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Nel ricordo dei “Mambo Jambo” e Napoleone”(Tanuzzu Indelicato) che "stregò" la Corrida di Corrado

del 2014-09-10

Una delle primissime formazioni musicali formatesi a Castelvetrano nel periodo dopo l'ultimo conflitto mondiale, che non ebbe neppure un nome, era composta da: Gaspare Scirè al violino, Carlo Parisi alla fisarmonica, Giuseppe Casesi alla chitarra e Antonino Ghinesi al sax soprano. Essi andavano a suonare in tutti i tipi di feste, spostandosi anche nei paesi limitrofi.

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  • Durante un matrimonio serale presso la casa di una famiglia di Salemi, il violinista Scirè ebbe bisogno di fare due gocce d’acqua (la pipì) e, non volendo disturbare la padrona di casa, pensò bene d’allontanarsi per qualche attimo.

    Profittò d’una pausa per recarsi all’esterno della casa dove avrebbe potuto “cambiare l’acqua a lu pappaaddu”, com’è nostra abitudine dire almeno quando si è fra maschietti. Intravide una siepe e vi si avvicinò per soddisfare il suo bisognino. Nel modo di sporgersi in avanti, però, non si accorse che dietro la siepe c’era un dirupo. Per sua fortuna questo non era molto profondo e il terreno sottostante era morbido così, dopo una bella caduta a testa in giù, se ne uscì solo con qualche graffio e un bello spavento. Nell'anno 1950 si formò a Castelvetrano il complesso dei “Mambo Jambo”.

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  • La prima formazione vide: Gaetano Fasulo (Tanu Piricuddu) alla batteria (suonava anche la gran cassa nella “Banda Comunale” e fu il precursore della grande famiglia “Piricudda” dal lato Fasulo), Franco Leone al sax tenore (da notare che suonava il sax tenore leggendo la musica in chiave di contralto), Baldassare Abate alla tromba, Salvatore Vallone al basso, Minicu Indelicato al trombone, Mauro Battista alla chitarra (emigrato in Svizzera dove fa il liutaio e costruisce chitarre) e Maria Picone come voce solista.

    Tanu ha creato uno strumento rudimentale, a imitazione del sax, fatto di tubi di plastica di scarico, dove all’interno ha sistemato un “Kazoo” (piccolo strumento a fiato che sfrutta il sistema del pettine e la carta velina, molto usato dal cantautore Edoardo Bennato nei suoi concerti). Con questo particolare e originale strumento è andato a suonare anche in Svizzera.

    A Lugano un giorno incontrò un bravo sassofonista che suonava con un Selmer (una delle migliori marche di sassofoni). Quando quest’ultimo si rese conto che la gente trovava più interesse per quel curioso e divertente strumento di plastica, (beata ignoranza), invece che per il suo sax professionale, ci mancò poco che riducesse il suo strumento in mille e un pezzo. Più avanti la formazione dei “Mambo Jambo” subì dei cambiamenti.

    Una seconda versione fu quella composta da: Vincenzo Giammarinaro al contrabbasso, Antonino Bosco alla chitarra, Vincenzo Ferrantello alla tromba, Tanuzzu Indelicato (Napoleone) alla batteria, Raffaele Chiofalo alla fisarmonica (mio grande amico, da pochi anni deceduto; era innamorato del brano “Zoccoletti” che cantava e suonava quasi sempre), Francesco Catalano al sax e Fioranna Bordin cantante. Una terza formazione vide: Vincenzo Russo alla fisarmonica, Giacomo Russo alla tromba, Michele Aggiato al sax tenore, Gaspare Aggiato al clarino e sax contralto, Gaspare Galfano alla batteria, senza bassista oppure qualche volta favoriti da Francesco Mangiaracina.

