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L'olio in vendita nei mercati spesso riempiti di prodotti chimici

di: Gianfranco Becchina - del 2014-05-06

Immagine articolo: L'olio in vendita nei mercati spesso riempiti di prodotti chimici

La questione di particolare attualità sulle gravi pecche attribuite all’olio d’oliva italiano attraverso le pagine dell’autorevole New York Times, e via via dal resto dei media, impone che l’argomento venga tenuto vivo più di quanto non sia avvenuto finora. Fatta ovviamente salva la stampa specializzata del settore, che non raggiunge il grande pubblico dei consumatori e, a ben guardare, appare poco esaustiva quando non omissiva di qualche aspetto della materia.            

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  •  Non dovrebbe esserci alcun dubbio che il vero nocciolo della faccenda, meritevole di una particolare riflessione, vada cercato nell’uso sconsiderato che si fa della denominazione Olio Extravergine d’Oliva. Fatto che configura sempre più un vero e proprio inganno perpetrato a danno dei consumatori, vittime impotenti e forse anche inconsapevoli della fraudolenza premeditata di normative ad uso e consumo dei megagruppi del settore alimentare.

    Meno scrupolosi di quanto si pensi nell’adescare la gente con prodotti più che discutibili e con strategie di marketing congeniali alla loro politica egemonica di mercato. Soffermiamoci seriamente sul significato della definizione extravergine. Extra, dunque, rafforzativo dell’aggettivo vergine e quindi aggettivo anch’esso, per sottolineare la qualità superlativa del prodotto.              

    Ora, cosa possa esserci di superlativo nell’olio importato in Italia da ogni dove, privo di un minimo di pedigree, trasportato persino in navi petroliere, impupato attraverso non tanto misteriose alchimie, confezionato e rivenduto come prodotto italiano (extra e vergine), qualcuno dovrebbe spiegarlo.              Spiegare e soprattutto giustificare, sotto l’aspetto legale in primis, un simile abuso di denominazione in dispregio del significato delle parole.            

    Stiamo parlando di un mare di olio - arbitrariamente extravergine - che dilaga sul mercato, la cui italianità è certificata in bella evidenza da nient’altro che dal marchio italiano impresso sulle etichette, e che rappresenta il più colossale imbroglio sulla pelle dei consumatori oltre che dei veri ed onesti produttori.  

    Entrambi vittime di una falsa certificazione e di una pubblicità menzognera ed allettante. Capace, questa, di influenzare il potenziale acquirente che non si rende conto di essere distolto da quel minimo di riflessione che dovrebbe portarlo a dubitare seriamente delle blandizie mirate alla sua turlupinatura.      

    Infatti, non c’è nulla negli slogan che magnificano il prodotto che faccia cenno a tutte quelle caratteristiche obbligatoriamente legate ad un olio di così grande qualità da poterlo definire extravergine (superlativo, dicevamo all’inizio).              

    Caratteristiche, a cominciare dall’origine avvolta nel mistero, che non possono riassumersi solamente in valori di acidità oleica, peraltro modificabili a piacimento con banalissimi interventi chimici di rettificazione.

    Frode in uso persino in oli lampanti non commestibili, un tempo adoperati proprio per alimentare le lampade ad olio. È chiaro che l’ombrello dell’origine comunitaria, stando alla designazione in etichetta di molti oli in commercio, rappresenta un escamotage sotto il quale, di tutto e di più, viene vestito di legittimità ad opera dei gruppi societari esteri divenuti proprietari dei più rinomati marchi italiani.                

    Nulla da obbiettare, ovviamente, sui prodotti comunitari, sempreché rechino indicazioni chiare e meno aleatorie di quelle in uso, onde consentire la libera scelta del consumatore sia delle tipologie di olio che delle provenienze che più lo garantiscono. E quella comunitaria, diciamocelo, non garantisce un bel niente al di là del dubbio che gatta ci cova.     

    C’è un mercato incredibilmente invaso da una miriade di marche di olio che si fregiano, nell'anarchia più completa, del nobile appellativo che nelle intenzioni originarie doveva essere riservato ad un olio di categoria veramente superiore: extravergine per l’appunto, in cima ad una gamma di altre denominazioni di categorie inferiori delle quali non ci sono più tracce negli scaffali della grande distribuzione. Si vedono sempre meno, infatti, gli oli di sansa d’oliva, e tantomeno quelli denominati d’oliva o quelli vergini d’oliva, ognuno dei quali distinto da una precisa scala di qualità e caratteristiche.  

    Ormai non ci sono che oli extravergini, mentre gli altri sono diventati l’Araba Fenice della situazione. Il sospetto che questi introvabili oli possano abitualmente approdare, in un coacervo di altri grassi, più o meno vegetali da quattro soldi, nelle bottiglie di certi rinomati oli con l’imprimatur dei falsi leader dell’industria e della distribuzione appare molto plausibile.

    Assistiamo, quindi, all’inquinamento di un settore dove operatori alchimisti camuffati da produttori, che di ulivi non possiedono nemmeno l’ombra, ma ben forniti di mezzi finanziari - forti di regolamenti comunitari elaborati ad hoc onde imbacuccare gli inganni più scandalosi - imboniscono i consumatori con la più accattivante pubblicità, strombazzando come straordinario (extra-ordinario, piuttosto) il nulla qualitativo di certi oli  o la più sfacciata delle frodi.

