Nel ricordo de “I Supersonici”, “Idea 2001" e "l'Orchestra 2000" e non solo
del 2014-10-27
Dopo avere raccontato la storia dei complessi castelvetranesi nell’era pre-Beatles e nell’era Beatles, non ci rimane che avviarci verso la fine di questo lungo, ma credo interessante e coinvolgente, viaggio raccontando quella nell’era post-Beatles.
ANNI 1973-1976.
L’anno 1973 è quello in cui, forse prematuramente poiché avevo soltanto diciannove anni, decisi di sposarmi. Ero convinto, e lo sono ancora, d’aver trovato la compagna ideale per poterci stare assieme tutta la vita. Credo di non essermi sbagliato, visto che da allora viviamo serenamente ancora insieme.
Dopo le esperienze fatte sia con i “Jolly ‘70” e con il “Folle Procedimento” sia con un quartetto di Castelvetrano, senza un nome preciso, formato, oltre che da me all’organo, da Franco Morrione alla chitarra, Vincenzo Scarpinati al basso, Massimo Trapani alla batteria e voce solista, accolsi la richiesta d’entrare a far parte d‘un gruppo di Gibellina, “La giovane età”.
Questo nome si riferiva proprio alla giovane età dei suoi componenti. Esso era formato da: Antonio Vivona alla chitarra, Rosario Fontana al basso oggi sindaco della città, Rocco Bonura alla batteria e Pippo Ferrara voce solista, tutti di Gibellina.
Con gli amici de “La giovane età” ho suonato per brevissimo tempo, soltanto pochi mesi, poiché nel mese di dicembre dello stesso anno mi vollero il gruppo che in quel periodo era il più quotato nella zona, il “Complesso 2000”. La formazione, quando vi entrai, era così composta: i tre fratelli campobellesi, Vito, Nello e Mario Giammarinaro, Pino Adorno e Tina Di Maio, moglie di Vito, ambedue di Castelvetrano. Con loro ho davvero imparato il mestiere che mi è servito per gestire quarant’anni d’attività musicale da professionista.
In quell’anno il cavaliere del lavoro Santo Savarino entrò a far parte del mondo della musica in qualità di manager. Acquistò tutta la strumentazione musicale necessaria non a un complesso, ma a due gruppi diversi per svolgere questo tipo d’attività e la mise a disposizione di chi non poteva permettersene l’acquisto. Naturalmente, poi, quando i due complessi avrebbero iniziato a prendere degli impegni di lavoro, lui avrebbe percepito le quote a lui spettanti in quanto impresario e contractor.
Come studio musicale mise a disposizione i suoi locali di via Gioberti, dove in seguito fu aperto il ristorante “La Lanterna” di Carmelo Catalano e il garage sotto casa sua, sita in via Varese, dove fino a qualche tempo fa c’era il ristorante “Falso Pepe”. Ai due complessi fu dato il nome di “S.S. & Company”, dove l’acronimo S.S. stava per Santo Savarino, da non confondere con le due Sowilo affiancate, abbreviazione di Schutzstaffel, le “squadre di protezione” dell’era fascista.
Fecero parte di una delle due formazioni: Giovanni Calcara all’organo, Franco Puleo alla batteria, Franco Morrione alla chitarra, Aldo Modica al basso. L’altra, invece, era composta da: Mario Lipari alla batteria, Nino Catalano alla chitarra e voce, Giovanni Patti al basso e voce, Giancarlo maggiore all’organo e Peppe Asta al sax. Quando andavano a suonare il cavaliere Savarino li seguiva e faceva loro anche d’autista, poiché il mezzo con il quale trasportavano gli strumenti, un furgoncino Volkswagen T 2 Westfalia, era di sua proprietà. Ritornavano tardi la sera, in orario notturno, stanchi e un po’ brilli in quanto non si suonava mai per lavoro, ma per passione e puro divertimento.
Una notte, rientrati molto tardi, durante le manovre per entrare il furgone nel garage, il cavaliere Savarino non calcolò bene la distanza e divelse il portone d’ingresso dello stesso che cadde rovinosamente sopra il mezzo.
Un giorno, impegnati per un matrimonio d’una coppia di vecchietti ed essendo giunti presto alla sala, il primo gruppo degli “S.S. e Company”, finito di montare gli strumenti, pensarono d’approfittarne per andare a fare shopping. Proprio, però, per il fatto che la coppia non era più giovane e, quindi, non con particolari pretese d’immortalare la loro unione con servizi fotografici fuori sede e in posti, fotograficamente parlando, più adatti per l’occasione, finita la cerimonia nuziale, si recarono subito in sala.
