I complessi castelvetranesi post Beatles e la soave voce di Anna Maria Vinci
del 2014-10-19
Dopo avere raccontato la storia dei complessi castelvetranesi nell’era pre-Beatles e nell’era Beatles, non ci rimane che avviarci verso la fine di questo lungo, ma credo interessante e coinvolgente viaggio, raccontando quella nell’era post-Beatles.
ANNI 1971-1972
Ricordo che nell’anno 1971 suonavo alla chiesa di S. Francesco di Paola per la “messa beat” quella domenica quando, all’uscita, mi raggiunsero Franco Morrione, che conoscevo poiché mi aveva dato delle lezioni di chitarra alcuni anni prima, e Giovanni Patti. Mi proposero d’entrare a far parte del loro complesso dei “Jolly ‘70”. Dissi ch’ero molto lusingato, ma che non mi sentivo all’altezza (loro erano già dei professionisti, io invece conoscevo solo qualche accordo sulla tastiera dell’organo). Mi dissero che cercavano un organista che conoscesse proprio l’“armonia”, quindi andavo benissimo. Vista la loro insistenza accettai, ma non ero in possesso di strumenti professionali.
Cominciai a convincere mio padre a comprarmi un organo e un amplificatore. Ricordo che furono giorni che, oserei dire, drammatici con ricatti, minacce e quant’altro pur di ottenere ciò che desideravo. Intervennero a mio favore parenti e amici, tutti a convincere mio padre che sarebbe stato meglio accontentarmi. Alla fine vinsi o perdetti, ma lì il discorso si fa troppo lungo e complicato. Mio padre dovette fare un prestito bancario per comprarmi il primo organo. Era un Farfisa di seconda mano modello Fast 5 la cui caratteristica, rispetto agli altri organi, era di avere i tasti neri (diesies e bemolle) bianchi e i classici tasti bianchi o naturali per le prime due ottave neri (quelle dei bassi) e per le rimanenti tre ottave grigi. L’altra peculiarità consisteva in una leva montata sotto la tastiera che, spinta verso destra con la gamba destra, produceva l’effetto vibrato – lo stesso della leva del vibrato della chitarra. Mio padre lo acquistò da Salvatore Turiddu Triolo, papà di Franco e Giovanna, per la somma di £. 320.000.
Finalmente avevo uno strumento professionale tutto mio con il quale potei cominciare a provare con i “Jolly ‘70”. La formazione al gran completo vedeva: io all’organo, Franco Morrione, soprannominato Ciccio scricchio perché era un tipo molto minuto, alla chitarra, Giovanni Patti al basso, Giovanni Curiale alla batteria, Vincenzo Ferrantello alla tromba e Pippo Peppe Asta al sax e flauto traverso. Portai nel gruppo anche il mio amico Nino Catalano che, oltre a suonare la chitarra accompagnamento, cantava, e a noi serviva una voce maschile che non fosse quella di Robertino Ferro che cantava soltanto canzoni napoletane. Con loro ho fatto il mio secondo carnevale preso il circolo A.C.L.I. di Partanna, ubicato in una baracca vicino alla vecchia fontana “di l’abbiviratura”.
Il mio primo carnevale l’avevo fatto con i “Riflessi” e, alla fine della mia quarantennale carriera, ne feci più di trenta. L’impegno l’aveva preso Vincenzo Messana, (fratello di Giovanni, meglio noto come “pagnotta”, bravo giocatore della nostra squadra di calcio “Folgore”), un barbiere amico di Giovanni Curiale che si dilettava a cantare e che aveva realizzato un 45 giri dal titolo “Non tentarmi”.
Ricordo che la mattina della prima serata di quel carnevale, avevamo suonato a un matrimonio e Nino, che non si era risparmiato a cantare, dovette chiedere aiuto alla madre per fargli fare dei perfumi e mangiare qualche sarda salata acciuga per riacquistare un po’ di voce. Un giorno andammo a suonare a Selinunte presso il ristorante “Miramare”. C’era invitato anche il signor Prinzivalli con tutta la sua famiglia. A un certo punto egli s’avvicinò all’orchestra insieme alla figlia, una ragazzina graziosa con tanti capelli ricci. Ce la presentò e ci chiese se potevamo farle cantare una canzone. Accettammo di buon grado, anche perché la ragazzina si dimostrava abbastanza in gamba. Essa, oltre ad avere una bella voce, possedeva una grande grinta e un carattere deciso, ottime qualità per fare la cantante professionista. Fece un figurone e non ci dimenticammo certo di lei. Si chiamava Anna Maria.
Dopo qualche tempo, infatti, volendo ampliare l’organico del gruppo, decidemmo d’inserire anche una voce femminile che ci desse la possibilità d’eseguire anche brani cantati da donne. Ci recammo, quindi, a Selinunte all’indirizzo fornitoci allora dal padre di Anna Maria. La stessa, che all’epoca aveva soltanto dodici anni, si era distinta partecipando ad alcune importanti manifestazioni canore locali. Quando quel pomeriggio arrivammo a casa del signor Prinzivalli, fra l’altro imparentato col nostro bassista Giovanni Patti, venne ad aprirci lui stesso, di persona personalmente (come direbbe il buon Catarella, al secolo Angelo Russo, del “Commissario Montalbano”).