    Alla fine dei matrimoni, per divertirsi ed essendo notte piena, avevano preso l'abitudine d'entrare nei cortili privati delle persone per spostare sia i vasi pieni di fiori sia le gabbie per i polli (stie). Un'ultima formazione vide: Angelo Mazzotta alla tromba, Gaspare Aggiato al clarinetto, Antonino Parrino alla fisarmonica, Antonino Bosco alla chitarra, Francesco Catalano al sax, Gaspare Vallone alla batteria e Giuseppe Pompei voce solista. La calda voce di quest’ultimo faceva sì che si distinguesse rispetto a quella degli altri bravi cantanti castelvetranesi: da Piero Chiofalo col suo stile alla Dallara a Michele Milazzo e Giuseppe Santangelo con il loro stile tenorile.

    Un fatto di grande rilevanza storica è stato l’arrivo a Castelvetrano, per la prima volta, di Radio Rai, per registrare la trasmissione radiofonica “Radio Squadra”. Il comune mise a disposizione della R.A.I. (allora E.I.A.R.) i locali del vecchio ufficio di “conciliazione” sito in via IV Novembre.

    Si svolse tutto a porte chiuse, cioè senza pubblico. Quest’ultimo, però, poteva assistere alla registrazione, rigorosamente in bianco e nero, attraverso lo schermo del Cine Teatro Palme con i rudimentali videoproiettori valvolari d’allora. Vi parteciparono diversi cantanti locali tra cui: Michele Mike Milazzo, Giuseppe Pompei, Piero Chiofalo, Pino Ferri, Paolo Filippi e tanti altri, accompagnati dal complesso di Francesco Mangiaracina. Cantavano tutti in diretta e non c’erano vincitori, soltanto partecipanti. A Michele Milazzo e a Giuseppe Pompei, che si sono distinti sugli altri, è stato regalato un microfono d’argento e una raccolta di sei dischi 78 giri della “Fonit Cetra”.

    Nel mese di dicembre del 1954, arrivò a Castelvetrano anche la R.A.I. TV che iniziò a mandare in onda i suoi programmi proprio in quell’anno. Aveva, quindi, tutto l’interesse di farsi conoscere dal vasto pubblico per invogliare la gente a comprare l’apparecchio televisivo e seguire le sue trasmissioni.

    Trasmissioni che allora cominciavano alle ore 17,00 e finivano alle ore 23,00 con programmi non sempre piacevoli e interessanti. Cosicché si formavano dei comitati spontanei che organizzavano spesso le “Feste in Piazza” con i giochi pirotecnici finali, o dei Festival di “Voci Nuove” ai quali partecipava quasi tutto il popolo. Quando non c’erano dei comitati ad hoc era il comune, con l’allora assessore Vincenzo Panicola che si faceva collaborare da Giuseppe Lentini, a organizzare due o tre volte l’anno i concorsi canori.

    La R.A.I., dicevamo, per farsi un po’ di pubblicità - non prevedendo, sicuramente, che da lì a poco sarebbe diventata una delle maggiori e più fortunate aziende italiane e quali implicazioni, anche politiche, avrebbe portato - venne a registrare il suo nuovo programma televisivo “Tele Squadra” anche a Castelvetrano. Alla manifestazione potevano partecipare cantanti solo locali e in numero di venti tra uomini e donne. Vi parteciparono diversi cantanti tra cui: Mike Milazzo, Piero Chiofalo, Giuseppe Pompei, Peppe Palma. Vi partecipò anche Maria Cannatella che, in coppia con Milazzo, ha cantato un brano del repertorio siciliano accompagnati dall’orchestra “Peppi Boys”.

    Lentini era addetto alla selezione dei cantanti. Le preselezioni si svolsero presso la chiesa sconsacrata degli Agostiniani, in via Garibaldi, di fronte l’attuale “Museo Civico”.

