Dai Pentagramma ai “Musicanova” e la fine dei complessi con la “Synthesizer intelligente”
del 2014-11-16
Dopo avere raccontato la storia dei complessi castelvetranesi nell’era pre-Beatles e nell’era Beatles, non ci rimane che avviarci verso la fine di questo lungo, ma credo interessante e coinvolgente, viaggio raccontando quella nell’era post-Beatles.
ANNO 1985
Quello fu l’anno in cui nacque la mia dolce Desirée. A questa mia seconda figlia ho dedicato il mio primo lavoro discografico, “Desirée”, un’audiocassetta contenente dodici famosi brani musicali, da me eseguiti al pianoforte, più due mie composizioni inedite, “Volando” e “Desirée”.
Mio compare Pino Adorno, due anni prima, aveva ottenuto il trasferimento da Paola a Castelvetrano. Appena rientrato accettò di fare parte de “I Supersonici” di Partanna con i quali rimase a suonare per circa un anno. Dopo di che ritornò a suonare ancora una volta con l’“Orchestra 2000” dalla quale io ero da poco uscito definitivamente.
Per Pino la passione per la musica è stata coltivata da sempre con grande serietà e professionalità. Egli non è mai mancato a un impegno, in qualsiasi condizione di salute o familiare. Non mancò neanche quando andò a suonare con una febbre da cavallo addosso buscandosi, di conseguenza, una bella polmonite che lo costrinse a letto per circa un mese.
A una serata di carnevale di quell’anno, svoltasi presso il Cine Teatro “Palme” di Castelvetrano, furono offerti agli orchestrali, da parte d’alcuni amici ed estimatori, dei dolci di ricotta cassateddi che provocarono a Pino dei forti dolori addominali. A un certo punto della serata si sentì così male che dovette ricorrere alle cure dei medici del pronto soccorso dell’Ospedale “Vittorio Emanuele II°” di Castelvetrano. Questi gli praticarono un’iniezione di “Biochetasi” e Pino, invece d’andarsene a casa e mettersi a letto, ritornò in sala dove portò a termine la serata tranquillamente.
Nello stesso anno Ignazio Graziano, tornando dal nord dove aveva maturato una bella esperienza, pensò di riprendere quel discorso musicale che aveva abbandonato anni prima. Durante il servizio di leva, mentre si trovava ricoverato presso l’“Ospedale Militare” di Palermo per piccoli problemi di salute, aveva conosciuto Roberto Zinnanti di Partanna, suonatore di batteria. Ignazio gli aveva proposto, una volta congedati, di formare un gruppo musicale. Roberto accettò e da lì a poco il progetto fu realizzato.
Al complesso diedero il nome di “Pentagramma”, poiché la formazione era composta da cinque elementi: Roberto alla batteria, Ignazio alla chitarra, Sandro Ferraro al sax, clarinetto e piffero, Rosalinda Signorello alla tastiera e Michele Milazzo cantante solista, tutti di Castelvetrano (tranne Zinnanti, naturalmente). Dopo poco tempo questa prima formazione fu rimaneggiata. Ne nacque una nuova che durò fino al 1993.
Quest’ultima fu formata da: Ignazio e Sandro della prima formazione, Vincenzo Russo alle tastiere, Antonio Bologna al basso, Vito Ingrasciotta alla batteria e Franco Triolo, polistrumentista, che s’inseriva dove ce n’era bisogno. A essi, quando era richiesto, si univa anche il cantante Piero Spadaro.
Un fatto che mi dispiace raccontare in quanto non ci onora, ma che ritengo sia giusto far sapere fu quando, dopo qualche anno d’aver accomodato con gli strumenti che possedevano, decisero di rinnovare l’intera strumentazione. Furono costretti a firmare un bel po’ di cambiali per acquistare quanto di necessario. Il destino volle che, dopo pochi giorni dall’acquisto e alla vigilia d’un impegno di matrimonio, durante la notte ignoti indisturbati forzarono la porta d’ingresso dello studio dove provavano, ubicato in periferia, e rubarono quasi tutto quello che trovarono.
Ancora oggi i non più ragazzi quando ripensano a quell’episodio si rattristano. Essi, a parte il danno ricevuto, non sono riusciti ad accettare la meschinità con la quale, magari altri ragazzi della stessa età, si erano approfittati della loro passione per la musica per metterli in condizione di non potere effettuare nemmeno il loro impegno di matrimonio.
Per fortuna non tutte le persone sono cattive. Alcuni colleghi d’altri gruppi locali, per dimostrare la loro solidarietà, misero a disposizione dei “Pentagramma” i loro strumenti musicali in modo che essi potessero onorare l’impegno preso. Dopo quell’esperienza così triste che li fece crescere e maturare individualmente, ricomprarono in parte la strumentazione e, se non ricordo male, fui proprio io a vendere un impianto marca “Montarbo” ai ragazzi accettando degli affetti cambiari a garanzia. La provvidenza del buon Dio ha, poi, permesso che essi onorassero quei nuovi impegni economici presi.