Qui i camerieri li informarono che i ragazzi del complesso si erano momentaneamente assentati. Successe che i vecchietti furono costretti a girare intorno per il corso di Castelvetrano passando ogni giro dalla sala. Dovettero fare un bel po’ di giri prima di trovare, finalmente, i ragazzi al loro posto per poterli accogliere con il consueto ballo a loro riservato.
Il secondo gruppo rimase con il cavaliere per almeno due anni. Alcuni di loro, poi, per i motivi più diversi decisero di lasciare l’attività musicale per dedicarsi esclusivamente chi allo studio come Mario Lipari, Nino Catalano e Giancarlo Maggiore, chi all’attività lavorativa come Giovanni Patti.
Con Mario Lipari, nel frattempo abbiamo partecipato, con la vecchia formazione dei “Riflessi” a un festival di complessi che si tenne a Menfi presso il cine “Signorino”. Presentammo il brano “Sguardo verso il cielo” del famoso gruppo rock delle “Orme”. In quell’occasione vinsero i “Borgo Mellusio”, un gruppo locale nel quale alla chitarra c’era il mio grandissimo amico e compagno di liceo, Ninni Ruggeri, eccezionale chitarrista di Menfi.
Mio dolce carissimo amico te ne sei andato quando la vita cominciava a sorriderti. Il tuo corpo in fondo a un viadotto grida ancora perché. Conservo una tua poesia, “Quando, quando, quando”, nella quale ti rivedo, angelo biondo, in mezzo al niente che ci circonda. La tua inseparabile chitarra Eko a dodici corde tua madre l’ha voluta regalare a me, a Mario Lipari e a Giacomo Salluzzo quando, qualche giorno dopo quella tremenda disgrazia in cui ti abbiamo perso per sempre, siamo andati a trovarla per darle un po’ di conforto. Ti avevo sognato la notte precedente e tu mi avevi fatto compagnia per tutta la notte. Lo raccontai a tua madre e lei provò tanto sollievo a sentire le mie accorate parole. Riposa nella pace del cielo.
Un successivo gruppo che suonò nella “S.S. & Company” fu quello formato da: Nino Nastasi al basso, Paolo Passanante alla chitarra, Massimo Trapani alla batteria e Giovanna Triolo all’organo e voce. Uno degli impegni che fecero fu quello del figlio del cavaliere, Vincenzo, che sposò Anna Morici, figlia di uno dei fratelli “Morici Mobili” molto conosciuti e stimati a Castelvetrano. La festa di matrimonio si tenne presso la sala “Moulin Rouge” a Campobello di Mazara.
Un particolare da ricordare fu quando, entrando gli sposi in sala e prima che il complesso intonasse il brano d’ingresso a loro dedicato, il cavaliere Savarino, visibilmente emozionato, per volere esternare la sua soddisfazione a vedere sposato il figlio, disse al microfono: “Un apprauso a li colompi”, frase che ha ripetuto più volte durante tutta la cerimonia. I ragazzi, poi, simpaticamente andarono ripetendo lo stesso augurio ogni volta che avevano voglia di sorridere un po’. Il cavaliere Savarino fu uno dei soci fondatori dell’“Arena delle Palme”, che diventò in seguito “Teatro Palme”.
Un gruppo che non era prettamente castelvetranese, ma nel quale suonavano elementi di Castelvetrano fu quello de “I Supersonici” di Partanna. Esso era formato da: il partannese Filippo Li Causi, detto “paracuasi” in quanto il padre faceva il sarto, alla tromba e leader del gruppo con Giovanni Vannino Triolo, sassofonista castelvetranese. L’altro castelvetranese era Renzo Russo, bravissimo batterista deceduto prematuramente. C’erano, poi, i tre partannesi: Vincenzo Lo Porto alle tastiere, Franco Bartolone al basso e voce, purtroppo anche lui deceduto prematuramente, e il grande Piero Giambruno alla chitarra. I “Supersonici” durarono a lungo e furono il punto di riferimento di tutta l’attività musicale partannese.
In momenti diversi della loro carriera si rivolsero, opportunamente, ad altri elementi per lo più di Castelvetrano quali: il chitarrista Vincenzo Incerto, il pianista Nicola Mangiaracina e, per la verità, anch’io li ho favoriti anche se per un breve periodo.
Abbiamo visto nel precedente articolo, quella che ho chiamato l’allegra compagnia con Lillo Aspanò, Peppe Ancona funcia, Rocco Rallo Johnny, Giorgio Kovaceff e qualcun’altro del “branco”, raccontando qualche aneddoto che li ha riguardati. Ricorderete la sortita a Sambuca, dove hanno rischiato di prenderle di santa ragione.