    La manifestazione si tenne in un’unica serata presso la sala consiliare del nostro municipio, con la possibilità d’essere seguita dalla cittadinanza in piazza Garibaldi. Qui furono collocati, all’interno di alcuni furgoni della R.A.I., degli apparecchi televisivi in bianco e nero (non c’era ancora né il sistema P.A.L. né altri sistemi per la TV a colori) che hanno trasmesso in diretta, via cavo, tutta la manifestazione. Accompagnò sempre il complesso dei “Peppi Boys”.

    Vinse la coppia Milazzo-Cannatella. Un pericolo molto temuto da tutti i cantanti ogni volta che dovevano esibirsi, era quello della “calcara muta”. Praticamente una situazione di precarietà vocale in cui la voce diventava come quella d'una “carcarazza”, cornacchia.

    Questo modo di dire veniva a volte utilizzato anche come iettatura per fare zittire una persona petulante che parla sempre e non la smette mai. Un altro gruppo che si formò in quel periodo fu quello degli “Azzurri”. Ne fecero parte: Nino Guarino alla fisarmonica, Franco Leone al sax, Vincenzo Ferrantello alla tromba, Salvatore Turiddu Triolo alla chitarra, Salvatore Vallone al basso e Renzo Russo alla batteria. Quando Guarino non poteva essere presente a degli impegni era sostituito da Vincenzo Enzo Russo, sempre se questi era libero.

    Era il 1953. Vincenzo, insieme al fratello Giacomo, al cognato Turiddu Triolo e all’amico Giovanni Bertuglia erano impegnati a suonare presso il Circo Bisbini. L’esperienza durò circa tre mesi, dopodiché il circo si spostò in altri paesi. Vi rimase a suonare soltanto Vincenzo con la sua inseparabile fisarmonica. Più avanti con lui andò a suonare anche il nostro fantasista “Napoleone”, alter ego di Gaetano Tanuzzu Indelicato. Egli, con la sua batteria che suonava in modo figurato, riusciva a dare il giusto tempo agli artisti nei loro numeri acrobatici e di virtuosismo ginnico.

    La peculiarità di Napoleone era anche quella di sapere utilizzare le mani come se fossero un vero e proprio strumento musicale. In pratica, mettendone una completamente aperta e distesa appoggiata all’altra sempre aperta, ma posta in posizione curvata a cuppiteddu e battendole ripetutamente mentre vi soffiava dentro, riusciva a fare emettere dei suoni. Modulandoli, contemporaneamente, con dei movimenti della lingua opportunamente regolata con l’aria emessa dai polmoni e intonata dalle corde vocali, riproduceva perfettamente tutti i brani musicali, anche i più complessi: da “Tico Tico” ai valzer di Strauss, dalla “Migliavacca” alle polke più indiavolate.

    Partecipò anche alla famosa “Corrida” del compianto Corrado, lasciando incredulo sia il conduttore sia il maestro Pregadio che ha avuto per Tanuzzu complimentose parole di stima. Anche tutto il pubblico presente in studio, alla fine della sua esecuzione, gli tributò un calorosissimo applauso. Punto di riferimento di tutti i turisti che si trovano a passare da Selinunte, Tanuzzu, oggi ultranovantenne, sorprende ancora con le sue performance musicali e le sue scenette improvvisate.

    Cresceva, nel frattempo, la piccola Giovanna, figlia di Vincenzo Russo, che dimostrò da subito una certa familiarità con la batteria. Quando fu in grado di suonarla, ad accompagnare i vari numeri del circo rimasero lei e il padre. Un personaggio tipico di quel periodo, invitato spesso nelle feste private, era un chitarrista intrattenitore il quale, prima d’iniziare la sua esibizione, pretendeva che gli si mettesse davanti un bel bicchiere pieno di vino con a fianco una bella “cannata” caraffa, altrettanto piena, in modo che quando il bicchiere si svuotava potesse subito essere riempito.

    La filastrocca che lui cantava era la seguente: “Nisciu lu cani di la canaria, manciari si vulia, la pantera sapurita. Pantera, cavaddu, attu, surci, crepa la musca. Dopu la musca l’amuri s’infusca: lu meli stà, torna la musca”.