Durante il matrimonio in seconde nozze del papà del batterista Vito Ingrasciotta, mentre Enzo Russo si era abbassato per sistemate i fili della tastiera, Vito aveva finito di montare i piatti della batteria di cui proprio il più grande, il ride, posizionato proprio sul povero Enzo. Al momento d’alzarsi, questi, non poté evitare d’andare a sbattere la testa al bordo del piatto di rame procurandosi un evidente taglio.
Dopo un’improvvisata medicazione Enzo, arrabbiatissimo, voleva smontare tutto e andare via. Il povero Vito che teneva, giustamente, in modo particolare a quel matrimonio, resosi conto che la colpa era soltanto sua, per non essere stato sufficientemente attento, dovette sudare le classiche sette camicie per convincere Vincenzo a tenersi il dolore e, magari, sfogare la sua rabbia direttamente su di lui, ma dopo il matrimonio.
Durante una festa in piazza a Menfi, toccò ai “Pentagramma” accompagnare alcuni ragazzi d’una scuola di ballo del luogo che dovevano esibirsi sul palco in alcuni balli di musica, cosiddetta, liscio. Alessandro, mentre stava suonando un valzer con il suo clarinetto, qualcuno del comitato fece rilevare che lo strumento si sentiva poco e non risaltava sugli altri. A quel punto Ciccio trasparente, che aveva avuto impegnato il service, invece d’alzare il volume del microfono, s’avvicinò ad Alessandro e gli tirò di bocca il clarinetto per avvicinarlo al microfono. In pratica dovettero fermarsi tutti di suonare poiché, senza l’ausilio del clarinetto, non aveva alcun senso continuare a suonare.
I ragazzi non riuscirono mai a capire il comportamento di trasparente in quell’occasione. Io, però, che conosco molto bene Ciccio, credo di potere dare, dopo trent’anni da quel fatto, una spiegazione a quel suo apparentemente incomprensibile gesto. Sicuramente Alessandro suonava tenendosi distante dal microfono.
Se Ciccio avesse alzato il volume avrebbe provocato, quasi certamente, un effetto Larsen, detto anche feedback acustico, il ritorno, quel micidiale fischio che s’innesca quando i suoni emessi da un altoparlante sono captati da un microfono e da questo rimandati allo stesso altoparlante. Con quel gesto Ciccio voleva dire, a modo suo, che il problema non era lui e il suo impianto, ma il clarinettista che suonava troppo distante dal microfono.
ANNO 1986
In quell’anno sono stato contattato dal proprietario del “Cotton Club” di Marsala che m’impegnò per alcune serate di pianobar nel suo locale. Durante una di queste, dovendo andare in bagno per una piccola necessità fisiologica, feci una piccola pausa (whisky time - il tempo del whisky - la pausa) e, raggiunsi il Water Closet che si trovava a un piano inferiore. Quando ebbi terminato e mi accinsi ad aprire la porta del bagno per ritornare al mio posto di lavoro, la trovai bloccata.
Dopo alcuni tentativi per cercare d’aprirla senza causare danni, impazientitomi cominciai a sferrare dei colpi alla porta che, comunque, non volle saperne d’aprirsi. Non potevo chiamare, fra l’altro, nessuno poiché, quando io non suonavo, il proprietario del locale accendeva lo stereo il cui volume copriva, di fatto, le mie richieste d’aiuto.
Dopo avere tentato invano di sforzare in qualche modo la serratura, qualcuno dall’altra parte, sceso per il mio stesso bisogno e sentendo strani rumori provenire dall’interno del bagno, chiese: “Chi c’è là?”. Spiegai la situazione in cui, mio malgrado, ero venuto a trovarmi e la stessa voce mi disse d’attendere che avrebbe provveduto a informare il proprietario. Sentii scendere, subito dopo, alcune persone. Fra esse il proprietario del locale il quale dapprima provò ad aprire la porta facendo gli stessi tentativi che avevo già, invano, fatto io, poi, andò a procurarsi un grimaldello per provare a forzare la serratura. Non so per quale destino avverso qualsiasi tentativo si rivelò vano.
Dopo più di mezz’ora di espedienti ci siamo dovuti arrendere all’evidenza che la porta non s’apriva. Fra l’altro, essendo di domenica sera, non era facile trovare un falegname che con strumenti e tecniche più appropriate avesse potuto risolvere il problema facendomi uscire, nel senso letterale della parola, da quell’incresciosa situazione. Per farla breve, dopo che tutti i clienti a turno si erano messi a disposizione per trovare una soluzione al problema, l’unica che, seppur tragica sotto certi aspetti e comica sotto altri, fu seriamente presa in considerazione, fu quella d’un maresciallo dei carabinieri, occasionale cliente del Club.