Bene, essi ritornarono in quel paesino di montagna, l’anno successivo, sempre alla continua ricerca di come impiegare il tempo libero divertendosi alle spalle della gente credulona. Per raggiungere Sambuca utilizzarono, quella volta, il Fiat 238 degli “Asteroidi”. Ivi giunti improvvisarono un concertino in piazza. Per dare un po’ di tono alla loro performance, si unsero la faccia con un prodotto vegetale di colore nero improvvisandosi cantanti afro-americani.
Il repertorio di canzoni che proposero era fatto, al solito, di brani cantati in finto inglese con Johnny che accompagnava alla chitarra tirandosi dietro gli altri, per così dire, cantanti. Attirarono un sacco di gente che, benevolmente, mise qualche monetina nel cappello che avevano sistemato ai loro piedi.
In questi casi, però, quasi sempre succede l’imprevedibile. Un giovanotto riconobbe in uno dei finti negri il suo amico Peppi funcia e, avvicinandosi, lo chiamò a gran voce: “Peppi fuuuuuuncia!!!!”. A quel punto i nostri artisti di strada furono costretti a darsela a gambe lasciando, fra l'altro, lì per terra il frutto del loro sudato lavoro. Anche se per quella volta andò male, non si persero d’animo e continuarono, imperterriti, con le loro scorribande artistiche, sempre all’insegna della più sfrenata spensieratezza.
Sempre nel 1973, dopo alcune piccole esperienze a livello embrionale, un gruppo di ragazzini decisero, anche loro, di dare vita a un complesso musicale. Lo chiamarono “Idea 2001” e cominciano a farsi sentire in giro. Ne fecero parte: Franco Calcara all’organo, i fratelli Vincenzo e Giuseppe Salvo rispettivamente al basso e alla batteria, Renato Garifo alla chitarra, in seguito passato al basso, Felice Ciaccio anche lui alla chitarra, (purtroppo deceduto alcuni anni addietro, a Triscina, per un banalissimo incidente occorsogli con la corrente elettrica), Paolo Ingrasciotta, anch’egli deceduto, al trombone a tiro e Pietro La Cascia voce solista.
La prima chitarra a Garifo gliela fabbricò il cugino Giovanni Curiale, batterista, e falegname ebanista, leader dei “Jolly ‘70”. Calcara, invece, aveva imparato i primi rudimenti della tastiera su un organo, marca Bontempi, di appena due ottave. Cominciarono a provare in una vecchia casa di proprietà di Franco Calcara in zona Beati Morti. Si trasferirono, poi, all’interno d’un garage, attrezzato poi a studio musicale, di proprietà Ingrasciotta, di fronte l’allora scuola elementare “Benedetto Croce, sempre nella stessa zona.
Lu ‘zu Paolo mise anche a disposizione del complesso il suo impianto d’amplificazione e, sapendo suonare bene anche la batteria, diede delle lezioni a Giuseppe Salvo, specialmente per quanto riguardava i ritmi sud-americani. Forte della sua esperienza, cercò di dare ai ragazzi quei consigli che risultarono, poi, molto utili nel prosieguo della loro carriera artistico-musicale. Spiegò loro ch’era preferibile, in ogni occasione, suonare piano e mai eccedere col volume. Spiegò anche che, quando si andava a suonare, bisognava eseguire i brani che la gente gradiva maggiormente e che richiedeva.
Il repertorio doveva essere composto di quei brani che la gente s’aspettava d’ascoltare. Non bisognava mai soddisfare le proprie esigenze con musiche che, magari, gratificassero molto di più i musicisti, ma alle quali la gente non era interessata. Mai suonare, quindi, egoisticamente per il proprio piacere. Essi subentrarono, poi, ai miei “Riflessi” per quanto riguardava la gestione della messa beat nella chiesa di S. Francesco di Paola. Il loro primo carnevale lo fecero presso i magazzini-frutta di Li Causi, siti nella via Partanna e oggi sede di una sala giochi. Alla fine di tutte e quattro le serate furono ricompensati con casse di frutta.
Durante una serata di carnevale, fatta all’interno d’una baracca della terremotata Poggioreale per conto del locale Circolo Einaudi, fra un brano e l’altro e quando non doveva servirsene, lu ‘zu Paulu aveva l’abitudine d’appoggiare il suo trombone sulla testata dell’amplificatore della chitarra di Renato. Essendo questa, però, una vecchia testata valvolare, riscaldava notevolmente. Per questo motivo c’era montata una piccola griglia d’aerazione che permetteva la fuoriuscita del calore in eccesso. Ingrasciotta, quella sera, appoggiò inavvertitamente il trombone proprio su quella griglia permettendo, involontariamente, che il bocchino di metallo si surriscaldasse.