Era un tipo minuto, monco della mano sinistra, basso di statura, con i baffetti intriganti e lo sguardo che penetrava fin dentro l’anima, come se volesse leggervi chissà quali nostri arcani propositi, persona simpaticissima e con un cuore grande. Lu ‘zu Pitrinu oggi non è più fra noi, ma continua a vivere nel ricordo di tanti amici che gli abbiamo voluto bene. Gli chiedemmo della figlia spiegando il motivo della nostra visita. Lui e la mamma di Anna Maria furono entusiasti e la stessa figlia, a sua volta, ansimava perché il padre le permettesse d’entrare a far parte del “Jolly ‘70”. Il papà fu d’accordo, ma anche tutti in famiglia furono ben contenti d’affidarci la propria figliola ritenendoci dei “bravi ragazzi”.
Con Anna Maria si creò, nei “Jolly ‘70”, un sodalizio tale che ci permise, fra l’altro, di partecipare l’anno successivo anche al “Gonfalone d”Oro”, una trasmissione radiofonica dove lei cantò “Amor mio”, brano composto da Lucio Battisti per Mina. Il primo “Gonfalone d’Oro” si tenne presso il Cine Teatro Palme e per noi fu una grande opportunità, anche se per quell’anno, non siamo entrati nella finale che ci avrebbe dato la possibilità di farci ascoltare dal vasto pubblico della radio nazionale.
Anna Maria, poi, fece carriera diventando, di fatto, una cantante professionista conosciuta a livello nazionale. Artisticamente assunse il cognome del marito, Vincenzo Vinci, diventando, Anna Maria Vinci. Nell’anno 1980 lasciò l’Italia e sbarcò in America con la sua band che da lei prese il nome, “Annamaria’s Band”. Il suo primo successo discografico fu “Al mare no”, sigla di chiusura del programma televisivo “Sì o no” del 1985 condotto da Maurizio Costanzo e mandato in onda da Canale 5. Partecipò, con lo stesso brano, anche al Festivalbar di quell’anno.
Anna Maria vanta, inoltre, una strettissima amicizia con Billy Cobham, sicuramente il migliore batterista a livello mondiale. Li troviamo insieme ospiti del programma televisivo “Pronto chi gioca?”, del 1986, condotto da Enrica Bonaccorti e trasmesso su Rai 1. Registra, poi, “Before the Beatles” dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis, ossia gli “Olivier Onions”.
Questo brano era la sigla finale della finction televisiva “Quando ancora non c’erano i Beatles”, una mini serie nostalgico-musicale trasmessa dalla RAI nel lontano 1988. Un altro lavoro discografico di Anna Maria fu “Annamaria sings”, una compilation di famose cover inglesi prodotta nell’anno 2009. L’ultimo suo sforzo musicale la realizzazione di un CD contenente dodici brani italiani di cui sette inediti. Il CD s’intitola “Grazie tante” nel quale, oltre all’amico di sempre Billy Cobham, è intervenuta la figlia Valentina anche lei ottima esecutrice di brani cantanti.
Anch’io composi tanti anni fa un brano per Anna Maria, “La diva”, precorrendo quello che, poi, è successo nella realtà. Allora, però, Anna Maria non era ancora entrata nel mondo dello spettacolo e quel brano rimase nel cassetto a fare compagnia ad altri centinaia di brani che ho composto nella mia lunghissima carriera.
Un fatto curioso che ci tengo a raccontare, proprio per mostrare il carattere forte di Anna Maria, fu quando nell’anno 1990, insieme a mio compare Pino Adorno, a Paolo Di Carlo e a Franco Critti, componenti del complesso “Musicanova”, andammo a trovarla nella sua casa di Alatri in provincia di Roma. In pratica avevo deciso di fare da manager a questo nuovo gruppo che si formava, provvisto di grandi potenzialità musicali. Acquistai per loro il furgone, un Iveco Daily che trovammo di seconda mano a Milano, e l’impianto d’amplificazione. Anna Maria doveva vendere il suo, un Elettrovoice, e i ragazzi furono ben contenti d’orientarsi su quella scelta.
Fatto l’affare, Anna Maria ci chiese se le potevamo dare un passaggio perché era da qualche tempo che non veniva in Sicilia a vedere i suoi genitori. Fummo ben lieti di farlo e la sera ci partimmo con la mia “Giulietta” alla volta di Castelvetrano. Viaggiammo per tutta la notte. A un certo punto, stanchissimi per non aver dormito nemmeno la notte precedente a causa del viaggio d’andata, decidemmo di fermarci a un autogrill per riposare un po’. Anna Maria a quel punto si offrì di guidare lei la macchina, mentre noi ne avremmo approfittato per dormire un po’. In pratica ci svegliammo agli albori, quando oramai stavamo per raggiungere il nostro paese.
Al risveglio Anna Maria disse che, mentre guidava, ci osservava dallo specchietto retrovisore e le sembravamo degli angioletti, uno addossato all’altro. Comunque, prima d’arrivare a Castelvetrano, mi misi alla guida perché non volevamo perdere la faccia arrivando a casa con alla guida una donna. Oggi Anna Maria vive in Svizzera, insieme al marito e alla figlia Valentina, che oltre a essere una brava cantante è anche una brava compositrice.
Ebbi bisogno d’acquistare, nel frattempo, degli strumenti nuovi, ma questa volta non dissi niente a mio padre. Vendetti il mio organo Farfisa Fast 5 al professore, oggi preside in pensione, Salvatore Totò Ferri, e mi recai da Natale Curti per acquistare una nuova strumentazione. Lu ‘zu Natali accettò di vendermi, anche con delle cambiali, quello di cui avevo bisogno. Volle, però, che a firmare gli effetti cambiari, oltre a me ch’ero minorenne, li firmasse qualcuno più grande che mi avrebbe fatto da garante. Si mise a disposizione Giovanni Curiale.