Questi propose si usare la sua pistola d’ordinanza, che aveva con sé, e chiese il permesso al proprietario di poterla utilizzare. In pratica egli avrebbe sparato alla serratura che, sicuramente, sarebbe saltata permettendo l’apertura della porta. Mi fu chiesto se all’interno del bagno c’era un riparo dove nascondermi per ripararmi nell’eventualità che la pallottola o pezzi di serratura potessero raggiungermi provocandomi chissà quali danni fisici. Io, imbarazzatissimo per una situazione che oramai era fuori controllo e benché poco convinto, risposi che c’era un mezzo pilastro sporgente dalla direzione del muro che avrebbe potuto proteggermi.
Rimaneva, comunque, il rischio dell’imprevedibile e dell’imponderabile, ma a quel punto nessuno sapeva più cosa fare e io, pur di uscire da quella trappola che incredibilmente stava per diventare quasi mortale, accettai il rischio. Ammesso che la cosa potesse rassicurarmi mi comunicarono che, a ogni buon conto, c’era anche un medico fra i clienti. Mi sistemai dietro quel mezzo pilastro ritirando la pancia, fino a non respirare, per farmi il più sottile possibile e dissi: “Sono pronto!”. Non sapevo se piangere, se ridere o se pregare. Protesi per quest’ultima soluzione, raccomandandomi al buon Dio di non farmi morire anche perché sarebbe stato un modo davvero indecente e immeritevole di finire il mio, seppur poco incisivo, passaggio su questa terra.
Il maresciallo sparò una prima volta e, poi, sparò di nuovo. Il rumore fu assordante e io rimasi con gli occhi chiusi anche quando, essendosi finalmente aperta la porta al secondo colpo di pistola, il maresciallo entrò per primo e, dandomi una bella pacca sulla spalla, m’informò ch’era tutto finito. Per quella sera non riuscii più a suonare e, dopo essere rimasto un po’ a commentare il fatto, me ne tornai a casa. Quella fu l’ultima volta che suonai in quel locale, non ricordo se per scelta mia o per scelta del proprietario, ma questo oggi non ha più importanza.
Si formò nello stesso anno a Castelvetrano il “Trio Selinon” composto da Nino Catalano alla chitarra e voce solista, Gino Sciortino al piano e Renato Garifo al basso. Si misero assieme a seguito d’un contratto che Gino prese presso gli alberghi della “SITAS” di Sciacca. Rimasero a suonare lì, tutte le sere, per quasi quattro anni facendo tesoro di questa grande opportunità che non si sarebbe più ripetuta negli anni a seguire.
Una sera, trovandosi ospiti dell’albergo un folto gruppo di americani, Nino Catalano ne approfittò per eseguire tutto il suo repertorio di canzoni in lingua inglese, che cantava molto bene e con i testi originali. Gli americani rimasero molto entusiasti delle performances di Nino, e durante il consueto whisky time, gli vollero offrire qualcosa da bere complimentandosi con lui.
Nino, che sapeva parlare bene in francese, ma non in inglese, disse, con l’accento tipico italo-americano: “Ju cantrari bonu inglesi, ma nun parrari americanu”, lasciando esterrefatti gli americani che attoniti lo lasciarono da solo al bancone del bar. Comunque, di là da questo spiacevole incidente di percorso, c’è da dire che Nino aveva una potenzialità canora inesauribile. Tanto ne è che una sera, dopo aver cantato per l’intera serata ed essendosi fumati, oltretutto, due interi pacchetti di “bionde”(sigarette) ogni sera, riuscì a superare positivamente un esame spirometrico fatto presso il centro benessere dello stesso albergo.
Si trattò soltanto d’una scommessa fra loro tre e mentre Renato e Gino, pur non cantando, riuscirono ad arrivare a un livello medio di capacità polmonare, quando fu il turno di Nino la macchina subì un violento scatto in alto, superando il massimo dei limiti impostati.
Ogni quindici giorni, in occasione di serate speciali, andava a suonare con loro il batterista Massimo Trapani per dare maggior ritmo al repertorio. Durante una serata di carnevale, svoltasi presso l’Albergo “Lipari” sempre di Sciacca Mare (S.I.T.A.S.), ci fu come ospite la famosa cantante Luciana Turina. Essa utilizzava delle basi musicali sulle quali cantava in maniera molto appassionata e senza risparmiarsi. Così facendo, però, esaurì tutte le sue energie compromettendo notevolmente le corde vocali che l’indomani diedero forfait. Luciana per quella sera fu costretta a cantare in play-back.
Accadde che Massimo Trapani, inavvertitamente, inciampò sul filo di corrente che alimentava il play-back sul quale faceva finta di cantare la Turina. Fermatasi sia la musica sia la voce, Lucianina (non la Littizzetto) fu costretta a scusarsi, parlando con un tenue filo di voce, alquanto rauca. Le persone, però, non gradirono la presa in giro e s’accanirono contro di lei con dimostrazioni sonore di fischi e pernacchie.
