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Le sue scoperte destinate a cambiare la genetica. Il gibellinese Ignazio Verde si racconta a Cnews

del 2015-03-04

Immagine articolo: Le sue scoperte destinate a cambiare la genetica.  Il gibellinese Ignazio Verde si racconta a Cnews

Nel 2014 grazie al lavoro su “Nature Genetics” ha vinto il “Premio per la migliore ricerca pubblicata dal personale del Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l'Analisi dell'Economia agragria(CRA) nell’anno 2013.

  • Fratelli Clemente Febbraio 2023 a7
  • Con piacere ricorda gli anni di Liceo a Castelvetrano e nonostante viva a Roma ormai da anni porta con sé nel cuore la Sicilia e la sua Gibellina.

    Stiamo parlando di Ignazio Verde, 52enne, ricercatore  gibellinese al CRA  di Roma che con successo segnato da importanti pubblicazioni e riconoscimenti si occupa di genetica e genomica delle specie da frutto, pesco e drupacee.

    L’iniziale difficoltà nel raccontare la storia di Ignazio, da profani nel settore, nasceva nel capire realmente di cosa si occupasse al fine di formulare delle domande pertinenti. Complice la sua grande disponibilità  e gentilezza siamo riusciti a realizzare una intervista dalla quale si evince l’importanza delle sue scoperte e gli impatti che da queste possono derivare per milioni di persone che operano nel settore dell’agricoltura e per i consumatori.

    Ignazio, ci racconti il tuo percorso di studi? 

    Ho frequentato il Liceo Scientifico “Michele Cipolla” di Castelvetrano dal 1977 al 1982. Dopo il liceo mi sono iscritto alla facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Palermo dove ho conseguito la Laurea in Scienze Agrarie nel 1987.

    Quali ricordi porti con te del periodo di studi a Castelvetrano?

    Ricordi tanti e anche un po’ di nostalgia degli anni della gioventù. Ricordo con affetto i miei compagni di classe, con alcuni dei quali ho mantenuto i contatti, con altri (molti) li ho persi purtroppo.

    Un ricordo particolare va ai miei professori di allora, in special modo alla mia professoressa di matematica Antonietta Corte, a quella di francese Daria Centonze, a quella di lettere del biennio Angela Coniglio e alla mia professoressa di filosofia dell’ultimo anno Kate De Simone. Per ultimo, ma non meno importante, il mio professore di biologia del III anno con cui ho iniziato ad appassionarmi di genetica e delle leggi di Mendel. Ricordo solo il cognome, Pardi, e mi pare non fosse di Castelvetrano.

    Da quanti anni sei al Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CRA) e come ci sei arrivato?

    Lavoro al CRA – Centro di Ricerca per la Frutticoltura di Roma dal 1990. Dopo la laurea e un periodo di addestramento presso L’Istituto di Coltivazioni Arboree dell’Università di Palermo ho vinto un concorso come ricercatore e sono stato assegnato alla sede di Roma. Mi sono sempre occupato di genetica e genomica delle specie da frutto, pesco e drupacee in particolare. Dopo l’assunzione ho perfezionato la mia formazione con degli stage all’estero. In particolare ho lavorato per quasi un anno come visiting scientist presso la Clemson University negli USA con una borsa di studio dell’OCSE.

    Dedichi la tua vita lavorativa alla ricerca in agricoltura. Ma l’agricoltura per te è solo un lavoro o è anche passione?

    Diciamo che le mie origini sono contadine e da giovane mi sono sporcato le mani con la terra aiutando mio padre nella conduzione dell’azienda di famiglia. L’agricoltura per me è un’avventura, la prima grande rivoluzione dell’umanità. Jared Diamond nel suo “Armi, acciaio e malattie” individua proprio nel passaggio dell’uomo del Neolitico da cacciatore-raccoglitore ad agricoltore-allevatore, avvenuto per la prima volta nella Mezzaluna Fertile circa 10 mila anni fa, l’evento cruciale nello sviluppo delle società umane.

    Questo passaggio ha aumentato le disponibilità di cibo (un ettaro di terreno coltivato può sfamare fino a 100 volte più esseri umani che la stessa superficie sfruttata dai raccoglitori) favorendo l’adozione di uno stile di vita stanziale e, in ultima analisi, la nascita della civiltà e il suo successo tecnologico. Questo successo è stato possibile grazie alla domesticazione delle piante (grano, orzo e legumi) e alla nascita dell’agricoltura. Siamo figli di quell’innovazione, portiamo infatti i geni di quei proto-agricoltori che espandendosi trasportarono con loro anche le piante che avevano domesticato e la tecnologia ad esse legata: l’agricoltura. Le stesse piante che ancora oggi noi usiamo per nutrirci.