Mio padre quando venne a sapere di quest’operazione, s’arrabbiò moltissimo sia con me sia con Giovanni che si era permesso di sostituirsi a lui, ma lo ringraziò ugualmente. Per aiutarmi a pagare le rate, quando i soldi guadagnati con gl’impegni musicali non erano sufficienti, Curiale mi fece lavorare nella sua falegnameria, dove imparai l’arte di trattare il legno. Ricordo quei particolari odori che si sprigionavano dai materiali utilizzati: le colle, le vernici, gli utensili e i vari tipi di legno lavorati. Da quell’esperienza mi è nata la passione del restauro dei mobili che ancora oggi coltivo, almeno quando ne ho il tempo.
Il nuovo organo che acquistai da Natale Curti fu un C.E.I. a doppia tastiera. Acquistai anche un amplificatore Elkatone 900 con leslie incorporato. Il leslie era un meccanismo montato all’interno dell’amplificatore con due altoparlanti a ruote foniche. Tramite un pedalino si poteva farlo girare con una velocità lenta che produceva un effetto tipo chorus, oppure con una veloce riproducendo un effetto tipo tremolo.
L’alternarsi di queste due velocità permetteva al suono prodotto di espandersi in maniera da creare un particolare effetto Doppier, tipo spaziale, molto in voga in quel periodo storico. Se, poi, si desiderava un suono lineare bastava posizionare il pedalino sullo stop e il leslie si fermava. Anche qui la caratteristica era la frenata, nel senso che non si fermava di colpo ma rallentando. Anche questo creava un’atmosfera attrattiva molto coinvolgente.
La cosa che mancava al gruppo era, adesso, un mezzo di trasporto. All’inizio ci arrangiammo con l’auto di Giovanni Curiale, un’Autobianchi 111 fornita di portapacchi, ma era soltanto una situazione d’accomodo in attesa di risolvere il problema in maniera definitiva. Per nostra fortuna un cugino di Giovanni Patti, Antonino Risalvato, detto anche Nino Necchi perché rivenditore dell’omonima macchina da cucire, ci mise a disposizione il suo furgone, un Fiat 850 che utilizzava per la sua azienda. L’impianto vocale già lo possedevamo, poiché l’aveva fornito Giuseppe Ferro, l’impresario del gruppo.
Vorrei adesso parlare del mio fraterno amico, compagno di scuola e di svago, Peppe Asta. Su di lui ci sarebbero da raccontare tante storie e su alcune mi soffermerò in maniera particolareggiata. Da rilevare, intanto, il suo carattere flemmatico, la sua impassibilità del genere “né l’acqua lu vagna né lu suli l’asciuga”.
Ricordo a un matrimonio, dopo una sua memorabile esecuzione al sax d’un famoso brano, una signora s’avvicinò e si complimentò con lui dicendogli: “Sei un mostro!”, sottinteso “di bravura”, per come si suole dire in queste occasioni. Lui, imperterrito, le rispose: “A mia dici mostru, picchì ‘un ti talii a lu specchiu!”, “A me dici mostro? Perché non ti guardi allo specchio!”, lasciando la povera signora alluccuta sbalordita.
Un’altra volta, mentre suonavamo, successe un diverbio fra il chitarrista e il bassista tale d’arrivare alle mani coinvolgendoci tutti in una rissa collettiva. Solo lui, mentre volavano pugni, calci e quant’altro, continuò tranquillamente a suonare, imperturbabile, come se non stesse succedendo nulla, anzi disse: “Chi ‘ffà, ama sunari o ni n’ama gghiri a la casa?”, “Che si fa, dobbiamo suonare o ce ne dobbiamo andare a casa?”. Frequentavamo il penultimo anno del Liceo Scientifico di via Mazzini quando decise d’abbandonare la scuola e vagabondare per il mondo alla ricerca della sua vera identità. Alla fine ci riuscì, dopo tante peripezie in cui fece tutti i lavori che gli capitarono, dal bagnino all’assistente del Luna Park.
Cominciò, nel frattempo, a frequentare il Conservatorio di Musica “V. Bellini” di Palermo, dove, dopo alcuni anni di studio si diplomò in flauto traverso. Si trasferì in seguito a Milano, dove andò a insegnare musica nelle scuole a indirizzo musicale e dove, ancora oggi, vive insieme alla sua famiglia. Non ha mai smesso di suonare e, quando non è impegnato con la scuola, va volentieri ad allietare le feste delle persone che lo invitano. Da precisare che la moglie, Concetta, è la sorella di Giovanni Patti.
Un altro complesso che merita d’essere ricordato sono i “Patrizi” di Campobello di Mazara, ma, anche loro, con elementi di Castelvetrano. Esso era formato da: Nicola Giardina voce solista, Pietro La Commare alla chitarra, Giuseppe Burgarella all’organo tutti di Campobello di Mazara, con Renato Adorno alla batteria e Filippo Pizzo al basso, ambedue di Castelvetrano.
Suonai anch’io con i “Patrizi”, proprio nel 1971, con una nuova formazione che, però, durò il tempo d’un solo matrimonio. Era composta da me all’organo e Franco Morrione alla chitarra solista, ambedue di Castelvetrano; Pietro La Commare passato al basso, Filippo La Chiana al sax, Nicola Giardina voce solista, tutti e tre di Campobello. Non posso dimenticare il povero Pietro La Commare che per le prove fece la spola da Campobello a Castelvetrano e ritorno, con la sua Fiat 850, per prendere me e Franco sprovvisti d’auto. Questo lo fece per un mese intero.