La poverina, mortificatissima, ma molto adirata, minacciò di rivalersi sull’autore del misfatto. Massimino, avendo capito il pericolo che incombeva su di lui, fu costretto a dileguarsi per tutta la serata. Ai ragazzi del “Trio Selinon” non rimase altro da fare, in mancanza del batterista, che utilizzare una batteria elettronica che tenevano pronta per qualsiasi evenienza.
In un’altra occasione, sempre nel periodo di carnevale, oltre ai “Selinon” doveva esibirsi un gruppo proveniente da Roma. Successe che i musicisti romani, non essendo stati informati del tipo di musica che si usava suonare dalle nostre parti, non sono stati molto graditi, costringendo la gente che voleva ballare a spostarsi nella vicina discoteca. Quando, poi, fu il turno dei “Selinon” la gente ritornò nella sala ristorante, adibita per l’occasione a sala da ballo, perché gradiva e ballava con piacere sulle musiche che essi proponevano.
A dimostrazione, comunque, che fra noi musicisti con c’è rivalità, almeno con quelli che vengono da fuori, alcuni elementi dei colleghi romani, e precisamente la sezione dei fiati, si unirono ai “Selinon” per dare man forte ai colleghi siciliani che furono ben lieti di quell’improvvisata jam-session.
Il problema come al solito fu il batterista. Massimo quella sera si trovò semi inabile con l’alluce destro incarnito e, non avendo avuto il tempo di rivolgersi a un podologo, si trovò, suo malgrado, a gestire una situazione estremamente terrificante. A ogni colpo di cassa ch’era costretto a dare, l’unghia traumatizzava maggiormente la carne provocandogli intensi e lancinanti dolori.
Il tutto era aggravato anche dal fatto che il tipo di repertorio carnascialesco non concedeva ai musicisti alcuna pausa. In pratica il malcapitato Massimino, allo stremo delle forze fisiche aggravate dal dolore, era costretto a gridare: “Basta, ‘un ci la fazzu ‘cchiù!” “Basta, non ce la faccio più!”.
Sempre nell’anno 1986 Gaspare Signorello, meglio noto come Testagrossa, avendo la passione di scrivere canzoni ed essendo amico di Nicola Mangiaracina, lo pregò di dargli una mano per realizzare un’audiocassetta con alcune sue composizioni. Nicola si mise a disposizione e si rivolse ai ragazzi de “La Controfigura” per realizzare il progetto di Gaspare.
Dopo un paio di mesi di lavoro presso la “Sud Record” di Palermo, la stessa dove ho registrato la mia prima audiocassetta, Gaspare coronò il suo sogno realizzando “Bella” che, come me, dedicò alla figlia. Quando Gaspare ebbe in mano le mille audiocassette prodotte gli fu proposto, da parte d’un impresario che lavorava in America, di venderle lì in modo da farlo conoscere al vasto pubblico americano. Sarebbe stato, poi, lo stesso impresario a organizzargli delle serate. Chiese, naturalmente, l’esclusiva da parte di Gaspare e l’autorizzazione per la vendita delle cassette.
Gaspare, però, sentì odore di truffa e non accettò. Ha sbagliato? Ha fatto bene? Sono quelle domande alle quali nessuno potrà mai dare delle risposte certe. Si suole dire che il treno passa sempre una volta sola nella vita e quando passa bisogna salirci. Il problema è che non si sa la direzione in cui va quel treno e dove porta, quindi, spesso si ha paura che il viaggio sia talmente lungo da stancarsi prima del tempo e pentirsi di esservi salito. Gaspare non salì sul quel treno rimanendo alla stazione, certo in buona compagnia, ad aspettare che ne possa passare qualche altro.
ANNO 1987
In quell’anno, sulla scia dei più famosi “Rondò Veneziano” del grande maestro Giampiero Reverberi, ebbi l’idea di formare a Castelvetrano un gruppo fotocopia che chiamai “Rondò Siciliano”. Ne fecero parte, oltre a me al pianoforte e tastiere elettroniche: la paesana Caterina Clemente all’oboe, i fratelli Franco e Roberto Federico di Campobello, rispettivamente al flauto e alla viola, Vita Nastasi e Anna Maniscalco di Strasatti, al violino.
Fu una sorpresa per tutti, anche perché i ragazzi e le ragazze che formavano i “Rondò Siciliano”, erano rigorosamente vestiti con la stessa tipologia d’abbigliamento dei “Rondò Veneziano”. Quando siamo apparsi per la prima volta in pubblico ci fu un sussulto di meraviglia poiché, lì per lì, sembrò che fossero entrati in sala i veri “Rondò”.
Un altro particolare da ricordare fu durante una festa in piazza a Menfi dov’erano intervenuti, per la curiosità di sentire i “Rondò Siciliano”, migliaia di persone. Durante la nostra esibizione venne qualcuno del comitato a riferirci che la gente si lamentava perché non suonavamo dal vivo, ma facevamo solo finta di suonare andando dietro a delle basi musicali. Bene, non potemmo che ringraziare di questo il pubblico, poiché fu il più bel complimento che potevamo ricevere visto che suonavamo rigorosamente dal vivo (e guai se così non fosse stato).
