"La Sicilia me la porterei in valigia". Quando la lontananza dalla Sicilia ispira una poesia d'amore
del 2017-08-23
(ph. Foto Tancredi Bongiorno )
Nei giorni scorsi ho avuto la possibilità di conoscere Giuseppe (Pino) Lazzara, un oriundo castelvetranese che da molti anni vive a Ladispoli, vicino a Civitavecchia dove risiedo oramai da tre anni. Mi ha colpito il suo profondo attaccamento alla nostra terra natia, unico argomento del nostro conversare. Mi ha emozionato una sua poesia dedicata alla nostra tanto amata Sicilia, patria abbandonata, ma mai dimenticata.
La commozione era palese in questo genuino e patriottico poeta insulare, che mi ha emozionato leggendo le parole della sua poesia. Un siciliano non vorrebbe mai lasciare la sua terra e quando è costretto a farlo per i motivi più diversi, soffre, in silenzio, ma soffre. Questo può capirlo solo chi ha dovuto trasferirsi fuori dalla terra più bella del mondo.
È per questo che ho chiesto al mio editore di pubblicare la poesia “Alla Sicilia”, affinché tutti capiscano l’afflizione di chi non vive più al suo paese. Questo il testo:
ALLA SICILIA
La mia terra, se avessi potuto l’avrei messa in una valigia
e l’avrei portata con me nel viaggio della mia vita.
Una valigia di cartone legata con lo spago delle tradizioni
e con nodi di resistenza marinara.
Avrei portato con me le Cattedrali gotiche, bizantine, eleganti e solenni
nelle quali, purtroppo, Cristo non è mai entrato;
i templi greci, maestosi dinosauri di pietra,
i palazzi nobili, romantici, malinconici,
decadenti dimore remote di dei e nobiltà;
le case dei comuni cristiani, piccole, fragili,
ma piene di vita tirate su con tufo e sudore
dipinte di sole e con il mare che entra nei cortili;
le barche dei pescatori, i carretti dei contadini decorati ad arte
con tinte vivaci per nascondere le macchie della sofferenza.
Avrei portato con me la sua gente chiassosa, generosa,
laboriosa, misteriosa,……meravigliosa
un popolo stanco della mafia che ha fame di lavoro e sete di giustizia;
i bambini scalzi che giocano a rincorrersi
ed a nascondersi nell’aria e nel sole, fra gli ulivi ed i carrubi;
i vecchi dai volti senza tempo/e con le mani che raccontano una vita di duro lavoro
su una terra arsa e screpolata dal sole e dal vento.
Nelle vigne, nelle saline, nelle tonnare
o su un mare immenso, vecchio di millenni,
ma ogni giorno generoso ed amico;
le donne, che ricordo sempre vestite di nero con le braccia alla terra e gli occhi al cielo
a ripensare gli affetti lontani o scomparsi nel silenzio.
Avrei portato con me la sua anima,
il sapore sacro del suo pane,
il profumo delle zagare e dei gelsomini,
i campi ricamati di mandorli in fiore,
le montagne di sale, i fiumi di olio e di vino,
gli alberi di arance e limoni, spontanei alberi di Natale,
l’abbraccio sincero delle palme,
il silenzioso inno alla pace degli ulivi,
l’incantesimo del suo mare,
l’eco infinita della sua storia.
E quella valigia l’avrei aperta in questa notte, lunga, senza luna e senza amore
per sentire di nuovo sul mio viso la carezza del faro,
per ricordarmi che nelle mie vene
scorre un sangue rosso e caldo come la sciara del vulcano
per addormentarmi cullato dal mare nella penombra della lampara
e in un bel sogno risvegliarmi laggiù/come l’ibisco in un assolato e silenzioso mattino del Sud.
Se le strade della vita ci hanno divisi prima di conoscerci
le rotte del mare ed un legame antico ci hanno fatti ritrovare.
Sicilia mia anch’io come il vulcano
figlio tuo, dal cuore inquieto, solitario, silenzioso e mai domo.
Giuseppe Salvatore Lazzara