Quando, poi, egli riprese lo strumento e lo portò alle labbra per suonare il prossimo brano in programma, si bruciò gettando d’istinto il trombone per aria che rimase integro soltanto per un puro caso. Le labbra del malcapitato zio Paolo si gonfiarono talmente da non permettergli più di suonare per tutta la serata. Da precisare che per raggiungere Poggioreale utilizzavano il pullman che partiva da Castelvetrano nel primo pomeriggio. Quando, poi, finivano di suonare a notte inoltrata, non essendoci mezzi a quell’ora per fare ritorno alle loro case, erano costretti a trascorrere alcune ore all’addiaccio ad aspettare il primo pullman di ritorno delle sei e trenta. Si può ben capire che cosa si era disposti a fare pur di provare quelle sensazioni che solo la musica può regalare.
Un altro episodio che mi è stato raccontato è stato quando, dopo una lunga serata di prove per un importante impegno ch’era stato preso a Triscina in occasione del “Festival dell’Avanti”, consumarono alcune bottiglie di birra che lu ‘zu Paolo teneva in garage. Avendo alzato un po’ il gomito e per il piacere di trascorrere ancora un po’ di tempo assieme, pensarono di farsi un giro con la macchina di Piero La Cascia, una Fiat 124. Vi si sistemarono tutti all’interno ed, euforici, cominciarono a scorazzare per le vie di Castelvetrano, cantando e suonando.
Paolo Ingrasciotta, che aveva portato con sé il suo trombone a tiro ed essendo seduto davanti a fianco dell’autista, ha abbassato il finestrino per suonare il trombone facendo uscire la culisse dallo stesso. Nell’abbordare, però, in modo spericolato una curva, la culisse andò a sbattere violentemente contro una macchina parcheggiata nei pressi causando, per il forte impatto, un ematoma labiale al mitico ‘zu Paolo. Il gruppo si sciolse nel 1979 quando Franco Calcara prese il mio posto nell’“Orchestra 2000” dopo la mia partenza per Milano, dove avevo vinto un concorso d’amministrativo nella scuola. Con Franco mi lega un grande sentimento di profonda amicizia per il quale ci definiamo, da sempre, fratelli.
Ancora un gruppo musicale che si formò in quell’anno fu quello de “La Nuova Versione”. Ne fecero parte: Martino Grande che dalla chitarra passò al basso, Peppe Dilluvio alla batteria, in sostituzione di Peppe Grande, fratello di Martino, già batterista degli “Anonimi”, Dino Corso, voce solista (è, poi, emigrato in Svizzera) e il mazarese Nicola D’Aleo (dei Dioscuri) all’organo. Per un periodo suonò con loro anche il bravissimo Calogero Rapallo, meglio noto come Caliddu lu tedescu.
L’anno dopo ci furono dei cambiamenti nella formazione: Peppe Grande ritornò alla batteria, suo fratello Martino tornò alla chitarra non essendoci più Calogero (Caliddu) passato, a buon diritto, con gli “Asteroidi”, Salvatore Firenze, detto Don Preolo in quanto possedeva un appezzamento di terreno nel quale aveva piantato una vigna – in siciliano preola – della quale parlava in continuazione, onde Don Preolo, alla chitarra solista, Pippo Peppe Asta al sax e il campobellese Gaspare Federico all’organo.
Un giorno parteciparono a uno di quei tanti festival che s’organizzavano in quel periodo. Fu Simone Agola, organista dell’Orchestra 2000”, a organizzarne uno nel suo locale, “Lido Nettuno” di Tre Fontane, ancora oggi il più noto anche perché si trova nella centralissima piazza e, proprio quest’anno, devastato, purtroppo, da un incendio. Agola profittò del fatto che in quei giorni c’erano a villeggiare a Tre Fontane i ragazzi dei “Matia Bazar”, il cui bassista Aldo Stellita, poi prematuramente scomparso, era originario di Campobello.
Propose loro d’organizzare una serata invitando i complessi locali e, a chi vinceva, i “Matia Bazar”, già noti, li avrebbero aiutati per firmare un eventuale contratto discografico. Parteciparono, per invogliare gli altri gruppi, anche loro, però senza l’Antonella Ruggiero, che non si trovava a Tre Fontane. Si presentarono come “La maniglia d’ottone”. Parteciparono al festival una decina di complessi locali.