Un altro complesso che si formò in quell’anno fu quello de: la “La Nuova Generazione” composto da: Vincenzo Chiofalo, bassittuni, al basso, Giuseppe Sciolino alla tromba, Franco Morrione alla chitarra, Vincenzo La Barbera all’organo, Aldo Giaramita alla batteria. Anche loro parteciparono al “Gonfalone d’Oro”.
Nel mondo dei musicisti d’allora ne succedevano di tutti i colori e non sempre la compagnia era formato esclusivamente da musicisti. Spesso fra di noi c’erano amici ch’erano solamente appassionati di musica, ma che non suonavano alcuno strumento. L'allegra compagnia di amici fedeli era formata da: Johnny, Franco Stella (divenuto, poi, uno dei più affermati e stimati fotografi castelvetranesi e, purtroppo, oggi scomparso per gravi problemi al cuore), Gino Rizzo, Giorgio Kovaceff (fratello di Diana, futura moglie di Nicola Mangiaracina, leader degli “Asteroidi”), Nicola Pizzitola, Giuseppe Barresi, Gaspare Aspanò, Giuseppe Ancona Peppi funcia, e Giovanni Garofalo.
Un giorno, non avendo cosa fare, pensarono bene di recarsi a Sambuca di Sicilia per trascorrere qualche ora spensierata. Avevano a disposizione due Fiat 500, una di Franco Stella e l’altra di Giorgio Kovaceff. Si portarono dietro un paio di chitarre, che non abbandonavano mai, e si partirono alla volta di Sambuca. Ivi giunti e scesi dalle auto, si sistemarono ai piedi d’un mausoleo alla fine della salita in cui ogni anno è effettuata la corsa dei somari. Qui incominciarono a cantare canzoni utilizzando un inglese maccheronico (stile prisencolinensinainciusol, di celentiana memoria).
Passò, nel frattempo, un signore che, vedendo quei ragazzi che cantavano in modo strano che, non riconoscendoli come paesani, s’avvicinò e curioso chiese chi fossero. Loro con un italiano americanizzato risposero ch’erano turisti americani. A quel punto il signore disse che lui aveva ospite a casa un suo cugino americano e andò a chiamarlo.
I ragazzi furono presi da un attacco di panico. Giuseppe Barresi, però, disse: “Non vi preoccupate. Ci parlo io con questo americano che un po’ d’inglese lo conosco. L’importante che voi rimaniate in silenzio”. Quando quel signore tornò col cugino, questi chiese: “What are you doing here”. Giuseppe rispose: “A nuiatri mancari sordi e ciriveddu”, con la classica pronuncia americanizzata. L’americano replicò: “How much money do you need?”. Giuseppe imperturbato: “Chiddi chi mi vuò dari mi duni”. Allora l’americano mise la mano in tasca e tirò fuori un bigliettone da cento dollari dicendo: “Here take this money go home”. Giuseppe prese i soldi e disse ai ragazzi di continuare a suonare e cantare perché l’americano l’aveva anche pagato.
I ragazzi, a quel punto, ripresero con più foga il loro improvvisato spettacolino. A quel punto, però, l’americano, vedendosi preso in giro, li minacciò che li avrebbe fatti neri. I ragazzi, anche se non avevano capito un accidente di quello che l’americano aveva detto, si resero conto dal suo sguardo arcigno che forse era meglio sloggiare. Rientrarono nelle loro auto e fecero ritorno a Castelvetrano.
Passando da Menfi, davanti alla casa in cui lavoravano delle prostitute, pensarono di fermarsi, anche perché avevano intravisto una di esse, davanti la porta di casa, seminuda. Il primo a scendere fu Peppi funcia, il quale le s’inginocchiò davanti ai piedi e le fece una specie di dichiarazione d’amore, sempre con quell’italiano americanizzato. La donna rispose: “Ma chi dici? Un ti capisciu a comu parli!” “Cosa dici? Non ti capisco per come parli”. Giuseppe, allora, si fece avanti offrendosi come traduttore. Ne seguì tutta una trattativa dopo la quale la donna a un certo punto, vedendosi presa in giro, disse: “‘U capivi, ora chiamu lu me protetturi, accussì vi mittiti d’accordu cu iddu” “O.K. adesso chiamo il mio protettore, così vi mettete d’accordo con lui”. Ai ragazzi non rimase altro che darsela a gambe e nel più breve tempo possibile, cosicché i loro bollenti spiriti si raffreddarono in un baleno.
Un altro episodio curioso occorso a Johnny, Peppi funcia e Giovanni Garofalo fu quando, decisero di recarsi a Salaparuta (tutta caruta – caduta - recita una parodia, dopo il tragico terremoto del ’68), dove Peppe aveva la fidanzata, Franca, che poi divenne sua moglie. Non avendo i soldi per mettere la benzina nella 124 Fiat, color verde, di Garofalo, pensarono bene di far finta d’essere rimasti in panne.
Posteggiarono dopo il viale Roma verso S. Ninfa, in zona Calvanio (così chiamato per via delle famose tre croci, andate distrutte a causa del terremoto, e rimontate qualche anno fa all’interno del “Parco delle Rimembranze”), e cominciarono a fermare le auto di passaggio chiedendo loro di prestargli (sarebbe più esatto dire donargli) un po’ di benzina. Per loro fortuna la gente, pur essendo molto più povera d’adesso, era molto generosa.
Alcuni di essi si misero a disposizione dei malcapitati ragazzi e autorizzarono Peppi a usare una sucalora, un tubo di gomma, per prelevare un po’ di benzina dal serbatoio delle loro auto. Così facendo, a forza di succhiare in tre o quattro serbatoi, riuscirono a raccogliere la benzina sufficiente per raggiungere Salaparuta e far passare qualche ora a Peppe con la sua fidanzata, con immenso piacere anche di tutti i suoi amici.
