, sconosciute al popolino. Si sosteneva, allora, che il proprio bambino era stato “canciatu di li fati”, cioè scambiato con un altro, dalle fate. Evidentemente, secondo la credenza, era stata arrecata un’offesa, anche involontaria alle fate e quelle si erano vendicate.

     Forse era un modo inconsapevole per consolarsi in maniera onorevole della disgrazia subita e di quello che allora era ritenuto un disonore, l’avere un disabile in casa. Questo nuovo bambino meritava tutti i riguardi; ogni eventuale male procuratogli era riportato dalle fate a quello “vero e sano” preso in cambio e tenuto quasi come ostaggio.

    Qualora, senza toccare il bambino e senza piangere o gridare, si chiedeva alle fate la restituzione del bambino sano, questo veniva riportato. “Li scrippiuna” (i gechi) erano considerati la personificazione vivente degli spiriti caserecci, pertanto erano trattati bene, perché proteggevano contro i geni del male.

     Così, quando un geco entrava in casa, non era mandato via, anzi la sua scomparsa o la morte accidentale poteva apportare malattie lunghe e penose. Si tratta di credenze popolari, le cui origini si perdono nella notte dei tempi; sicuramente gli “Dei Lari”, protettori del focolare domestico degli antichi Romani, pur di sopravvivere, si sarebbero adattati alle varie civiltà succedutesi nel corso dei secoli, arrivando sino a noi.      

      Quando ero ragazzo ho visto un paio di volte bambini, ancora lattanti, con una lunga treccia di capelli appiccicati fra loro che impedivano di pettinarli. Allora si sosteneva che questa era la “trizza di donna” (treccia di donna), che, come effetto della benevolenza delle fate, si doveva accettare e non si doveva assolutamente tagliare. La treccia, frutto della mancanza d’igiene, dopo qualche tempo cadeva e tutto si risolveva.

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