Il brano che avevano preparato i ragazzi della “Nuova Versione” era “Demond’s eyes” dei Deep Purple, in cui Peppe Asta aveva avuta affidata una parte fondamentale del pezzo. Quando fu, però, il loro turno, l’imprevedibile Peppe era scomparso dalle scene e a nulla valsero i ripetuti appelli. Dovettero, così, esibirsi senza di lui con un altro brano. Comunque andò benissimo lo stesso tanto che sarebbero dovuti risultare i primi, solo che, per galanteria artistica, la giuria fece vincere “La maniglia d’ottone”, cioè i “Matia Bazar” senza Matia (Antonella).
A ogni buon conto Aldo Stellita e i suoi amici proposero ai ragazzi un provino presso la Casa Discografica “La Marmotta” di Milano. I ragazzi, però, sia per le condizioni economiche non proprio fiorenti sia per la loro giovane età, non poterono accettare, perdendo anch’essi, come tanti o come tutti, l’opportunità che si era presentata. Peppe Asta, apparve in seguito da dietro delle sedie sulle quali si era adagiato, addormentandosi.
Andiamo adesso all’anno 1974. Da un’idea del mitico Johnny si formò il gruppo de “La Mannara”, composto in massima parte da batteristi e percussionisti tra cui: Renato Adorno, Lilly Rosolia, Filippo Giacalone e Gino Rizzo. Agli altri strumenti c’erano: Pino Adorno e Nicola Santangelo al basso e Vincenzo Incerto alla chitarra. Con loro un gruppo d’amici che facevano le coreografie, i cosiddetti ragazzi immagine che curavano i balletti e quant’altro. Essi erano: Peppi funcia, Gaspare Aspanò (Aspanu lu cammareri, scavallista) e Nicola Pizzitola.
Nello stesso anno Antonio Vivona, da sempre amante, oltre della musica, di elettronica, costruì (assemblato) un moog: un sintetizzatore di suoni che, sfruttando la miscelazione di frequenze tramite i generatori, produceva tutta una gamma di suoni particolari che erano accoppiati alla normale armonia e melodia nella cura degli arrangiamenti. L’inventore fu, nel 1973, un ingegnere americano, Robert Moog, pioniere per quanto riguarda l’applicazione dell’elettronica agli strumenti musicali e per il quale vinse, nel 2001, il premio Polar. E’ morto nell’anno 2005.
Un giorno Antonio, eravamo nell’anno 1975, venne a trovarmi alla sala “Le Mirage” di Castelvetrano, dove suonavo con l’Orchestra “2000”. Portò anche il suo moog e me lo fece provare. Era la prima volta che lo suonavo e la produzione di quei particolari suoni incuriosì tutti gl’invitati al matrimonio. Eseguii “Amore grande amore libero”, brano composto e suonato dal “Guardiano del Faro”, alias Federico Monti Arduini, presentato in televisione pochi giorni prima.
Posseggo un synt prodotto dalla Yamaha che non uso, ma che conservo gelosamente. Ho rivisto un moog in televisione al maxi concerto “LIVE 8 – 2005” di Bob Gerdof, suonato dal gruppo che accompagnava Madonna, nonché a uno special dedicato a Francesco De Andrè, sempre in quell’anno, suonato da un giovane musicista.
Pur avendo ampiamente parlato dei “Dioscuri” nei precedenti articoli, voglio raccontare un altro episodio occorso a Vito Messina Barazza durante una festa di piazza. Mentre stavano eseguendo un brano in cui a un certo punto tutti gli altri musicisti si fermavano e rimaneva solo lui con un lungo passaggio di batteria per, poi, ricominciare tutti insieme e continuare il brano, Vito dimenticò che toccava a lui e si fermò insieme a tutti gli altri. Ci fu un attimo di panico.
Nessuno suonava anche perché se Barazza non faceva quel passaggio difficilmente gli altri potevano rientrare nel brano. Vito quando si rese conto che tutti aspettavano lui, ma continuando a non ricordare che cosa dovesse fare, prese uno dei piatti della batteria, se lo mise in testa e, nell'intento di volere imitare un cinesino, cominciò ad andare su e giù per il palco. Così facendo la gente non s’accorse di nulla e lo applaudì pensando ch’era qualcosa d’originale che avevano provato prima.
In seguito Vito Messina, dopo aver vinto un concorso nelle Ferrovie dello Stato, lasciò i “Dioscuri” cedendo il suo posto a un altro fantasioso batterista, Peppe Romeo di Mazara, fratello del mio caro amico Salvino. I “Dioscuri”, nelle varie altre formazioni che si sono susseguite a ritmo frenetico, hanno continuato a orientare le loro scelte su altri musicisti castelvetranesi. Ricorderemo, quindi, oltre ai già citati sassofonista Vittorio De Simone proveniente dai castelvetranesi “Figli del Sole” e Vito Messina, le cantanti Anna Maria Prinzivalli dei “Jolly ‘70” e Giovanna Triolo dei “Russo”.