Il fatto che la nostra musica risultasse così perfetta da essere confusa con una base originale, fu quanto di più professionalmente positivo poté capitarci. Quando la gente, poi, si rese conto che in effetti non c’era né trucco né inganno, ci tributò un applauso lunghissimo congratulandosi con tutti i ragazzi dei “Rondò Siciliano”.
Purtroppo, non ci fu il tempo di farci conoscere, che i ragazzi preferirono seguire la loro vera strada ch’era quella del concertismo, visto che provenivano tutti dal conservatorio. Accettarono, infatti, un contratto di lavoro in un’orchestra giovanile che permise loro di girare in lungo e in largo per lo stivale con un repertorio più consono alle loro esigenze professionali. Ciò, però, mi ha costretto a terminare quella bell’esperienza coi “Rondò” che, ancora oggi, ricordano con immenso piacere quell’edificante stagione estiva.
ANNO 1988
In quell’anno, insieme al mio sempre fraterno amico Franco Calcara, feci un’esperienza indimenticabile. L'ingegnere Norrito, proprietario dell’“Hopps Hotel” di Mazara del Vallo, c’impegnò per tutte e quattro le serate di carnevale. Dovevamo intrattenere i clienti che preferivano un po’ di musica più rilassante nella haule dell’albergo a quella molto più rumorosa, tipicamente carnascialesca, proposta dagli amici “Dioscuri” nell’adiacente salone da ballo.
Avevo a disposizione un pianoforte a coda, mentre Franco m’accompagnava al basso. Mai avremmo potuto immaginare che, invece d’impegnarci per qualche ora di classico piano-bar, ci siamo letteralmente massacrati a far divertire le persone che avevano voglia di ballare e preferivano farlo nella haule per evitare l’eccessiva confusione del salone.
Allora non c’erano ancora le tastiere elettroniche provviste d’accompagnamento, quindi tutto era prodotto dalle povere dita delle mani. Solo chi è del mestiere può capire cosa possa significare suonare per ore e ore su un pianoforte a coda tutto ciò che esiste di ballabile nel panorama musicale tradizional-nazionale e internazionale: liscio, balli sudamericani, musica latino-americana e ancora twist, rock’n’roll, shake, boogie boogie etc.
Davvero un’esperienza ai limiti dell’umana artistica resistenza che difficilmente potremo togliere dal cassetto dei nostri ricordi più belli. Persino gli amici dei “Dioscuri” ebbero parole di conforto nei nostri confronti. Durante la pausa che ogni tanto facevano, ci raggiungevano e ci dicevano: “Coraggio, ancora un paio d’ore e tutto sarà finito”. Bella forza! A ogni modo ce l’abbiamo fatta ricevendo i complimenti un po’ da parte di tutti. Una sincera gratificazione è certamente il miglior compenso a ogni fatica.
Lo stesso anno 1988 vide la nascita d’una nuova formazione dell’“Orchestra 2000” composta da: i fratelli Vito e Mario Giammarinaro, Giuseppe Leone alle tastiere sostituito, in seguito, da Angelo Polonia, tutti di Campobello ed Eugenio Adorno, terzo fratello dei miei compari Pino e Renato, al basso.
Ancora una nuova formazione, denominata “Chopin”, si compose a Castelvetrano e fu formata da: Giacomo Bua alla chitarra, Peppe Prinzivalli alle tastiere, Salvino Telari anche lui alle tastiere e suo fratello Vincenzo alla batteria, Giuseppe Ingargiola al basso e Antonino Gioia come voce solista. Quest’ultimo era anche il proprietario del notissimo bar “Tropical” di Selinunte. Bar che è stato chiuso quando Antonino decise d’emigrare in Germania. Questo gruppo durò un paio d’anni.
Fra gli impegni che affrontarono ci fu un carnevale effettuato presso il “Palazzetto dello Sport” di Castelvetrano sito in via Circonvallazione. Il carnevale andò benissimo, ma essendo il posto incustodito, onde evitare che qualche malintenzionato nella notte potesse approfittarne per rubare loro le attrezzature, i ragazzi furono costretti a rimanere anche per la notte a guardia degli strumenti. Si arrangiarono alla meno peggio bivaccando per tutte e quattro le serate fra gli stessi. Dovettero, fra l’altro, sorbirsi tutto il freddo che si condensava nelle ore notturne a causa del periodo invernale, ma anche per il tipo di struttura e per l’ampiezza del Palazzetto non riscaldato.
Con Giacomo Bua mi lega un sentimento di vera amicizia accompagnato da reciproca stima. Mi è stato vicino in particolari momenti artistici della mia vita, confrontandosi con me sempre in modo leale e sincero. Ne apprezzo moltissimo sia le notevoli doti musicali sia la spiccata personalità che dimostra ogni volta che mi relaziono con lui. Abbiamo tentato qualche volta di fare qualcosa assieme, ma malgrado il piacere di volerlo fare ci siamo dovuti arrendere all’evidente diverso modo di concepire la musica. Io provengo da esperienze che ci riportano a tempi lontani e lui, molto più giovane di me, è abituato a soluzioni sonore che ben si discostano dal mio modo d’interpretare la musica.