    I miracoli dell’agricoltura e della scienza e della tecnologia ad essa applicata sono ancora più tangibili nell’ultimo secolo. All’inizio del secolo scorso, infatti, l’agricoltura riusciva a malapena a sfamare circa un miliardo e mezzo di esseri umani e pochi di questi avevano accesso a cibo a sufficienza. Oggi l’agricoltura è in grado di nutrire una popolazione di sette miliardi di persone di cui circa 800 milioni non riescono ancora, purtroppo, a soddisfare i fabbisogni alimentari. Tutto questo è avvenuto senza aumentare le superfici coltivate.

    Come è stato possibile raggiungere nell’ultimo secolo questo risultato?

    Questo risultato è stato raggiunto grazie a un insieme di fattori: i miglioramenti dell’agrotecnica (irrigazione, concimazioni, difesa), la meccanizzazione e la genetica applicata, cioè il miglioramento genetico. Un solo esempio: un ettaro di mais (ma anche di grano o riso) all’inizio del secolo scorso produceva circa 10 quintali di granella oggi arriviamo tranquillamente ai 100. Si stima che oltre il 50% di questo guadagno in termini di resa sia da attribuire alla genetica applicata. Comprendere come questo passaggio sia avvenuto, quali caratteri l’uomo ha selezionato nel corso dei millenni e quali geni ha modificato è affascinante e istruttivo.

    Ci rende consapevoli di quello che abbiamo ricevuto in eredità e di cosa dobbiamo fare per preservarlo e migliorarlo, senza ideologie. E ci prepara alle sfide future che ci aspettano: sfamare una popolazione mondiale in crescita e ridurre l’impatto ambientale delle produzioni agricole (cioè meno acqua, meno concimi, meno pesticidi, meno energia) migliorando anche gli aspetti qualitativi e nutrizionali delle produzioni. Purtroppo nei libri di storia si studiano tutte le guerre e rivoluzioni e si ignora la più grande rivoluzione pacifica dell’umanità, quella che ci ha affrancato dalla fame: l’agricoltura. 

    Ti occupi in particolare della genetica molecolare delle specie da frutto. Il Sole 24 Ore in un articolo del 25 Marzo 2013 ha citato te tra i protagonisti di una importantissima ricerca pubblicata sulla rivista “Nature Genetics” dal titolo “The high-quality draft genome of peach (Prunus persica) identifies unique patterns of genetic diversity, domestication and genome evolution” con cui avete mappato l'intero genoma del pesco identificando ben 27.852 geni. Qual è l’oggetto di questa ricerca (in parole più “semplici” possibili) e se questo studio avrà un impatto pratico. Se si, in che modo?

    È una ricerca che parte da lontano, dal 2005 almeno. Nasce da una collaborazione tra Italia e USA a cui poi si sono uniti colleghi di altre nazioni, collaborazione confluita in un consorzio internazionale: l’International Peach Genome Initiative (IPGI). La parte italiana è stata finanziata nel 2008 dal MiPAAF con un progetto ad hoc, “DRUPOMICS”, che ho coordinato. L’Italia, voglio sottolineare, è il secondo produttore mondiale di pesche dopo la Cina.

    Lo scopo del progetto era di decifrare i circa 230 milioni di nucleotidi che compongono il DNA del pesco, il codice della vita scritto con un alfabeto di sole 4 lettere (A C G T). In questo libro di 230 milioni di lettere (il genoma) la Natura ha racchiuso tutte le istruzioni per realizzare quello che noi chiamiamo pesca: la sua succosità, la sua dolcezza, il suo aroma. Abbiamo individuato l’intera batteria di circa 27 mila geni che consentono di avere questo frutto prelibato.

    La sfida futura sarà quella di scoprire cosa esattamente ognuno di questi geni determina, capire quali di questi geni giocano un ruolo per i caratteri qualitativi (ad es. grado zuccherino, aroma) e quali per quelli di resistenza a malattie o a stress ambientali (siccità, gelo etc.). 

    Abbiamo anche individuato circa un milione di varianti genetiche (note anche come marcatori molecolari); esse spiegano come i diversi tipi di pesco differiscano tra loro a livello genetico, nella sequenza del DNA (es polpa gialla o bianca della pesca). I marcatori sono come dei segnaposto sul genoma e permettono di delimitare dei segmenti di DNA dove i geni di interesse si trovano. Alcune di queste varianti non portano a variazioni nei caratteri visibili della pianta, altre invece sono alla base di queste differenze. Anche in questo caso associare queste varianti a determinate caratteristiche ci aiuterà nella costituzione di nuove piante con tratti desiderabili come, ad esempio, la resistenza alle avversità.