L’esigenza d’impegnare due cantanti donne nacque dalla voglia di dare una forte e incisiva impronta vocale al gruppo. Questa era una prerogativa fissa del responsabile Vito Calia il quale, resosi conto che il periodo in cui gli strumenti a fiato la facevano da padroni (R. & B.) era terminato, cercò altri sbocchi musicali. Il nuovo repertorio, quindi, era opportunamente forgiato anche sul genere gospel con i nuovi arrangiamenti dedicati alle cinque voci dei componenti il gruppo.
Altri castelvetranese che hanno lasciato la loro impronta nei “Dioscuri” sono stati: il chitarrista Bruno Musiari de “Le Ombre”, il già citato batterista Gino Rizzo del “Satelliti”, Calogero Rapallo Caliddu lu tedescu, che suonò con i “Dioscuri” durante il periodo di Gino Rizzo, il pianista Franco Calcara dei “2000”. Anche il cantante Nicola Noce fu sostituito da un suo collega molto bravo e dalla voce possente e rauca tipo i negri d’America o il nostro italianissimo Fausto Leali. Si chiamava Angelo Ditta, affermato cantante del gruppo “Gli Amici”, sempre di Mazara.
Nello stesso periodo, durante una serata di carnevale in cui i “Dioscuri” suonavano al “Zeus Hotel”, (già Jolly Hotel) di Castelvetrano, un vigile del fuoco componente del comitato, visto che quelle serate di carnevale erano state organizzate dai Vigili del Fuoco, venne a dare la bruttissima notizia che era successo un gravissimo incidente nell’autostrada Mazara-Palermo all’altezza delle gallerie sotto Salemi in cui aveva perso la vita Rizzo Luigi, cioè il grande, unico vero amico di tutti, Gino Rizzo.
Egli era appena rientrato da Milano ed era molto amato anche dai mazaresi. Con lui quel giorno c’era anche Giuseppe Ancona, Peppi funcia, che per fortuna non fece la stessa fine di Gino, ma che subì gravi traumi alcuni in parte risolti altri, quelli che non lasciano segni visibili, che non risolverà mai più. I ragazzi dei “Dioscuri” non furono più in grado di suonare e la serata si concluse così, lasciata in asso nel ricordo dell’amico Gino.
Nel frattempo il mio posto nel “Folle procedimento” era stato preso da Franco Calcara. Vi subentrò anche un altro castelvetranese alla batteria, Franco Triolo. Gli altri due rimasti del vecchio gruppo erano: Benedetto Augello e Matteo Ferreri.
Mi raccontano che durante un matrimonio, di giorno, che si svolse nella baracca della Sala Genco di S.Ninfa, (siamo ancora nel periodo post-terremoto), a un certo punto e prima del taglio della torta, la gente cominciò per il troppo caldo ad alzarsi e andar via. A quel punto, però, lo sposo, furente s’arrabbiò talmente che salì su un tavolo e si mise a imprecare, in maniera violenta e offensiva, verso tutti gl’invitati accusandoli che gli avevano, così facendo, rovinato la festa. La sposa svenne dalla vergogna e la festa finì così, in mala gloria. Quando, poi, lasciai anche “La giovane età”, fu sempre Calcara a sostituirmi.
In quell’anno a Palazzo Adriano, paese del centro terra siciliano molto noto anche perché vi furono girate, fra le altre, le scene del famoso film capolavoro di Giuseppe Tornatore, “Nuovo Cinema Paradiso”, si svolse un concorso canoro. Il nostro Vito Bua, bassista, peraltro papà di Giacomo Bua, uno dei più prestigiosi chitarristi dell’epoca moderna che abbiamo a Castelvetrano, in quel periodo lavorava, come infermiere professionista, presso l’ospedale locale.
Pensò di partecipare anche lui al concorso. Gli fecero compagnia: Vincenzo Incerto alla chitarra, Gino Sciortino all’organo e Gaspare Spanò alla batteria. Alla fine furono premiati riuscendo a imporsi sugli altri con un brano composto da Vincenzo Incerto: “Ragazza dai grandi occhi blu”. Per premio fu consegnata loro una bellissima coppa che, non potendo essere divisa fra tutti i musicisti, a buon rendere se la portò a casa Gino Sciortino che ancora conserva in bella vista nella sua stanza adibita a studio musicale.