Sempre in quell’anno ero alla ricerca di qualcosa di nuovo da proporre agli amici che mi volevano al loro matrimonio. Ne parlai con Nicola Mangiaracina, simpaticamente antagonista in quanto ambedue pianisti, proponendogli d’unire le nostre forze e formare un duo per come c’era stato consigliato già da tempo da parte di alcuni nostri reciproci estimatori. Lui s’entusiasmò e cominciammo a provare. Fu un’esperienza gratificante e mi sentivo molto orgoglioso di suonare con colui che da sempre è stato il punto di riferimento di tutti noi attempati musicisti o musicanti che dir si voglia. Chiamammo il duo “Idea 2”, e da lì a poco arrivò il primo matrimonio contrattato da Nicola.
Esso doveva svolgersi presso l’allora sala trattenimenti “Asso di Quadri” dell’ingegnere Agate, sul prolungamento del viale Roma. Impiegammo un’intera mattinata per trasportare alla sala tutti i nostri strumenti musicali: due pianoforti, un verticale tradizionale e uno elettrico, due tastiere elettroniche, una chitarra, una fisarmonica oltre l’impianto voce potenziato unendo il suo al mio.
Finito il lavoro di montaggio e sistemazione degli strumenti, non lasciando niente al caso, io rimasi in sala e mi cambiai lì stesso. Nicola, invece, andò a cambiarsi a casa sua. Tornò dopo un quarto d’ora e lo vidi pallidissimo in viso. Gli chiesi, preoccupato, cosa fosse successo. Mi rispose: “Nenti. Sulu chi lu matrimoniu unn’è ‘ccà, ma all’avutra sala” “Niente. Solo che il matrimonio non è qui, ma all’altra sala”. L’altra sala era il “Royal Party” dell’ingegnere Cataldo, ubicata cento metri prima e nella stessa via, oggi sede d’un negozio d’abbigliamento.
Potete immaginarvi lo sconforto e l’attacco di panico che mi prese. In poche parole raccattammo in fretta e furia, già peraltro cambiati d’abito, il necessario per fare quel benedetto matrimonio, lasciando buona parte degli strumenti all’“Asso di Quadri”, sistemati in un angolo, e ci trasferimmo al “Royal Party”, dove già arrivavano gli invitati. In men che non si dica siamo riusciti, a rischio di farci saltare le coronarie, a sistemare il tutto nel mentre arrivavano gli sposi.
Il matrimonio andò bene, tutto sommato, ma non come avevamo prospettato, mancandoci gli strumenti necessari per dimostrare quello che eravamo capaci di fare insieme. Insomma, un brutto inizio che segnò anche la fine del progetto. Abbandonammo, infatti, quell’“Idea” convincendoci che se era successo quello spiacevole contrattempo, forse, era stato un segno del destino che ci voleva sì amici, ma simpaticamente rivali.
Quell’anno vide anche la nascita di quello che forse è stato l’ultimo gruppo musicale di rilievo a Castelvetrano, i “Musicanova”. In pratica, a causa d’alcune divergenze di vedute musicali, mio compare Pino Adorno e il campobellese Paolo Di Carlo, che suonavano coi “Duemila”, decisero di non farne più parte e di dare vita a un nuovo soggetto musicale che chiamarono, per l’appunto, “Musicanova”.
Insieme a loro c’erano: la sorella di Paolo, Giusy Di Carlo, una delle più preparate e abili cantanti locali, il bravissimo chitarrista e sassofonista campobellese Francesco Critti, un giovane batterista mazarese, Ciccio Ferro, e il trombettista Filippo Li Causi paracausi, già leader dei “Supersonici” di Partanna. A Ciccio Ferro, per il suo modo di presentarsi sempre in perfetto ordine, ben vestito, elegante, distinto e profumato, i suoi colleghi dei “Musicanova” avevano dato il soprannome di cipria, gradito dallo stesso. Da quel giorno quando si parla di Ferro si parla di Ciccio cipria. S’accompagnava spesso con loro anche il fratello di Francesco, Giovanni Critti, eccellente bassista e trombettista.
Di questo gruppo, l’anno dopo la sua fondazione, fece parte anche mio figlio Daniele che cominciava le sue prime esperienze musicali a livello professionistico. In quel periodo, oltretutto, facevo molte feste di piazza come cantante e mi occorreva un gruppo che m’accompagnasse nei miei spettacoli. Fu anche per questo motivo che mi sono speso per loro, nel termine proprio della parola, acquistando sia l’impianto d’amplificazione sia il furgone, un Iveco Daily che trovammo di seconda mano a Milano. L’impianto lo acquistammo da Anna Maria Prinzivalli che doveva vendere il suo “Elettrovoice”, ma di questo ho già parlato.