    Questi sono i traguardi che ci aspettano nel prossimo futuro e grazie alla disponibilità della sequenza del genoma, che è pubblica e accessibile a tutti, siamo sulla buona strada. I laboratori di tutto il mondo utilizzano la sequenza per individuare i geni chiave in diversi processi e molti successi sono già stati ottenuti. 

    L’analisi generale di queste varianti genetiche ci ha permesso di tracciare anche l’impatto dei processi di domesticazione e di selezione sulla variabilità genetica di questa specie. Il pesco è nativo della Cina Nord occidentale, ed è arrivato in Occidente nel primo secolo avanti Cristo attraverso la Persia seguendo la Via della Seta.

    Durante questo percorso, dalla domesticazione della specie selvatica avvenuta circa 5000 anni fa in Cina fino ai giorni nostri, la specie coltivata ha perso molta della diversità genetica che esisteva in natura. Questo è un percorso che accomuna tutte le piante coltivate: la domesticazione e la selezione riducono la diversità genetica poiché l’uomo seleziona e coltiva solo pochi individui portatori dei caratteri che ritiene utili.

    Oggi ne siamo consapevoli e per ovviare alla perdita di diversità causata dalla pratica agricola (erosione genetica) abbiamo costituito le cosiddette banche di germoplasma dove si conservano tutte le diverse tipologie di piante, sia i selvatici che le varietà obsolete non più utilizzate in coltivazione, che potrebbero però rivelarsi utili in futuro perché portatrici di caratteri migliorativi (es resistenze a patogeni).

    Nel 2014 grazie al lavoro su “Nature Genetics” hai vinto il “Premio per la migliore ricerca pubblicata da personale CRA nell’anno 2013”. Che soddisfazione hai provato nel ricevere un così prestigioso riconoscimento al termine di tanto studio e sacrifici?

    Ricevere un premio, un riconoscimento fa sempre piacere. In questo caso è un premio che condivido con molte persone, in primo luogo con i colleghi del mio gruppo al CRA e poi con tutti i 52 coautori di diverse nazionalità che hanno collaborato a questa ricerca. La ricerca scientifica è un lavoro di squadra, di collaborazioni, spesso internazionali. Le sfide si vincono collaborando.

    Tra i tuoi successi insieme ai colleghi del CRA anche la scoperta sul perché la pesca noce è così liscia e priva della classica peluria che caratterizza le altre pesche. Qual è la causa e come siete arrivati a questa scoperta?

    La peluria vellutata che caratterizza le pesche è dovuta alla presenza di tricomi (ovvero i peli) sulla superficie del frutto. Abbiamo individuato un gene (PpeMYB25), tra i circa 27 mila della specie, coinvolto nella formazione dei tricomi. Per individuarlo abbiamo sfruttato i marcatori molecolari per restringere il segmento sul genoma che lo conteneva (di 635 mila lettere contro le 230 milioni dell’intero genoma).

    Questo gene risulta difettoso, non funzionale, nelle nettarine (o pesche noci come spesso vengono chiamate). In questo caso la perdita di funzionalità è dovuta a elementi che costituiscono una porzione importante del genoma di ogni essere vivente. Sono degli elementi un po’ “pazzerelli” che hanno l’abitudine di saltare, di spostarsi da una posizione all’altra sul genoma: vengono definiti come elementi trasponibili o trasposoni. Il 30% circa del genoma del pesco è costituito da questi elementi, mentre in specie come il mais e il grano si arriva anche all’80%. Uno di questi elementi mobili nel suo peregrinare si è inserito nel gene in questione “scassandolo” letteralmente e rendendolo inattivo e da questa variante inattiva vengono fuori le pesche senza peluria o nettarine.

    In natura le modifiche genetiche o mutazioni avvengono continuamente e sono un generatore di variabilità. Senza di esse non vi può essere evoluzione e miglioramento. In questo lavoro abbiamo anche identificato un marcatore diagnostico in grado di predire in anticipo, con un semplice esame di laboratorio su una piantina di poche settimane, se questa produrrà pesche vellutate o nettarine così come quando si va in laboratorio per sapere se si è positivi a un determinato virus o portatori di una malattia genetica. In questo modo possiamo risparmiare tempo e risorse nel processo di selezione scegliendo le piante che ci interessano prima ancora che il carattere sia visibile (il pesco impiega 2-3 anni per arrivare a produrre frutti, altre specie come il ciliegio e l’olivo anche 7-8).

    Da quanto abbiamo capito dalle tue risposte l’uomo da 10 mila anni modifica geneticamente le piante che coltiva per adattarle alle sue esigenze. Dall’altro canto i mezzi di informazione ci parlano spesso della “pericolosità” di queste modifiche per la salute umana e per l’ambiente. Qual è il tuo punto di vista su questo aspetto?