Johnny, durante una festa in piazza alla quale era presente anche Pippo Baudo, fu chiamato sul palco, dove il Pippo nazionale lo fece esibire in alcuni giochi. Johnny, in quell’occasione, si rivelò un vero showman e fu lo stesso Baudo a consigliargli d’intraprendere la carriera artistica. Cosa che, però, non fece, anche se nel vivere quotidiano si è sempre comportato come se si trovasse a recitare un copione su di un palco, il palco della vita di shakespeariana memoria. Johnny fece diversi tentativi di formare un complesso andati tutti a vuoto.
Visto che per un motivo o per un altro non riusciva mai a trovare una sintesi musicale, decise di continuare da solo. Si specializzò nel repertorio degli anni ’60 che cantava accompagnandosi da solo con la chitarra. Inventò, poi, un genere tutto suo. In pratica prendeva le più note ballate siciliane e le arrangiava a ritmo di blues. Compose, nel frattempo, dei brani che si rifacevano alla cultura folcloristica siciliana con testi sia in italiano sia in dialetto con i quali, ancora oggi, intrattiene gli amici o i turisti di passaggio a Selinunte, riscuotendo sempre un enorme successo. Mitico Johnny.
Presso il ristorante “Nettuno” di Tre Fontane, di proprietà di Simone Agola, organista dell’Orchestra “2000”, lo stesso organizzò, nell’estate del 1972, un festival di cantanti e complessi. Suonava, naturalmente, la “Duemila”. Vinse allora Enrico Maggio, chitarrista-cantante di Campobello che, in seguito, si trasferì in Svizzera. Fu in quell’occasione che fui notato dai componenti i “2000”.
Successe che fra i partecipanti c’era anche Anna Maria Prinzivalli, però da solista e con lo stesso brano, “Montagne Verdi”, che aveva presentato al “Gonfalone d’oro”. Agola non conosceva il brano e si trovò in difficoltà per accompagnarglielo. A quel punto, con la mia solita faccia tosta e visto che invece il brano lo conoscevo bene, mi feci avanti e dissi che, se volevano, potevo sedermi io all’organo.
Così, dopo una breve prova, decisero che ad accompagnare “Montagne Verdi” alla ragazza sarei stato io. Quella primissima esperienza con i “2000” fece da volano a un sodalizio che, a partire dall’anno successivo, durò per ben dieci anni. Coi “Jolly ‘70” partecipammo, in quell’anno, nuovamente al “Gonfalone d’Oro” svoltosi questa volta presso il “Circolo Gioventù” di Castelvetrano. Anna Maria, purtroppo, quell’anno non vi ha potuto partecipare, poiché impegnata per un’audizione a Milano. Per fortuna avevamo Nino Catalano che cantava bene e con lui alla voce presentammo un brano in inglese dei Creedence Clearwater Revival, “Have you ever seen the rain”, che ascoltammo, poi, in differita alla radio con profonda commozione.
Ci furono, intanto, dei cambi nel gruppo dei “Figli del Sole”: Antonio Vivona alla chitarra elettrica e hawaiana, Franco Triolo alla batteria, Giovanna Triolo all’organo, Vannino Triolo al sax e clarino, Vincenzo Triolo alla fisarmonica Cordovox, Franco Morrione alla chitarra e Nino Nastasi al basso.
Ancora un complesso formatosi in quell’anno fu quello dei “Figli di Andromeda” composto da: Giovanni Calcara alle tastiere, Franco Puleo (Cicciu trasparenti per via della sua batteria con i tamburi in plexgas) alla batteria, Aldo Modica al basso, Vito Caime alla chitarra e, anche se in maniera discontinua, Francesco Cicciu Silistria al sax. Il gruppo rimase insieme per un paio d’anni.
Il batterista Filippo Giacalone, nel frattempo, insieme con Vincenzo Incerto (chitarrista - ma in quell’occasione al basso), andò a suonare con due musicisti di Salemi: Peppe Giammalvo alla chitarra e Ninni Bonura all’organo, con i quali misero su il complesso de “La Buona Novella”. Con questa formazione fecero un carnevale a Vita per tutte e quattro le serate, dal sabato al martedì. Il fatto fu che avevano al loro seguito un bel gruppo d’aficionados, affezionati che li seguivano ovunque essi andassero a suonare.
Uno di questi era Gaspare Aspanò, il cameriere. Questi era il re degli “scavallisti”. Non c’era matrimonio ch’egli non andasse a mangiare e ad ascoltare musica a sbafo. Era amico di tutti i musicisti ed era diventato oramai un’icona dello “scavallo”. Fenomeno assai diffuso lo scavallismo, allora diventato di moda, tanto che nessuno si lamentava per la presenza alle loro feste private di persone estranee.
Per i ragazzi della “Buona Novella”, dopo avere suonato per tutte e quattro le serate di carnevale con tutto l’impegno e la fatica che solo chi ha fatto simili esperienze può capire, era arrivata l’ora della meritata ricompensa. Essa consisteva in una somma di denaro utile per pagare le cambiali per l’acquisto degli strumenti, se no dovevano intervenire i rispettivi genitori che avevano garantito per loro.
Ebbene, quando sono andati a battere cassa, il comitato presentò loro un conto così lungo e salato che non bastarono i soldi che avevano guadagnato per pagarlo. In pratica tutti gli amici al seguito erano andati a consumare al bar dicendo di mettere in conto al complesso. Così, per quella volta, tutta la loro fatica risultò vana.