    È inammissibile che questi pachidermi dell’industria e del commercio dell’olio d’oliva debbano continuare, grazie alla loro capacità di fare pressione, a beneficiare dell’emanazione di norme ritagliate su misura,  per giunta altamente penalizzanti per quei produttori ai quali si fa divieto di identificare in etichetta persino le caratteristiche geografiche della loro azienda.

    Norme, queste, che consentono di qualificare il prodotto olio con la più alta denominazione consentita pur proveniente da aree geografiche sfacciatamente omesse, dove non si guarda tanto per il sottile al rigore produttivo, condizione essenziale per attribuirsi un’immagine prestigiosa. In sintesi non siamo lontani dal potere affermare che, con la falsa attestazione extravergine, viene spacciato un quantitativo immenso di prodotto, privo di quel contenuto salutare che dovrebbe invece caratterizzarlo, che vale persino meno del prezzo apparentemente stracciato.

    Si tratta di abusi ai quali non pare che si voglia porre un serio rimedio, a ogni livello nazionale e comunitario, senza il quale tutte le considerazioni, precisazioni e rassicurazioni, non possono che lasciare le cose aperte ad ogni ulteriore imbroglio. Ed il più grave non può che essere la squalifica, lenta ma inarrestabile, del Made in Italy sull’altare di accordi comunitari incomprensibili, non certamente mirati alla salvaguardia delle produzioni di eccellenza.

    L’aver consentito di spacciare sotto una denominazione di per se stessa non plus ultra oli veramente scadenti, quando non completamente contraffatti, rappresenta una complicità bella e buona in una realtà di pertinenza a pieno titolo del codice penale, per il reato previsto di truffa aggravata dalla circonvenzione attraverso false informazioni.  

     Pensare di risolvere le cose con cambiamenti formali sulle denominazioni d'origine (consorzi, tutele e quant'altro), fa semplicemente  sorridere. Se non si preoccupa lo Stato di tutelare il settore, figurarsi quanto lo farebbero le associazioni variamente organizzate e localizzate. La soluzione per porre fine agli equivoci del settore olio, non può che risiedere nell’adozione di un severo disciplinare legato alla produzione di eccellenza – e tale deve essere e rimanere l’extravergine – unitamente all’indicazione della ristretta area di provenienza e della tipologia di cultivar.

    Per ottenere questo non occorre pensare a nuove denominazioni per l’olio extravergine, bisogna semplicemente fare il necessario per impedire agli abusivi di fregiarsene. Il solo modo per garantire al consumatore la necessaria trasparenza.

    Ridare, insomma, ad ogni tipologia di olio la propria identità. Quella che gli spetta, infischiandosi fermamente delle arroganti direttive comunitarie, colpevolmente accettate e sottoscritte dai nostri rappresentanti, tradizionalmente proni ad ogni diktat. Ma non è tutto, non abbiamo parlato della fase estrattiva dell’olio.

    Di questo importante aspetto della produzione, se vogliamo dare per scontato che la denominazione extravergine non può prescindere dal massimo rigore applicato a tutta la filiera produttiva. Non è, infatti, ammissibile il fatto che in aggiunta alla mancata provenienza certa e dettagliata dell’olio, della varietà e del periodo di raccolta delle olive, si sorvoli sul dove come e quando l’olio è stato prodotto.  

    E sui metodi di estrazione o pressione, sulla temperatura operativa dell’impianto di produzione che andrebbe certificata. Sappiamo bene che un’estrazione a temperatura elevata, oltre alle caratteristiche organolettiche, vanifica le qualità salutifere dell’olio.

    A caldo o a freddo, dunque, con sistema di estrazione o di pressione; con frantumatori o con molazze; in condizioni igieniche ottimali o precarie; con utilizzo di acque potabili o meno per la diluizione della pasta di olive in fase estrattiva: disciplinari senza i quali non si possono differenziare le varie scale qualitative dell’olio e le relative etichettature.  

    Tutte ragioni per le quali la certificazione di extravergine non può avere ragion d’essere per gli oli provenienti da filiere anonime o inesistenti. Con buona pace delle grandi organizzazioni di cosiddetti produttori con pompose tradizioni familiari, vecchie di decenni quando non di secoli. Bando, quindi, all’aggiunta di ogni trovata distintiva per l’olio di grande qualità, che deve mantenere esclusivamente la sua denominazione di extravergine senza bisogno di ulteriori orpelli.

    Così come è pure urgente moralizzare il mercato dell’olio, obbligando le aziende a dichiarare in etichetta il reale contenuto delle loro bottiglie e i procedimenti chimici di per se stessi totalmente estranei ed illegali per un olio extravergine. È Falso, e sempre falso, indicare che un olio è stato ottenuto esclusivamente con procedimenti meccanici, da parte di chi, in realtà, oltre a non possedere alcun impianto oleario, non può che ignorare quel che avviene in quelli di tanti paesi mediterranei. Raffinerie comprese.

    Ovviamente, le carte sono sempre a posto: l’olio importato, di qualunque natura possa essere, viene fatturato dal fornitore come extravergine, tranquillamente accettato come tale dal compratore complice e dalle patrie Dogane. Chissà se qualcuno, colpito sulla via di Damasco, vorrà, una buona volta, dare un segno di vita con l’intenzione di porre rimedio a quello che rappresenta un antico e non più tollerabile andazzo.

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