"L'estremismo non si combatte con l'estremismo. No alle frontiere, si all'integrazione"
di: Valeria Ferrante - del 2016-03-26
(ph. http://www.blitzquotidiano.it)
Le parole utilizzate sui social per commentare i fatti di Bruxelles mi hanno lasciato attonita. “Faccio meglio a stare zitta”, mi dicevo, ed era la mia intenzione. Ho cambiato idea.
Le chiavi di lettura dei fenomeni devono essere molteplici, e se è vero che ogni opinione può essere liberamente espressa, se è vero che tutti possono contribuire ad un dibattito, io mi sento in dovere di intervenire. Senza la pretesa di fornire soluzioni o risposte, solo con l'umile intenzione di creare nuove domande.
Non mi soffermerò sui fatti accaduti in Belgio, esprimerò piuttosto alcuni punti di vista sul modo imperante di rappresentare l'altro da sé. L'esigenza nasce dall'osservazione delle opinioni estremiste e spesso islamofobe a cui è facile cedere in situazioni di tal fatta.
Tengo a precisare che non è, la presente, un'apologia delle stragi, né dei musulmani, né dei terroristi e delle loro azioni, su cui poco si conosce e molto si deve ancora conoscere.
Il livello del dibattito mediatico in corso sembra suggerire una sola domanda con una sola risposta: sono umani questi musulmani? La risposta è sempre la stessa: no.
Per le modalità in cui si rapportano con le donne, perché agiscono come mostri, perché hanno la cattiveria nel sangue, perché non saranno mai come noi, perché l'integrazione è un'utopia. E allora chiudiamo le frontiere, allontaniamo questo “altro da noi”, sono bestie, sono barbari, sono il cancro da estirpare.
O, al massimo, l'alberello da raddrizzare, la non-civiltà da ri-educare. Perché se non sono come noi devono diventarlo, perché noi siamo nel giusto e loro no. La paura del diverso è parte di noi umani fin dalla prima tragica puntata dell'incontro con un mondo altro, quella in cui abbiamo scoperto un modo diverso di essere umani e abbiamo cominciato a renderli uguali il più possibile a noi.
Noi sviluppati, noi progrediti, noi europei. La paura dell'altro ci ha guidati verso la cristianizzazione, la conquista dei territori, la cosiddetta opera di civilizzazione. Solo per imporci, per sentirci più forti, per la smania di potere.
Se poi il diverso viene rappresentatro in modo semplificato, se si getta discredito su ogni aspetto dell'altro da sé, se la cultura altra è designata come non-cultura, allora è tutto più facile.
Se sono tutti uguali è più semplice gettare fango sui loro idoli, sui loro costumi, perché sono omogenei nella loro follia e tutti da gettare nel fuoco come in una caccia alle streghe: nessuno si salva. Da qualche decennio a questa parte, ormai, la cultura viene definita “eterogenea”.
Anche l'identità è eterogenea, formata da più componenti, non statica ma dinamica e sempre in mutamento, molteplice, plurale. Ma le generalizzazioni ci coccolano e ci fanno sentire al sicuro, le soluzioni immediate rafforzano il semplicismo e la pochezza delle interpretazioni frettolose, su due piedi, subito pronte come il cibo dei take-away.
E l'altro, questo sconosciuto, dove finisce? Dov'è il nemico?
Il “nemico” è sullo sfondo, una sagoma sfocata di cui poco sappiamo e poco vogliamo sapere, una voce che non udiamo mai, il vicino di casa a cui non poniamo domande, il ragazzo per strada che ignoriamo, la donna con l'hijab che va bene per una foto scattata e poi basta.
Chi è l'altro? Cosa può darci? Come può arricchire la nostra identità, il nostro territorio, la nostra storia? Quale scambio di idee, di usanze, di cibi, può nascere dall'incontro tra culture?
Come possiamo saperne di più e cominciare a distinguere le diversità in ciò che è rappresentato come uguale, le complessità in ciò che viene pensato semplicisticamente?
Perché questa paura? Mescoliamoci, confondiamoci, raccogliamo più domande nella nostra mente e meno risposte. Il mondo è multiculturale da un bel pezzo, e noi stiamo ancora a discutere di frontiere? Oramai è tardi, oramai ci siamo mescolati, alla faccia dei modelli di integrazione falliti e della mancata comprensione tra le comunità.
Il cammino degli esseri umani è inarrestabile. Non esistono frontiere che tengano un essere umano lontano dalle possibilità di avere maggiori opportunità di una vita migliore.
Proveniamo da popoli di camminatori e siamo stati migranti per milioni di anni. Nessuno riuscirà ad arrestare questo movimento. Nè la politica, né il popolo, né la paura dell'altro. Il cambiamento epocale a cui stiamo assistendo è qualcosa per cui, probabilmente, non siamo ancora pronti né ben equipaggiati.
Ma sta comunque accadendo, è sotto i nostri occhi, e dovremo sviluppare gli strumenti adeguati per affrontarlo.
Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che l'estremismo non si combatte con l'estremismo, che la condanna di un'intera cultura non salverà né loro né noi, voglio dire che continuiamo a designare come nemico la persona sbagliata, e che ci limitiamo a rintracciare cause semplici per situazioni complesse.
“Integrare” (una parola che non mi piace poi così tanto) non vuol dire assimilare. Vuol dire conoscere, conoscersi, creare dei legami proficui, cominciare a vedere l'altro come portatore di storie, ascoltarlo e lasciarsi ascoltare. Solo così emergerà l'umanità comune di cui tutti siamo parte.
Perché il più grande e importante viaggio che un individuo possa fare è il viaggio nella vita di qualcun altro, il viaggio nelle storie altrui, nelle narrazioni con cui il diverso stesso si narra e si scopre uguale all'altro.
Non più oggetto del discorso, ma soggetto. Qualche settimana fa ho avuto l'onore di assistere ad una lezione di Luciano Carrino, psichiatra e vice Presidente del gruppo dell'OCSE/DAC nonché esperto, dal 1985 al 2010, dell'Unità Tecnica Centrale della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri.
Mi rimbomba in mente una sua frase: “Una società che include è nettamente superiore ad una società che esclude”. Lo dice la natura, lo dice la storia dell'uomo, e un paio di altri studiosi matti che osano ancora credere che sia possibile.
Valeria Ferrante