Alla fine del carnevale furono contattati da un signore che propose loro una collaborazione per la realizzazione di un’opera rock. Si misero d’accordo per vedersi una sera a casa di questo “pigmalione” o “mecenate” che dir si voglia, per discutere del progetto. Giunti all’appuntamento in una casa di campagna alla periferia di Vita, trovarono la tavola imbandita per una bella cenetta fra amici, dove però al posto dei tovaglioli c’erano dei rotoli di carta igienica, (cosa che li impressionò non poco, visto che ancora adesso se ne ricordano).
Alla fine, e non certo per la carta igienica, di quel progetto non se ne fece nulla. Per i ragazzi si sarebbe trattato d’un impegno troppo gravoso sia per le loro tasche vuote sia per il tempo che ci sarebbe voluto per la sua messa in opera. Non si seppe nemmeno se questa “fantomatica” opera rock fu realizzata, palesandone una sua non veritiera esistenza.
Più avanti, al posto di Ninni Bonura, entrò nel complesso de “La Buona Novella” il nostro Biagio Gino Sciortino con il quale furono contattati per delle serate di carnevale a Palazzo Adriano. Essendo sprovvisti di furgone lo chiesero in prestito agli “Asteroidi”.
Lungo la strada, però, non avendo chiuso bene lo sportello posteriore, questo si aprì, causando la fuoriuscita di buona parte degli strumenti, nonché d’alcune casse di liquore che i ragazzi avevano pensato bene di portarsi dietro per sostenere meglio le fatica delle sei serate di carnevale (dovevano suonare dal giovedì grasso fino al sabato per il carnevalone). Il liquore, riversandosi sull’asfalto della strada, formò un ruscello di alcool, dove gli strumenti scivolavano. Il traffico si bloccò e dovette passare un bel po’ di tempo prima che tutto fu rimesso a posto. Quel giorno con loro c’era pure Giulio Cavarretta amante della musica, ma non musicista.
Giunti a Palazzo Adriano furono accolti festosamente dagli astanti poiché, leggendo la scritta sul furgone “Asteroidi”, li scambiarono per il complesso che l’anno precedente si era distinto, con la canzone “Diana”, risultando il vincitore d’un concorso canoro lì organizzato. Anche la “Buona Novella” vi aveva partecipato con il brano “Fortuna”, ma evidentemente gli “Asteroidi” avevano meritato maggior successo.
Diverse furono le richieste d’autografo ricevute e gl’inviti a cena prima di cominciare le serate di carnevale. Giulio Cavarretta, anche se non sapeva suonare, si era ugualmente portato dietro una chitarra elettrica con lo scopo di rimanere sul palco, insieme ai suoi amici musicisti, facendo solo finta di suonare. Visto che la sua chitarra aveva soltanto una corda e non era attaccata ad alcun amplificatore, a Giulio non rimase altro che creare un po’ di scena muovendosi sul palco più degli altri. Egli fece credere che le note che uscivano dalla chitarra, suonata da Vincenzo Incerto, stesse suonandole lui con la sua.
A un certo punto il bassista Salvatore Rappa, detto “Re di Babilonia”, (possedeva un chitarra Gibson Les Paul suonata, però, da Enzo Incerto), chiese a Gino Sciortino se la tonalità del prossimo brano in programma fosse in do maggiore o in do minore. Gino rispose do minore, ma s’intromise fra i due Giulio Cavarretta, anche se a lui non importava proprio un bel fico secco della tonalità, e riferì al bassista: “do maggiore”. Salvatore gli fece notare che lui aveva sentito do minore e ripeté la domanda a Gino il quale confermò do minore.
A quel punto Salvatore disse a Giulio:“Hai visto che è in do minore?”. Giulio, però, ribadì: “No! E’ in do maggiore”. Al che Salvatore chiese a Giulio: “Ma perché do maggiore se è in do minore?”. Giulio, candidamente, rispose: “Picchì dunni maggiori c’è, minori cessa”. Il brano, comunque, riuscì bene ugualmente e un signore, che si era goduta tutta la “performance” da vicino, si complimentò con Giulio per l’ottima esecuzione del pezzo, ma ancor più per la sua personale interpretazione. Giulio si prese tutti i complimenti al posto dei ragazzi o, meglio, al posto del vero chitarrista Vincenzo Incerto.
Quando, però, quel signore gli fece notare che l’unica cosa che non era andata proprio alla perfezione era stato un accordo minore suonato maggiore, (il brano, per la cronaca, era “Moon Flower” di Carlos Santana, palesemente in tonalità minore), Giulio s’incazzò e cominciò a inveire contro quell’occasionale fan, asserendo che lui aveva suonato nei migliori teatri d’Italia. Lo rimproverò, quindi, aspramente e lo minacciò dicendogli di non permettersi più di fare appunti a un maestro di cotanta fama, lasciando incredulo il malcapitato signore.
Intervenne anche Gino che, incalzando la dose, si rivolse allo stesso dicendo: “Ma lei come si permette a giudicare il nostro maestro che ha suonato anche alla Scala di Milano?”. Al che il signore, affranto dichiarò: “Ma chi fuvi pazzu a parlari, un mi putia fari li …….me?” “Sono stato un pazzo a parlare, sarebbe stato meglio farmi i …….miei?”.