A tal proposito voglio raccontare un curioso episodio occorso a me e a Paolo quando giungemmo a Milano per ritirare il furgone. Usciti dalla metropolitana e trovandoci d’improvviso di fronte il maestoso Duomo, monumento simbolo del capoluogo lombardo, Paolo non poté fare a meno di provare profonda meraviglia per quell’incredibile opera, capolavoro del Signore Gian Galeazzo Visconti che, fra il 1300 e il 1400, ne consentì l’inizio dei lavori.
Dopo, però, quella prima emozionante artistica impressione, il pensiero di Paolo fu rivolto ad altro: “Minchia! ‘Ccà s’incontranu cantanti famosi!” esclamò. Cominciò, dunque, a scrutare utilizzando gli occhi come due raggi laser che puntavano tutte le persone davanti a lui alla ricerca d’individuare fra esse qualcuno dei suoi idoli.
Proprio in quel frangente ci passò accanto una pattuglia di poliziotti a cavallo. Uno di essi, scorgendomi in mezzo a una folla che si muoveva come delle formiche, si rivolse a me dicendo: “Ma lei non è Gigi Simanella?”. Risposi di sì e chiesi a mia volta: “Come mai mi conosce?”. Lui candidamente rispose: “Ho una sua audiocassetta che ascolto spesso quando sono in macchina”. A quel punto, rivolgendomi a Paolo, dissi: “Ti sta cunsumannu l’occhi pi vidiri si c’è unu famosu e un t’innadduni chi ci l’ha a ciancu?” “Ti stai consumando gli occhi per vedere se c’é un personaggio famoso e non ti sei accorto che ce l’hai accanto?”, in tono scherzoso naturalmente.
In pratica il poliziotto era un collega di mio fratello Sergio, che gli aveva regalato una copia della mia audiocassetta “Desirée” nella cui copertina ero ritratto seduto al pianoforte. Quel poliziotto, evidentemente, era un forte fisionomista ed era riuscito a collegare quel viso stampato su una copertina con il mio.
Daniele suonò con i “Musicanova” un paio d’anni. Gli impegni di studio al conservatorio non gli consentirono, in seguito, di continuare a fare parte di complessi musicali. Al suo posto entrò nel gruppo il campobellese Giuseppe (Peppe) Prinzivalli, da non confondere col fratello di Anna Maria. Anche con Peppe ho un bel ricordo.
Qualche anno dopo, impegnato a suonare tutte le sere a “Gli Archi”, un noto pianobar di Castellammare del Golfo di proprietà del mio amico Vito Accardo, ho dovuto organizzarmi con Daniele per soddisfare, nel contempo, anche gl’impegni di matrimonio. Siccome Daniele non cantava e, peraltro, era ancora minorenne quindi sprovvisto d’auto, ci siamo rivolti a Peppe che, oltre a essere patentato era (ed è) un bravo pianista e un bravo cantante. Oggi, addirittura, è più apprezzato e ricercato come batterista, strumento che suona con un’abilità riservata davvero a pochi. Qualche volta l’ho portato anche con me per farmi compagnia.
Una di quelle serate, in cui solitamente si finiva molto tardi di suonare, finimmo davvero molto più tardi del solito. Quando la mamma di Peppe s’alzò dal letto, andò a controllare se suo figlio stava riposando. Costatato, però, che il letto era ancora integro, svegliò il marito che telefonò subito a casa mia. Rispose mia moglie che si meravigliò di come mai alle sette del mattino io non avevo ancora fatto rientro a casa. Non essendoci allora ancora i telefonini, decisero di rivolgersi ai carabinieri. Proprio in quel mentre, giunsi a casa e telefonai immediatamente al papà di Peppe rassicurandolo che il figlio stava rientrando.
Quella notte, avendo terminato ch’erano le cinque del mattino e sapendo che da lì a poco albeggiava, abbiamo pensato di non perderci il magnifico spettacolo della natura in cui i primi raggi del sole si specchiano nelle azzurre acque del golfo di Castellammare. Oltretutto, a quell’ora del mattino, c’era lì vicino un laboratorio di pasticceria che sfornava i cornetti caldi. Era un’occasione imperdibile e irripetibile e ci siamo concessi quella goduria che non abbiamo più dimenticato. Purtroppo, così facendo, avevamo oltrepassato ogni orario lecito per fare ritorno a casa, allarmando i nostri cari. Per la verità sia mia moglie sia il papà di Peppe diedero poco credito a quella giustificazione, e forse ancora oggi pensano che quella notte abbiamo combinato qualcosa di poco chiaro, ma tanto ne é.
Un’altra amica che ho portato con me agli “Archi”, molto richiesta dal proprietario poiché molto brava e di bella presenza, è stata Giovanna Nastasi, sorella di Vita che aveva suonato con me coi “Rondò Siciliano”. Anche Giovanna suonava il violino e cantava. Ricordo che in quel periodo si trovava in stato interessante e aveva sempre appetito. Vito Accardo non sapeva più come accontentarla dopo che le aveva offerto tutto quello che c’era di disponibile al bar.
