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Con Riina si chiude l'era stragista. Ascesa e caduta del boss che ha cambiato la storia della Sicilia

di: Vito Marino - del 2017-11-23

Immagine articolo: Con Riina si chiude l'era stragista. Ascesa e caduta del boss che ha cambiato la storia della Sicilia

(ph. lasicilia.it)

Il 17 novembre è morto, all’età di 87 anni, il capo di Cosa nostra: Totò Riina; l’evento è successo all’ospedale di Parma, dove era ricoverato da giorni dopo aver subito due interventi chirurgici. Capo assoluto della mafia più sanguinaria,

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  • Totò Riina nacque a Corleone 16 novembre 1930; a 19 anni, per l’omicidio di un suo coetaneo, ucciso durante una rissa fu condannato a 12 anni di reclusione, ma fu scarcerato prima, nel 1956. Tornato a Corleone si inserì nella banda di Luciano Liggio, luogotenente del capomafia corleonese Michele Navarra.

    Era un periodo molto florido per la mafia; tra il 1955 e il 1958 si verificarono numerosissimi delitti. A Palermo nel solo periodo 1° gennaio - fine luglio 1956 era stato consumato un omicidio ogni quattro giorni. La mafia dirigeva il traffico della droga, il contrabbando delle sigarette, lo sfruttamento della prostituzione, delitti su commissione, appalti regionali e comunali, licenze di esercizio, speculazioni sulle aree fabbricabili, abusi nelle attività commerciali legate ai mercati ortofrutticoli e della pesca. 

    Nel dicembre del 1963 venne arrestato di nuovo; ma, dopo aver scontato alcuni anni di prigione, nel 1969 fu assolto nei processi di Catanzaro e Bari.  Nello stesso anno, con la strage di viale Lazio, nella quale furono uccisi Michele Cavataio, capomafia candidato al vertice di Cosa nostra e tre suoi collaboratori, Riina ebbe la via libera, senza concorrenti, per infiltrarsi nei grandi appalti miliardari di opere pubbliche e nei grossi traffici internazionali di droga.

    Negli anni ’70 Riina, con i suoi collaboratori Liggio, Provenzano e Bagarella, insieme all’allora sindaco di Palermo, Vito Ciancimino consolidarono il loro ruolo di supremazia all’interno di Cosa nostra, attraverso una serie di delitti, riuscendo anche a portare dalla propria parte altri boss palermitani che via via voltavano le spalle alla vecchia mafia “perdente” per aderire a quella “vincente” dei corleonesi. Siamo ormai negli anni Ottanta, quelli della seconda guerra di mafia. Nel 1982 a Palermo ci sono più di 200 morti ammazzati.

    Nel biennio 1992-’93, oltre a diventare il capo assoluto di Cosa nostra, Riina è al centro di un’altra pagina oscura della storia d’Italia: quella relativa alla cosiddetta “trattativa” tra Stato e mafia. Un vero e proprio accordo tra alcune frange istituzionali e il crimine organizzato, per porre fine alla “strategia stragista”. Riina, in particolare avrebbe posto, tramite l’intercessione di Vito Ciancimino, alcune condizioni allo Stato, tra le quali la revisione della sentenza del Maxiprocesso, l’alleggerimento del 41bis, e la revisione delle norme in tema di pentiti e sequestro dei beni ai mafiosi. Pertanto, Riina sferra una guerra aperta contro le istituzioni, nella quale caddero vittime, uomini di stato per ordine o direttamente per mano del “capo dei capi”. 

    A cadere sotto i colpi della mafia furono il procuratore Pietro Scaglione, il giornalista Mario Francese, il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella fratello dell'attuale presidente della Repubblica, l’imprenditore Libero Grassi, il deputato comunista Pio La Torre, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il capitano Emanuele Basile, il dirigente di Polizia Beppe Montana, il commissario Ninni Cassarà, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, Salvo Lima, Vito Ciancimino sindaco di Palermo. Inoltre, avvenne la scomparsa del giornalista Mauro de Mauro, e tanti altri, fino ad arrivare alle stragi che uccisero il giudice Rocco Chinnici, e i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

    Ma negli anni Ottanta parte anche l’offensiva della magistratura contro la mafia. È la stagione del maxiprocesso e dei pentiti come Tommaso Buscetta ed altri, che raccontano i legami fra politica e mafia. Riina si vendicò sterminando le famiglie dei collaboratori di giustizia, compresi donne e bambini. 

