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Come nasceva un "baglio" in passato tra concessioni, espansione urbana e feudatari

di: Vito Marino - del 2018-03-17

Immagine articolo: Come nasceva un "baglio" in passato tra concessioni, espansione urbana e feudatari

L'etimologia della parola baglio appare incerta, tuttavia si sa che nel tardo latino il cortile circondato da alti edifici o muri si chiamava “ballium”; ma può derivare dall’arabo bahah (cortile). In Francia divenne “baille”, con il significato più appropriato di "luogo chiuso ma scoperto con specialità  difensive”,  trasformatosi poi nel siciliano “bagghiu”, italianizzato in baglio.

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  • In Sicilia, con il latifondo, i ricchi proprietari terrieri lasciavano spesso incolti molti terreni situati in zone lontane dal centro abitato, prive di comunicazioni; zone, che diventavano deserte e squallide. La Spagna, che dominava in Sicilia, necessitando di grandi quantità di cereali, concedeva al feudatario una "licenza di ripopolamento" ovvero la "Licentia populandi", tramite la quale i nobili siciliani, tra il 1500 e il 1800 fondarono nelle loro proprietà incolte e disabitate i bagli, che in seguito diventarono dei veri e propri villaggi.

    Il feudatario, in previsione di futuri guadagni, anche perché il prezzo del grano si manteneva buono, chiedeva la concessione di questa licenza dietro pagamento allo Stato di una somma di denaro che poteva arrivare a 2000 scudi. Ottenuto il permesso doveva affrontare l’opera grandiosa della costruzione di un nuovo centro abitabile, appunto il baglio, che doveva essere abitato, attirando i contadini di altre zone. Attorno al baglio sorgevano altre abitazioni e spesso si formava un nuovo comune.

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  • Il feudatario sul nuovo agglomerato urbano e sui suoi abitanti acquisiva la giurisdizione e il diritto ad occupare un posto nel parlamento siciliano. Per incentivare il popolamento di questo nuovo insediamento, i nuovi abitanti godevano dell’esenzione di tasse per un certo periodo di tempo e l’amnistia per i reati commessi nel passato.

    Virgilio Titone ci riferisce che: "nel 1500 si rilasciarono 24 licenze (dal 1549 al 1556) e 11 dal 1571. Ma dalla fine del 1400 al 1583, nonostante le numerose licenze concesse sorsero in tutto, solo 16 comuni".

    Il Comune di Campobello nacque nel feudo della Guardiola nel XVII secolo, attiguo al castello feudale del duca Giuseppe Di Napoli, che, a seguito della “Licentia populandi novam civitatem” aveva ottenuto da re Filippo IV anche il “mero e misto imperio” sugli abitanti.  

    Quindi il baglio divenne una fattoria formata da un agglomerato di fabbricati a forma rettangolare, con una grande corte al centro. Tutte le aperture erano rivolte verso l’interno del cortile, al quale si accedeva da un unico grande e robusto portone spesso inserito in un portale ad arco a sesto pieno ribassato, fornito di rosone in ferro battuto; a volte il portone era sormontato da un balcone.

    Esso era progettato e realizzato come centro direttivo del latifondo ed ubicato in luogo rialzato da dove era facile controllare il territorio; per la difesa contro briganti e pirati era fortificato con mura esterne alte e molto robuste (da metri 0,50 a 1,50), con poche e alte finestre munite di massicce grate di ferro e con un fabbricato più alto a forma di torre d’avvistamento. Le parti angolari dei muri, gli architravi e gli stipiti erano in pietra squadrata di tufo, per ingentilire, ma anche per rendere più stabili i muri. I tetti erano generalmente realizzati con travi in legno a forma di   capriate  listelli di legno e tegole.

    Il baglio era provvisto di tutto il necessario per potervi abitare tante persone. Infatti, nella zona abitativa esisteva l’abitazione occasionale del proprietario, quella dei campieri, degli annalori e quella dei contadini; c’era la cucina a legna, il forno per il pane, il pozzo con la ciddara e lu caddu (carrucola e secchio), e il “pilacciuni” (lavatoio di pietra). Nella zona operativa c’era “lu trappitu”, il frantoio delle olive con le grosse ruote di pietra ruotanti sulla “scudedda”, “lu parmentu” (per schiacciare l’uva con i piedi), e la “viti” (la pressa); inoltre, c’era il mulino per macinare il grano con la “petra suttana e la petra suprana”.