Quell’anno uscì dai “Musicanova” anche Ciccio Ferro che fu sostituito da Renato Adorno. A una festa di piazza a Menfi nella quale dovevano aprire il concerto dei “Cugini di Campagna”, a causa d’un ritardo di quest’ultimi, il concerto dovettero farlo loro. Meno male che avevano un repertorio abbastanza vasto ed eterogeneo con il quale accontentarono la gente che aspettava i “Cugini”. Durante l’esecuzione d’un brano, cantato da Franco Critti, si spensero tutte le luci e il palco rimase al buio. Franco si fermò di cantare, poiché non riuscì più a leggere il testo della canzone che stava eseguendo. Per fortuna gli altri strumentisti non si persero d’animo e, anche al buio, continuarono a suonare. Sembrò come se stesse suonando una base musicale.
Con l’uscita di Daniele anch’io lasciai i “Musicanova” cedendo loro quello che avevo precedentemente acquistato, anche perché Pino e Paolo avevano deciso d’allargare il loro giro di lavoro iniziando a fare dei service, decisione con la quale non mi sono trovato d’accordo. In effetti, dopo qualche anno, la loro attività musicale andò scemando, mentre quella imprenditoriale procedette a pieno ritmo.
Pino e Paolo costituirono anche una cooperativa che s’occupò di service audio e luci sempre sotto il nome di “Musicanova” visto che, nel frattempo, Paolo si era specializzato come tecnico del suono e Pino come tecnico delle luci. Pian piano il loro bacino d’utenza s’ampliò notevolmente portandoli a fare esperienze professionali di grande spessore artistico in molte parti della Sicilia. Magistrali sono state le collaborazioni col Teatro “Selinus” di Castelvetrano, durante le direzioni artistiche di Marilena Monti e Giacomo Bonagiuso.
Fra le opere rappresentate nel teatro, grande successo ebbero “Aquila” con la regia della Monti e “Aggiungi un posto a tavola” con la regia di Bonagiuso. Per quanto riguarda i “Musicanova”, gli altri musicisti che si sono succeduti nel decennio di loro attività musicale sono stati: i chitarristi Vito Giammarinaro, figlio di Nello trombettista dell’“Orchestra 2000”, e Nino Lentini.
Un grande acquisto, se posso permettermi d’usare questo termine, fu quello di Peppe Clemente la cui presenza vocale diede nuovo impulso al gruppo sia per il repertorio solistico ch’egli proponeva sia nei duetti con Giusy Di Carlo le cui voci combinate insieme regalavano ai fortunati ascoltatori momenti di pura estasi. Peccato che dopo l’esperienza del “Cantagiro” Peppe uscì dal gruppo. Lo sostituì degnamente un altro bravissimo cantante, Peppe Patti, che si mise anche al basso. Con l’ingresso di Peppe, anche il padre Giovanni, già bassista-cantante del “Jolly ‘70”, cominciò a bazzicare a stare vicino ai “Musicanova”.
Ricordo una bellissima serata in cui invitarono anche me che accettai ben volentieri anche perché la formazione era delle più pregevoli. Insieme a noi, infatti, suonarono due incredibili chitarristi: Vito Giammarinaro, muluneddu, e il grande Maurizio Filardo. Fu una serata in cui il rock la fece da padrone e io, che ne sono uno sfegatato fan, non potevo mancare a quell’appuntamento magico. Nel decennio in cui il gruppo dei “Musicanova” è stato in auge, oltre a esibirsi nei migliori locali della zona per le serate danzanti di capodanno e di carnevale, ebbe il monopolio di tutte le feste delle scuole superiori castelvetranesi. Anche perché, oltre a suonare per allietare le serate danzanti, Paolo e Pino s’occupavano anche del service per la rappresentazione teatrale che, puntualmente, ogni anno è realizzata dai ragazzi che frequentano l’ultimo anno di studi. Ricordo in particolare quella ai tempi in cui frequentavo il liceo scientifico il cui inno fu allora composto dal dottor Vito Signorello che, almeno nella parte iniziale, recitava: “Oh popolo di studenti, studenti liceali……”.
L’EPILOGO
Nell’anno 1988 la ditta Roland introdusse nel mercato degli strumenti musicali una nuova tastiera, la E 20. Si trattava di un “Synthesizer” intelligente dotato d’accompagnamento automatico con pattern di batteria e suoni di alta qualità che permettevano, dapprima al tastierista amatoriale, ma ben presto anche ai professionisti, di potere suonare da soli senza l’ausilio d’altri strumentisti. Fu questo fenomeno di massa che determinò a Castelvetrano, ma ritengo anche in ambito mondiale, la fine dei complessi locali che da quel momento in poi non ebbero più motivo d’esistere.