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L'olio italiano criticato dal New York Times. Ma c'è olio e olio...

di: Gianfranco Becchina - del 2014-02-08

Immagine articolo: L'olio italiano criticato dal New York Times. Ma c'è olio e olio...

Quando i giornalisti ci si mettono di buzzo buono, tagliano, detto alla siciliana, carne ed ossa. È quel che ha fatto, provocando un vero terremoto, Nicholas Blechman, art director del New York Times, con un suo servizio sul quotidiano  fra i più letti in occidente.  

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  • Se l’è presa con l’olio italiano. Nientedimeno che con il fiore all’occhiello della nostra disastrata economia agricola, facendo di tutte l’erbe un fascio. Che poi è la cosa che fa rodere di più.  

    Sostiene, infatti, nelle pagine del prestigioso giornale, aiutandosi  con delle vignette abbastanza velenose, che l’olio italiano venduto negli Stati Uniti contiene di tutto all’infuori della linfa salutare delle nostre buone olive. Il miglior veleno in commercio, insomma, ottimo per gli aspiranti suicidi.  

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  • Una bella botta, non c’è che dire. Anche per il nuovo ministro ad  interim dell’agricoltura, nonché presidente del Consiglio, che ha preso su di sé l’eredità della sconsiderata Nunzia (niente di apostolico, s’intende), troppo “in tutt’altre faccende affaccendata” - similmente a tanti altri suoi predecessori - per accorgersi di quel che avveniva nel mondo del suo dicastero.

    Un po’ quella che si dice una patata che più bollente non potrebbe essere, per i responsabili istituzionali che avranno il buon senso di occuparsene. Ne va della reputazione del Made in Italy. Un disastro, insomma, in aggiunta ai guai che ci sommergono. La classica goccia che fa traboccare il vaso.  

    Fino a questo momento non si intravede nessun nuovo ministro all’orizzonte. Speriamo che, questa volta, la scelta del presidente Letta si riveli più oculata e che riesca a trovare quello giusto fra gli immancabili aspiranti. Magari qualcuno che prenda molto a cuore tutta la faccenda, che non si limiti alle questioni di lana caprina delle quali Bruxelles generosamente concede ai nostri funzionari di occuparsi: dalle virgole alle dimensioni dei caratteri sulle etichettature.  

    Personalmente penserei a qualcuno di buona volontà, che faccia qualche gita a Napoli per imparare il trucco.  

    Che poi sarebbe esattamente quel che ha fatto, in quattro e quattr’otto, il bravo giornalista newyorchese, prima di montare il suo pernicioso servizio così gravido di conseguenze per l’avvenire di quegli agricoltori che continuano a credere che “lassù, qualcuno li ama”. Se c’è arrivato lui, la stessa cosa dovrebbe risultare ancora più facile, per esempio, alle nostre fiamme gialle di frontiera, abbastanza di casa nei porti colabrodo della penisola.  

    Per quel che mi riguarda, non aspettavo la notizia bomba del giornale  americano per apprendere il misfatto assurto agli onori della cronaca: ne avevo scritto e parlato parecchi anni orsono, regnante in Sicilia il famigerato Cuffaro.  

    Mi ricordo che da quel momento i controlli nella nostra modesta azienda di produttori di olio, divennero esasperati ed esasperanti, anche se, con nostra malcelata soddisfazione, si sono sempre risolti con la constatazione del nostro rigore produttivo e commerciale.

    Un giorno l’azienda fu persino invasa da una squadra di finanzieri, comandati da un ufficiale pluristellato, dalla marcata parlata  napoletana, che finì con l’arrabbiarsi molto con me, sol perché gli ribadii di fare attenzione a quel che avveniva nel porto della sua città, dove si imbarcava l’olio certificato di semi per poi sbarcarlo extravergine negli Stati Uniti. Ovviamente lasciandogli la libertà di arguire quel che intendevo riguardo alle responsabilità di certi (vedesse lui) suoi colleghi.  

    Mi rendo conto che il nostro presidente del Consiglio, molto preso a parare gli incidenti di percorso che giornalmente, da una ministra all’altra, dalla  Cancelliera di ferro a Berlusconi, gli capitano fra capo e collo, non può farsi carico di ogni cosa. O di ogni quisquilia, se vogliamo, impegnato com’è ad elemosinare soldi in giro per il mondo arabo, nell’illusione di poter frenare l’emorragia nel pozzo senza fondo delle nostre finanze. Oppure, forse, solamente per darci prova, attraverso questi davvero insignificanti segnali, delle sue presunte doti taumaturgiche.

    D’altra parte, non ci sono forse presidenti e assessori regionali, provinciali e comunali, cui competerebbero le attività di controllo? E,  ancor più giù, direttori generali con nugoli di segretarie che non rispondono mai al telefono, se non, quando raramente lo fanno, per indirizzarti ad un altro particolare ufficio dove, ovviamente, gli squilli a vuoto riprendono?

    Uffici e strutture dove, purtroppo, non ritengono di doversi dare la pena di recepire, con l’indispensabile umiltà,  la lezione impartita loro  dal gravissimo e per tanti versi obbiettivo servizio, straziante per l’immagine dell’Italia, ad opera di un giornalista capace di scoprire quel che preferiscono ignorare i responsabili della tutela del nostro patrimonio produttivo.  

    Capaci solo, parlo della Sicilia, di affrontare l’argomento rilasciando dichiarazioni alla stampa quotidiana (Giornale di Sicilia del 3 febbraio 2014), enumerando, completamente fuori tema, dati produttivi che ben poco hanno a che vedere con lo scandalo delle frodi alimentari. Come se al consumatore americano importasse la quantità, piuttosto che la qualità dei nostri prodotti.  

    Diciamo che la reticenza e la confusione, negli uffici della Regione Sicilia, continuano imperterrite a non farci difetto. Dove metteremmo, altrimenti, la nostra fama di omertosi?

    È veramente penoso che dei nostri impianti olivicoli  se ne debba parlare come di qualcosa di obsoleto. Da estirpare a favore di sistemi colturali buoni solo per celebrare il de profundis di quel che dovremmo, invece, tenerci stretto: le nostre straordinarie cultivar, da mensa e da olio, che sarebbe criminale sostituire con le tipologie, adatte alla raccolta meccanica, che spopolano dalla Spagna all’Australia. Ma stavamo parlando d’altro, e questo è un discorso che merita di essere affrontato a parte, non fosse che per evidenziare incompetenza e contraddizioni di chi non capisce che il patrimonio naturale di eccellenze va preservato tanto quanto quello storico.  

    Per tornare all’olio mortale, a parte le volenterose prese di posizione di categoria, brillano per il silenzio eloquente le nostre istituzioni.  

    Nessuno che senta il dovere di farsi interprete degli operatori che producono sano; di smettere di svicolare su quello  che non si può negare; di chiedere scusa; di promettere che lo scandaloso andazzo verrà stroncato e che neanche una goccia d’olio, in entrata e in uscita, transiterà nei nostri porti con denominazioni e certificazioni menzognere; di assicurare che i frodatori la pagheranno.  

    Un messaggio di credibilità, accompagnato da una tangibile opera di pulizia, tale da poter salvare quel che resta dell’olivicoltura, qualora la frode cessi di farla da padrona. Nient’altro!

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