    Immancabili erano i magazzini per la conservazione dei prodotti agricoli (giare e cannizzi per il frumento e altri cereali e legumi, giare per l’olio), fienili per la paglia, le cantine per il vino le stalle per il bestiame da soma e per quello allevato, il magazzino per gli attrezzi agricoli, il porcile, l’ovile, il pollaio, il fienile, la legnaia per la legna da ardere.

    Per far dormire i contadini durante i lavori stagionali, dentro un magazzino con pavimento in terra battuta si metteva della paglia per terra con qualche pelle di capra. La parte signorile o padronale era posta al piano superiore, una volta considerato il piano nobile,  a cui si accedeva da una scala in pietra ed era divisa dalla parte rurale da un muro interno con una porta per comunicare.

    I carretti e le carrozze si incominciarono ad usare nel 1800, quando si costruirono le prime strade carrabili; sorsero allora  “li carrittarii” per custodire i carri. Fino a quella data tutti i trasporti si effettuavano a dorso di muli o con la “straula” (treggia, un carro senza ruote a strascico).

    La corte e i magazzini più importanti erano lastricati con "balatuna" (lastre di pietra, basole), o con ciottoli di fiume tondeggianti. Per non fare abbrutire queste persone, che spesso vi abitavano tutto l’anno, era sempre presente una chiesa rurale o una piccola cappella, per le preghiere e le messe domenicali.

    “Lu mastru di bagghiu” era il responsabile e il sovrintendente di questa azienda; in merito un proverbio diceva: “Lu Signuri ‘un è mastru di bagghiu chi paa lu sabatu!”.

    Oggi molte di queste strutture sono state recuperate architettonicamente e trasformate in dimore alberghiere, ristoranti o raffinati agriturismi. Dormire qui significa fare un tuffo nella storia. E se anche non ci si ferma a dormire vale la pena visitare queste strutture, che si trovano sempre in ambienti naturali splendidi. A Castelvetrano, ma anche nella zona di Trapani e Marsala di bagli storici ce ne sono parecchi.

    Agli inizi del 1900 a causa delle mutate condizioni nei trasporti e nei regimi fiscali, oltre al cambiamento delle colture, la scomparsa dei latifondi e il frazionamento dei terreni agricoli, i bagli a poco a poco vengono abbandonati con lo spopolamento delle campagne. I bagli abbandonati a se stessi con mura diroccate fra vegetazione impenetrabile  hanno dato luogo a leggende popolari con una ricchissima letteratura sulla “attruvatura”, famosissima quella sul baglio di Messenneria, secondo la quale i Saporito vi trovarono un tesoro nascosto, che permise loro di arricchirsi.

    Dopo l’unità d’Italia, a causa dei dazi che si pagavano per le merci che entravano e uscivano dalla città, il baglio assunse una maggiore importanza, poiché, per non pagare il dazio, qui si svolgeva tutta l’attività contadina di trasformazione e conservazione e dei prodotti della campagna e dell’allevamento. Per lo stesso motivo, col tempo intorno al baglio si andarono a costruire altre case, formando così veri e propri borghi.

    A Castelvetrano sono molto noti, perché restaurati, i bagli: Calcara, “Trinità” della famiglia Saporito, quello dei Paola  e quello di Santa Tresa (Teresa) che, dopo il restauro, sono stati trasformati in ristoranti o agriturismo; importanti i due Bagli dei Florio che fanno parte del Parco archeologico Selinunte – Cave di Cusa. Altri bagli abbandonati a sé stessi ma ancora visitabili sono: “Barone, Bigini, Tortorici, Seggio, Gugliotta (torre Mendolia).

    LA “MASSARIA” era un piccolo baglio, destinato principalmente all’allevamento del bestiame. Poteva appartenere ad un grosso proprietario terriero o al “massariotu o massaru” (un piccolo allevatore). C’erano le stalle o le tettoie per gli animali e il necessario per la produzione dei formaggi.

     

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