Femminicidi in Italia. Le statistiche preoccupano e i casi continuano ad aumentare. Parla il criminologo Dott. Marino
di: Dott. Francesco Marino criminologo - del 2019-04-07
Esaminando il rapporto ISTAT sul femminicidio si scopre che nel 2017 sono stati commessi in Italia 357 omicidi. Di questi, 234 hanno interessato vittime di sesso maschile mentre 123 hanno interessato donne. Un dato su tutti colpisce l’osservatore: gli omicidi commessi dalla criminalità organizzata sono stati il 12,6% mentre, secondo il rapporto Eures, i femminicidi nel 2017 sono stati il 37,6% del totale degli omicidi commessi nel nostro Paese.
Pare un bollettino di guerra se si ricorda che negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1.740, di cui 1.251 hanno interessato lo scenario familiare.
Appaiono in aumento i moventi legati a fattori economici e, tra questi, principalmente le liti per l’assegnazione della casa coniugale ancor più dell’affidamento e della gestione dei figli. Poi, la nuova povertà generata dalla separazione e la lunghezza dei processi sono altre congetturi che partecipano a determinare le stragi familiari.
Nella maggioranza dei casi le coppie in crisi vengono abbandonate al loro destino dalle Istituzioni, in un momento che per molti rappresenta un “lutto” di difficile adattamento ed elaborazione, una vera e propria capsula detonante psicologica alla base di mutamenti perfidi e distruttive, che spesso non risparmiano neppure l’aggressore.
Tanti italiani considerano la separazione una disagio o un oltraggio, una sorta di ferita narcisistica inguaribile che, in un numero di casi assolutamente considerevole, deve essere lavata con il sangue di chi ha osato porre fine a una storia sbagliata.
Ma si può uccidere per amore? In tutta sincerità non lo crediamo. O meglio, si può arrivare a uccidere per amore, sì, ma per amore di se stessi. Un perfido, deleterio, errato amore per se stessi che trasforma le frustrazione in un’onta terribile da lavare con la vendetta e la violenza. Un amore che limita l’altro a un mero “oggetto” da esibire, al pari di un orologio di marca, per dimostrare a noi stessi, e agli altri, che “siamo qualcuno”. Questo tipo di “amore”, fragile e assolutamente autoreferenziale, è in grado di uccidere.
Proviamo ora a redigere un sintetico profilo degli attori del femminicidio. Nella maggior parte dei casi l’assassino convive ancora con la vittima all’epoca dell’omicidio, ha un trascorso di violenze all’interno della coppia, tende a incrementare una forte dipendenza emotiva nei confronti della partner e confonde tale vissuto con una forma d’amore “assoluto” verso quest’ultima. Per questi soggetti l’aumento dell’autostima dipende molto dal graduale annientamento dell’autostima della loro vittima-partner.
Gli studi di settore collocano, invece, la donna all’interno della coppia in una posizione subalterna, che viene lucidamente rinforzata dalle continue violenze, verbali, fisiche, sessuali e morali, da parte del partner. È proprio la messa in discussione di tale asimmetria nel rapporto da parte della vittima a scatenare in molti casi l’escalation che porterà, magari dopo un intervallo significativo, al delitto.
Provare a studiare la dinamica che ha accompagnato una persona a uccidere il proprio partner pone delle difficoltà di base faticosamente oltrepassabili, soprattutto per l’abituale tipo di legame che intercorre tra vittima e carnefice, persone che “avrebbero” dovuto amarsi ma tra le quali, sciaguratamente, qualcosa non ha funzionato. E questo “qualcosa” ha generato un grande disordine all’interno della relazione, trasformando l’amore in odio verso se stessi prima e verso l’altro poi.
Spesso sotto l’etichetta di “delitto passionale” si celano i peggiori demoni e, tra questi, una sorta di affettività “malata” e possessiva che altera la rilevanza e la concezione dell’altro agli occhi dell’omicida, limitando il legame a una simbiosi svigorita e inattuabile. Inoltre, un miscuglio letale di fragilità, frustrazione crescente, immaturità e dipendenza è alla base di questi omicidi, perché non esiste amore che affermi il proprio diritto a esistere attraverso la brutalità, la bugia, l’umiliazione e l’oppressione.
A compiere questo genere di crimini sono quasi sempre soggetti che rientrano nella rete di relazioni della vittima. Spesso, questo genere di uomini, si comporta in maniera violenta nei confronti della compagna come valvola di sfogo per tutta una serie di possibili eventi stressanti che lui vive nella sua vita all’esterno della coppia. In sostanza sembra trattarsi, quasi sempre, di uomini che hanno testualmente perso il controllo sugli aspetti della loro vita esterna alla coppia.
Per questi uomini il controllo della propria compagna raffigura spesso l’ultimo baluardo nella loro meschina esistenza per conservare un frammento di autostima. È per questo che l’abbandono da parte di quest’ultima, concreto o minacciato che sia, viene valutato inaccettabile per questi soggetti, ai quali non resta nulla a parte lo spietato controllo nei confronti della loro vittima prescelta. Non riescono a rinunciare al proprio ruolo di dominatori incontrastati della vita dell’altra, spesso denigrata proprio per la passività che essi stessi hanno concepito in anni di continue umiliazioni, vessazioni e percosse. E allora uccidono.