Nel frattempo, Calogero Lilly Rosolia e Franco Ciccio Aramini degli “Asteroidi”, erano soliti ritrovarsi, insieme con amici del calibro di Gaspare Aiello, attorno a un tavolo del Circolo “Pirandello” per ingannare un po’ il tempo con una partitina a “briscola in cinque”. Spesso Gaspare chiudeva la ricerca del compagno chiamando il 2 (ultima carta per aggiudicarsi la chiamata). A quel giro toccò al due di ori, o “aremi”, come definiamo noi uno dei quattro semi del mazzo di carte siciliane.
Lilly sospettoso, però, s’accorse che Gaspare allungava un po’ il collo verso i due giocatori seduti al suo fianco e, aiutandosi con i suoi spessi occhiali da vista, sbirciava le carte degli altri permettendosi di controllare a suo favore la partita. Lilly, allora, ammonendolo, pronunciò la famosa frase: “Eh! Cocciu d’aremi?!”. Fu così che Gaspare si meritò questo grazioso appellativo con il quale è conosciuto, ancora oggi, a tutti i tantissimi suoi amici e colleghi di Castelvetrano.
Procediamo e giungiamo al 1976. In quell’anno la formazione dell’“Orchestra Duemila” vedeva: io all’organo, Renato Adorno alla batteria subentrato a Mario Giammarinaro, Vito Giammarinaro alla chitarra e sax, Natale Nello Giammarinaro alla chitarra e tromba, Vito Valenti al basso subentrato a Pino Adorno, e Tina Di Maio voce solista.
Spesso, nel periodo estivo e in collaborazione cu lu ‘zu Natali Curti , andavamo a suonare nelle feste di piazza paesane. Sovente insieme a noi c’erano dei cantanti o complessi famosi in quel periodo: dai Camaleonti a Gianni Nazzaro, da Miranda Martino al mitico Pippo Baudo. Ricordo, proprio col nostro Pippo nazionale, un episodio che credo valga la pena raccontare successo, però, l’anno precedente.
Avevamo raggiunto con grande fatica Sancono nel catanese, dopo quattro ore di viaggio. Ricordo che prima d’arrivare in piazza, dovendo inerpicarci lungo una lunga strada molto scoscesa, il motore del nostro furgone Fiat 850, pieno di strumenti fino al tetto, a un certo punto non ebbe più la forza di farcela e ci costrinse a fermarci. In pratica abbiamo dovuto scendere quasi tutti gli strumenti musicali permettendo al furgone, alleggerito, d’arrivare in cima alla salita.
Noi, nel frattempo, abbiamo dovuto caricare a mano gli strumenti e portarli fino in cima, ricaricarli sul furgone e raggiungere, alfine, la tanto agognata piazza del paese. Quella serata in piazza, in cui noi eravamo il complesso di base, fu presentata da Pippo Baudo e l’ospite era la famosa soubrette Miranda Martino. L’accompagnava il suo pianista personale al quale misi a disposizione il mio organo C.E.I. a due tastiere.
Il grande Pippo, nel frattempo, dopo aver presentato la meravigliosa Miranda Martino, rimase sul palco durante la sua esibizione canora. Non avendo, però, cosa fare e non essendo il tipo da stare con le mani in tasca (anche perché non ci entrerebbero), s’avvicinò al mio organo e, quindi, al maestro della Martino, e sapendo suonare anche lui il pianoforte (ricorderò ben volentieri, che è anche un compositore – indimenticabile la sua “Donna Rosa”), si mise a sonicchiare la melodia d’un brano della Martino, mentre il maestro l’accompagnava con l’armonia. Ciò sia musicalmente sia professionalmente è una cosa poco accettabile, tanto che il maestro pianista si trovò costretto a “schiaffeggiare” la mano invadente di Baudo, interrompendo fra l'altro, anche se solo per un attimo, l’accompagnamento.
Pippo, però, continuò imperterrito e per tutta la durata della canzone fu un continuo schiaffeggiamento esortativo a smetterla che non ha prodotto alcun risultato causa il carattere giocherellone del nostro unico Pippo Baudo. Finito col maestro andò a nuocere anche il nostro batterista. In pratica prese un paio di bacchette che Mario teneva di riserva e si mise anche lui a suonare la batteria percuotendone il tamburo. Mario, però, non stette al gioco e lo pregò di lasciarlo suonare in pace.