Una bella mattina di primavera di quell’anno Lillo Aspanò, insieme a Enzo Chiofalo futuro cognato di Pino Adorno, decisero d’andare a trovare Pino e Renato che suonavano col loro complesso, i “Visconti”, a S. Ninfa. Per raggiungerli utilizzarono una vespa di proprietà di Enzo, fedeli alla tradizione e alla loro fama, specialmente di Lillo, di professionisti sfegatati dello scavallo.
Durante la loro passiva partecipazione alla festa, s’accorsero che due ragazze li avevano ammiccati e invitati a seguirle. Naturalmente non ci pensarono due volte e le seguirono. Esse, però, a un certo punto s’introdussero all’interno d’una macelleria. Ai nostri due baldanzosi eroi non rimase altro che tornarsene in sala a mani vuote.
S’accorsero, però, d’essere seguiti, a loro volta, da due energumeni che, prima a passo veloce, poi, di corsa li raggiunsero cominciando a malmenarli utilizzando anche dei rami d’albero divelti all’occorrenza. Enzo e Lillo non capivano cosa stesse succedendo. Non avevano fatto nulla di male e, quindi, non hanno reagito cercando solamente d’evitare d’essere colpiti dai tremendi colpi che assestavano i due.
In quel mentre, passò di lì su un’altra vespa, Johnny, che aveva avuto la stessa idea d’andare a trovare i suoi amici dei “Visconti”. Enzo e Lillo pensarono che stessero per arrivare i rinforzi, ma non fu così. Il pavido Johnny, intuendo quel che stava succedendo e avendo paura d’essere coinvolto, pensò bene di tirare dritto, facendo finta di non accorgersi dei suoi amici, lasciandoli increduli e affranti. Fra un colpo e l’altro, uno dei due attaccabrighe disse: “E ringraziati chi unn’appartinianu a niatri” “Ringraziate (il Signore) che le (ragazze) non appartenevano a noi”.
Capirono, allora, che il tutto stava succedendo per colpa delle due ragazze che s’erano prese gioco di loro rivolgendosi ai proprietari la macelleria per essere difese dai due importuni. Per evitare ulteriori questioni, decisero di chiedere scusa, chiudendo la questione in modo amichevole. Ritornando in sala, però, volevano rendere la pariglia al loro amico Johnny. Sappiamo benissimo, comunque, come vanno a finire queste cose: tante risate, abbracci, tarallucci e vino.
Sempre nel 1972 si formò un nuovo gruppo musicale composto da ragazzini tra cui: Ignazio Graziano alla chitarra solista, Gabriele Mastrantonio alla chitarra ritmica, Giuseppe Dilluvio alla batteria, Salvatore Ficili alla tastiera, Giuseppe (Baldo) Nilo all’organo con il quale utilizzava anche i bassi pedale, e il cantante Giuseppe D’Alberti, purtroppo deceduto nel 1980, la cui somiglianza con Lucio Battisti era davvero impressionante.
C’era, poi, Franco Dilluvio, fratello di Peppe che non suonava, ma che, essendo più grande d’età, coordinava i ragazzi con suggerimenti e tutto ciò che potesse risultare utile per un loro progressivo inserimento nel mondo della musica professionistica a Castelvetrano. Al gruppo hanno dato il nome di “U.F.O.”, acronimo di Unidentified Flying Object (Oggetti Volanti non Identificati), in quanto personalmente si sentivano proprio degli oggetti, musicalmente parlando, non ancora conosciuti, quindi, non identificati.
I ragazzi avevano cominciato a suonare con molto entusiasmo presso la chiesa dei Cappuccini di Castelvetrano per animare la “messa beat”. Essendo giunti, però, in ritardo rispetto ai tempi in quanto già nel ’72 questo fenomeno andò fuori moda, ebbero solo il tempo di suonare a una messa che già, dalla prossima domenica, non se ne fece più nulla.
Si rivolsero, quindi, all’esterno anche per farsi conoscere. Il primo grande impegno fu l’anno successivo a Triscina, dove suonarono tutte le sere e per l’intera stagione estiva presso la casa privata della famiglia Rizzo, di fronte il “Lido Castelletti”.
Spendo due parole per questo molto singolare personaggio castelvetranese, amico di tutti, oggi deceduto. Il vero nome di Castelletti era Giuseppe Vaiana ed era monco del braccio destro. Questa sua menomazione, però, lo rendeva ancora più simpatico in quanto lui ci scherzava sopra. Aprì a Triscina dapprima il già menzionato omonimo “Lido”, poi il ristorante “La tana del lupo”, molto caratteristico e frequentato da tanti suoi amici ed estimatori.
I Rizzo possedevano a Triscina una casa con una spaziosa veranda, dove confluivano tante persone che si divertivano a passare le serate sotto la luna, le stelle, accarezzati dal mare e dalla buona musica degli “U.F.O.”. A quel tempo, partendo dall’incrocio e rivolgendo lo sguardo verso sinistra fino alla “Stella Marina”, meglio noto come “Bar la bionda” per via delle tre figlie del proprietario Ingrasciotta, tutte bionde, il territorio era discretamente abitato. Se, invece, si guardava dall’altra parte era tutta una distesa sabbiosa da farlo sembrare un deserto. Oggi sappiamo, grazie o per colpa dell’abusivismo, che Triscina è additata come la borgata più abusiva d’Italia.
Per il trasporto degli strumenti i ragazzi si servirono anche della carrozza col cavallo di Cannata, “gnuri”, che sostava insieme agli altri nella locale piazza della stazione. La carrozza, oltretutto, era comoda in quanto i ragazzi s’aggrappavano posteriormente alla stessa e solo uno di essi si metteva davanti per badare che gli strumenti non cascassero a terra.