    La sua lunga latitanza, durò 24 anni, fino alla mattina del 15 gennaio 1993, quando fu arrestato  e da allora visse detenuto in regime di 41-bis. Dal giorno del suo arresto, Totò Riina fu sottoposto a numerosi processi, con condanne all’ergastolo. Nell’ottobre del 1993 viene condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio del boss Vincenzo Puccio. L’anno dopo riceve un altro ergastolo per l’omicidio di tre pentiti. Quindi ancora  per le stragi di Capaci, e via D’Amelio; poi per gli omicidi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del capo della Mobile Boris Giuliano, e del professor Paolo Giaccone. Nel 2000 subisce un’ulteriore condanna all’ergastolo per gli attentati di Firenze, Milano e Roma. Altri ergastoli, Riina li ha ricevuti per omicidi su commissione avvenuti tra il 1983 e il 1992.

    Con la morte di Totò Riina, capo indiscusso della mafia siciliana si chiude per sempre un pezzo di storia italiana, l’epoca dei “corleonesi”, il clan originario di Corleone. Riina porta con sé i segreti della trattativa stato - mafia.

    Ma il fenomeno mafioso affonda le sue radici in un lontano passato, quando secoli di malgoverno straniero, portarono i Siciliani a farsi leggi proprie e a darsi propri capi, che a poco a poco divennero tanto potenti, da regolare la vita pubblica e privata dei cittadini. Ma il grande sviluppo l’ebbe nell’Ottocento, dopo l’unità d’Italia. 

    La mafia rappresentava la legge riconosciuta dalla maggior parte delle persone, una legge governata con senso dell’onore; una giustizia arcaica retta da un “Don” che, senza i vincoli imposti dalle leggi, è più celere e più vicina al cittadino, con cui ha contatti anche involontari, più diretti. Lo Stato, sempre più assente nel tutelare il cittadino interveniva contro il popolo, per tutelare i propri interessi e per quelli dei ricchi possidenti. Per tali motivi il popolo siciliano ha sempre considerato come nemico lo Stato e un gran disonore avere contatti con la giustizia.

    La parola mafia venne usata per la prima volta in un rapporto del prefetto Gualtiero di Palermo del 1865; ma già nel 1658 era stata rinvenuta in altri documenti.  Nel 1800 e nella prima metà del 1900 esisteva un altro genere di mafia, che governava il mondo delle campagne: “il campiere”.   I proprietari terrieri e i grossi gabellotti solevano assoldare questi malandrini per intimidire i contadini e farsi pagare le rendite o per costringerli ad accettare lavori poco convenienti. 

    Stato, forze dell’ordine e magistratura, frenati dalla burocrazia o incapaci o volutamente inefficienti, nel passato nulla hanno fatto per fermare l’illecito. Anzi, proprio lo Stato ha usato questo sistema per tenere sotto controllo determinati movimenti politici o per ricevere informazioni riguardanti la stessa criminalità.  In questo quadro desolante della legalità, i mafiosi, specialmente dopo il 1860, erano diventati numerosissimi, provenienti da tutte le classi sociali, per come risulta da un rapporto della prefettura del 1874. 

    Coloro che studiavano la questione della mafia a quei tempi: Giuseppe Alongi, Sonnino, King, Napoleone Colajanni, Mercadante, Bruccoleri, concordano nel ritenere questa illegalità come il problema più grave della Sicilia. Essi affermano che gli uomini politici e il governo, solo perché avevano bisogno dell’appoggio locale, scelsero deliberatamente di lasciare ai criminali un’ampia libertà d’azione.  Terminata la seconda Guerra Mondiale, l’avanzata del comunismo si faceva sempre più pressante e il pericolo sempre più vicino per i ricchi possidenti e per la Chiesa.

    Gli stessi alleati, che ancora occupavano il territorio, per la paura del comunismo, sfruttarono l’influenza che la mafia aveva verso la popolazione, per nominare in maniera non ufficiale un capo mafia in ogni paese, con il compito di non fare emergere il Partito Comunista. Questo sistema di controllo politico extragiudiziario anomalo, ma efficiente, piacque ai politici dei partiti di governo, che per più di mezzo secolo si rivolgevano ai mafiosi per essere eletti nelle alte sfere parlamentari. In cambio la mafia acquistava sempre più potere e libertà d’azione.

    Quando i partiti politici posizionarono bene le loro radici al Parlamento, diventando inamovibili per una serie di leggi create da loro stessi, non ebbero più bisogno della mafia per la loro eleggibilità; fu allora che incominciarono a lottare la mafia. Da quel momento Riina e tutti i mafiosi della cupola, che giravano indisturbati per Palermo, vennero uno dopo l’altro arrestati e condannati.  

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