In un’altra occasione, invece della Martino, gli ospiti furono i “Camaleonti”. Ricordo che, alla fine della loro esibizione, pregai il loro bel cantante Tonino, al secolo Antonio Cripezzi, di farmi una dedica, su una loro cartolina, a mia figlia o a mio figlio, visto che mia moglie era in stato interessante in quel periodo. Tonino mi accontentò e scrisse: “A Daniele o a Donatella con molta simpatia”. Beh, nacque, poi, Daniele e quella cartolina la conservo ancora fra i miei ricordi più cari.
Ho rivisto Tonino e i “Camaleonti” con nuovi strumentisti, qualche anno fa a Santa Ninfa, dove vennero a suonare per una serata di piazza. Portai con me la cartolina e la feci vedere a Tonino, che non si negava al pubblico, mentre stava armeggiando al mixer posto nel bel centro della piazza. Non potevo pretendere, dopo quasi quarant’anni, che lui si ricordasse di quell’episodio, ma riconobbe la sua firma e mi salutò abbracciandomi e dimostrandomi la sua amicizia.
Questa volta c’era con me mia moglie Anna che gli chiese una nuova dedica che lui, ben volentieri, appose sulla stessa cartolina per un rinnovato augurio a mio figlio Daniele e a mia figlia, nata dieci anni dopo il maschio, che non chiamai Donatella, bensì Desirée.
Ho avuto il grandissimo piacere di rivederli ancora una volta, proprio quest’estate a Civitavecchia, dove hanno suonato inossidabili per più di due ore incantando il pubblico con i brani che li hanno resi famosi cantati, contemporaneamente, da tutti noi fortunati uditori.
Ancora un altro episodio degno di rimembranza. Presso la sala “Azzurra” di Strasatti, ogni volta che vi andavamo a suonare con l’“Orchestra 2000”, considerando che allora c’era ben poco da mangiare nei matrimoni e che stavamo sempre a suonare, avendo noi un’età che ce ne sarebbe voluta di roba per saziarci, era nostra abitudine comprare dei bei panini imbottiti presso la bottega di generi alimentari della moglie del proprietario della sala, la signora Alagna. Questa, quando era l’ora di pagare, faceva il conto a modo suo: “Quinnici liri lu paninu, vinticincu liri la mortatella e la provoletta, dammi cinquantacincu liri e cu fici fici”, ma sempre a suo favore. Questa cosa continuò per anni.
Nel maggio del 1975 Pino Adorno, un mese prima che nascesse mio figlio Daniele, che poi battezzò, vinse un concorso nelle FF.SS. e si trasferì con tutta la sua famiglia a Paola, in Calabria, dove rimase per un bel po’ di anni. Il suo posto nell’“Orchestra Duemila” fu preso dal bassista cantante mazarese Alberto Tumbiolo.
Il fratello di Pino, Adorno, entrò anch’egli nell’“Orchestra 2000” in sostituzione di Mario Giammarinaro che è dovuto partire per il nord, poiché anche lui aveva vinto un concorso nei Vigili del Fuoco e si trasferì ad Alessandria, in Piemonte. Renato Adorno rimase a suonare nell’orchestra soltanto per un anno, poiché fu assunto all’I.M.A.M., una ex fabbrica di marmitte di Castelvetrano.
Franco Calcara, che in quel periodo suonava con “La giovane età”, mi ha raccontato che, durante una serata a Camporeale, si ritrovarono a suonare in una sala il cui palco, che accoglieva i musicisti, era stato ricavato su delle strutture precarie fatte di travi in legno. A un certo punto, vuoi per il carico degli strumenti musicali che allora pesavano un accedenti, vuoi per il repertorio rockettaro che proponevano e che costringeva il batterista a violenti colpi sul suo strumento, fatto fu che il palco non ce l’ha più fatta ed è venuto giù.
Per fortuna la struttura ha ceduto in modo tale che si è ripiegata su se stessa, cosicché musicisti e strumenti sono conversi al centro limitando i danni alle cose e alle persone. Il tutto si è tramutato in un grande spavento e qualche escoriazione. Non riuscirono, comunque, a continuare la serata.
Nello stesso anno Gino Rizzo e il suo fraterno amico Mauro Fabbri prestavano il servizio militare di leva nella Marina Militare. Mauro è andato al C.E.M. Scuola Militare della Marina, mentre Gino è stato imbarcato sulla nave “Vittorio Veneto”, Ammiraglia della flotta navale italiana. Dalle schede informative compilate all’atto della visita di leva, sapevano che Gino suonava la batteria e, dopo una breve audizione, fu immediatamente inserito nell’organico della banda musicale. Un’esperienza unica e indimenticabile per il nostro amatissimo Gino che rimase sulla nave per tutti i venti mesi di servizio militare.