Il compenso, per le fatiche che dovevano sostenere i cinque rampanti musicisti, consisteva in una raccolta, effettuata dal comitato organizzatore tramite delle offerte che i convenuti depositavano in alcuni piattini che il comitato faceva girare. Inoltre, nelle serate in cui i pescatori andavano a buttare le reti in mare, era d’obbligo, da parte del comitato, organizzare una bella sbafata o abbuffata di sarde arrostite offerte agli orchestrali e alle loro famiglie.
Tutto il ricavato dei vari impegni fatti durante la stagione estiva, anche di qualche matrimonio, servì per acquistare l’impianto d’amplificazione marca “Stelphon” che regalarono al loro mentore padre Agostino per la chiesa dei Cappuccini.
Ancora un altro complesso che si formò in quell’anno fu quello degli “Alpha 4”. Era formato da: Gaspare Spanò (da non confondere con Aspanò, il cameriere) alla batteria, Filippo Pizzo al basso, Lillo Scarpinati alle tastiere, Paolo Passanante alla chitarra solista, Gino Sciacca alla chitarra accompagnamento e Piero Callaci come voce solista.
A un matrimonio presso la sala “Samantha” di Partanna dopo che, come di consueto, erano stati letti i telegrammi pervenuti in augurio agli sposi e annunciati gli eventuali regali in denaro o in busta, s’avvicinò al complesso il padre della sposa che chiese ai ragazzi d’annunciare un ulteriore regalo di centomila lire per gli sposi da parte sua. Cosa che i ragazzi, con molta enfasi seguita da scroscianti applausi, fecero. Dopo un po’ s’avvicinò anche il padre dello sposo che chiese ai ragazzi d’annunciare al microfono che anche lui faceva un ulteriore regalo agli sposi di centocinquantamila lire. Nuovamente i ragazzi fecero l’annuncio con la solita enfasi seguito da una vera e propria standing ovation. Sembrava che tutto stesse filando liscio. La gente ballava e si divertiva.
Qualcosa, però, serpeggiava in sala. In pratica l’iniziativa del padre della sposa non era stata ben accolta dal consuocero ch’era stato costretto a fare la sua parte. A sua volta nemmeno il padre della sposa aveva gradito il fatto che il consuocero avesse alzato la quota del regalo, avrebbe potuto benissimo offrire anch’egli la stessa somma. Ne generò una discussione fra i due consuoceri che, ben presto, si estese a tutte e due le famiglie e che degenerò, infine, in una rissa che a sua volta coinvolse un po’ tutti gl’invitati, poiché ciascuno si schierò con la famiglia d'appartenenza parentale.
Ai ragazzi non rimase altro che smontare in tutta fretta gli strumenti e andar via al più presto possibile prima che potessero essere coinvolti, loro malgrado, in qualcosa che non gli apparteneva. Gaspare ricorda che il proprietario del locale li pregò d’aiutarlo a recuperare le sedie pieghevoli che, fra l’altro, non erano sue, poiché avute in prestito.
A un altro matrimonio alla sala “Moka” di Campobello di Mazara, mentre montavano gli strumenti, arrivò un giovane che si offrì d’aiutarli se in cambio gli avessero permesso di farlo rimanere insieme con loro, in pieno stile scavallista. I ragazzi del gruppo non fecero opposizione, ma quando più tardi arrivarono gl’invitati, s’avvicinò al tavolo del complesso il fratello della fidanzata che chiese al giovane scavallista di lasciare la sala e pretese anche delle spiegazioni dai ragazzi per quella presenza non autorizzata. I ragazzi raccontarono com'erano andati i fatti, scusandosi se si erano fatti convincere da quel giovane a restare, ma lo scavallismo oramai era una prassi consolidata in quasi tutti i matrimoni, un fenomeno diventato oramai di costume, quindi confidavano su questa, chiamiamola così, moda.
L’allontanamento, in effetti, non era stato chiesto per la semplice questione dello scavallismo, ma per il fatto che quel giovane era stato un precedente fidanzato della sposa. Evidentemente la sua presenza avrebbe potuto turbare la festa, non sapendo fra l’altro le sue reali intenzioni. L’ex fidanzato, a ogni buon conto, con volle alzarsi e, ostinatamente, pretese di rimanere. Ci sono volute le maniere forti per allontanarlo.
Dopo un po’ arrivarono gli sposi. Già dalla marcia nuziale i ragazzi del complesso s’accorsero che lo sposo era tutto malandato con visibili segni sul viso. Pensarono che il vecchio fidanzato e il nuovo, oramai marito, se le fossero date di santa ragione. Anche questa volta, però, si erano sbagliati. Infatti, alla fine del matrimonio, quando lo sposo andò a salutarli, si scusò con loro per il suo aspetto, ma si era sposato con la “Rosolia” addosso e la febbre a quaranta.
Ecco spiegati quei segni sul viso e il suo abbattimento generale. Gaspare, scherzosamente disse: “Allora per stasera niente jus prime noctis?”. Una bella risata e per quella volta tutto andò per il meglio, tranne naturalmente per il fidanzato rifiutato.
Verso la fine di quell’anno sono stato contattato dai componenti il gruppo “Il folle procedimento” di S. Ninfa. Ne facevano parte: Benedetto Augello, detto “lu attu” “Il gatto”, al basso, Matteo Ferreri alla chitarra e Saverio Li Causi alla batteria, tutti di S. Ninfa. Mi proposero di unirmi a loro. Decisi, così, di lasciare i “Jolly ‘70” e di passare con “Il folle procedimento”. Vi rimasi per circa un anno e con essi ho fatto il mio terzo carnevale, a Partanna.