    L’uomo modifica le piante da circa 10 mila anni. La pesca che noi mangiamo è circa 64 volte più grande di quella selvatica. Pochi, credo, riconoscerebbero una pianta molto ramificata e con piccole spighette (il teosinte) come il progenitore del mais moderno. L’uomo ha impiegato circa 2000 anni per renderlo simile alla pianta come noi la conosciamo, modificando appena 5 geni. Lo stesso è avvenuto per il grano, che in natura assomiglia a quelle piante che troviamo ai bordi delle strade con piccole spighette e semi minuti che a maturità si staccano e disseminano trasportati dal vento o da altri agenti. Il nostro grano invece è caratterizzato da cariossidi giganti che a maturità non cadono per terra, un carattere quest’ultimo che rende queste piante inadatte a vivere in natura senza l’intervento dell’uomo.

    L’uomo ha modificato le piante, selezionando spesso caratteri svantaggiosi in natura (ad es. piante a taglia bassa) in contrasto con il processo di selezione naturale. Cionondimeno le piante coltivate, essendo in parte fuori dal meccanismo della selezione naturale, devono essere costantemente modificate dall’uomo per adattarle alle mutate condizioni ambientali (cambiamenti climatici, nuovi parassiti che arrivano o vecchi che si evolvono e superano le resistenze delle piante che prima risultavano immuni). In passato l’uomo interveniva in maniera empirica per modificarle in tempi molto lunghi. I processi di domesticazione in genere sono durati migliaia di anni.

    Oggi con le conoscenze e gli strumenti della genetica e della genomica possiamo intervenire e modificare le piante in tempi brevissimi e in maniera puntuale. Con l’aiuto dei marcatori molecolari (vedi il marcatore diagnostico per il carattere assenza di peluria nel pesco) possiamo selezionare anticipatamente le piante portatrici dei caratteri utili, oppure con l’ingegneria genetica possiamo inserire un solo gene mancante (ad es. una resistenza) in una pianta valida per le altre caratteristiche (ad es. per gli aspetti qualitativi e produttivi) senza alterare queste ultime.

    Purtroppo l’opinione pubblica, complici massicce campagne di disinformazione, ha paura di queste metodiche. Diecimila anni di successi e decenni di studi sui prodotti dell’ingegneria genetica dimostrano che queste paure sono infondate. Un concetto generale che dobbiamo fare nostro è che bisogna valutare ogni nuovo prodotto caso per caso e non la tecnica utilizzata per ottenerlo. Una nuova pianta va valutata per le sue caratteristiche innovative, per la salubrità e per il rispetto per l’ambiente senza pregiudizi sulla metodologia utilizzata per realizzarla.

    Rinunciare alla ricerca scientifica e alle innovazioni biotecnologiche in campo agricolo è una scelta che questo Paese non può permettersi. Quella che noi oggi chiamiamo tradizione in passato è stata un’innovazione di successo che si è affermata. Continuando con scelte politiche irresponsabili e sganciate dai fatti si impedirà a questo Paese di giocare un ruolo primario in un settore strategico minando la sua sicurezza alimentare.

    Nonostante abiti a Roma e sei impegnato con l’attività di ricerca trovi il tempo per tornare nella tua Gibellina?

    Sì torno spesso a Gibellina, almeno 4 volte all’anno, un paio di settimane in estate. Molte persone a cui sono legato vivono li, i miei genitori in primis.

    Cosa ti manca di più della Sicilia e se un giorno vorrai tornare a viverci.

    Mi manca la cultura millenaria che si respira in ogni suo angolo, i suoi paesaggi mozzafiato senza mezze misure, il caldo sole siciliano, il suo mare dai colori cangianti, i profumi che inebriano i sensi, il cibo, da quello semplice della tradizione contadina a quello più elaborato frutto di magnifiche ed eterogenee contaminazioni, che cerco ogni tanto di proporre ai miei amici.

    Tornarci a vivere non lo so, la mia vita, il mio lavoro sono altrove al momento. Sicuramente Gibellina e la Sicilia sono nel mio cuore di isolano. Quando qualcuno mi chiede la provenienza  rispondo sempre che lavoro e vivo a Roma ma sono originario della Sicilia (devo dire che si percepisce subito dal mio accento), Gibellina in particolare. A volte l’interlocutore conosce Gibellina e il suo patrimonio artistico e culturale in caso contrario sono io a declamarne le bellezze invitandolo a visitarla se dovesse capitare da quelle parti.

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    Effeviauto 6 gennaio 2025