    A questo punto beveva il primo bicchiere di vino che subito qualcuno provvedeva a riempire nuovamente. Ricominciava, poi, con la stessa tiritera cambiando l’ordine degli animali e ogni volta alla fine si beveva il meritato bicchiere di vino. Il gioco continuava fino a quando non c’era più vino nella caraffa. A quel punto lui smetteva. Se, poi, gli chiedevano di continuare lui pretendeva dell’altro vino. Gli promettevano che avrebbero provveduto, ma lui rispondeva: “Appena arriva la merci, ju attaccu”, “Quando il bicchiere è di nuovo pieno, io ricomincio”.

    Andiamo adesso al 1955. Un altro complesso che è doveroso ricordare è quello dei “Russo”, anche loro sottintesi “Piricudda”, in quanto vi fecero parte Vincenzo Giammarinaro al contrabbasso e il figlio Giuseppe alla batteria che, imparentatisi con i Fasulo, ereditarono da quest’ultimi il curioso soprannome. Oltre ai Giammarinaro fecero parte del complesso: i fratelli Russo, Vincenzo alla fisarmonica e Giacomo alla tromba, i fratelli Turiddu e Vannino Triolo (detto Manfrè per via del padre che di nome faceva Manfredo) rispettivamente alla chitarra e al sax tenore e clarino. Da Campobello di Mazara, invece intervenne Domenico Minicu Indelicato al trombone a tiro.

    Per quanto riguarda i cantanti s’alternavano opportunamente: Anna e Stella Morrione, Mike Milazzo, le sorelle Maria e Anna Cannatella e Giuseppe Santangelo, il cui cavallo di battaglia era “Granata” di Claudio Villa. Andiamo adesso al 1957. Un complesso tutto castelvetranese che si formò in quell’anno fu quello che scelse il nome di “Franco Franchi”, in omaggio al noto attore cinematografico palermitano della famosa coppia Franco e Ciccio.

    Vi fecero parte: Franco Leone al sax, Nino Comacchio alla chitarra, Matteo Giammarinaro (Piricuddu) alla batteria, Vittorio De Simone alla tromba, Andrea Seidita al trombone, Carlo Cottonaro alla fisarmonica e Piero Chiofalo voce solista. A proposito di Franco e Ciccio, un giorno di quell’anno, si trovarono a passare da Castelvetrano due artisti di strada provenienti con la “littorina”, automotrice, da Palermo: Francesco Benenati, in arte Franco Franchi e Francesco Ingrassia in arte Ciccio.

    La “littorina” era, per quel periodo, il più moderno e più veloce mezzo su rotaie utilizzato dalle Ferrovie dello Stato. Il suo nome era stato preso dal “littorio”, un locale istituito dal Duce Benito Mussolini, dove si riunivano gli iscritti al “fascio”. Ricordo quando, invitato alla trasmissione “Serenate” di Fabio Fazio su RAI 2, misi in difficoltà il conduttore Andrea Perzi, quando gli chiesi proprio se lui conoscesse la “littorina”. Domanda alla quale candidamente e col suo sorriso sornione rispose di no e dovetti spiegargli in diretta televisiva cos’era.

    Benenati e Ingrassia si fermarono davanti al bar “Stella” di Pasqualino Lombardo, sito nella piazza Principe di Piemonte, e cominciarono a fare alcuni sketch imperniati su imitazioni varie tipiche della coppia che tutti conosciamo in quanto diventarono, poi, attori di grande talento la cui fama varcò i confini italiani. Il numero più divertente che proponevano era quello del “bilancino”. In pratica Franco Franchi, dopo aver chiesto al proprietario del bar uno sgabello, si posizionava sullo stesso in maniera orizzontale e, irrigidendo tutti i muscoli del corpo, creava una vera e propria bilancia di cui lui diventava il “bilancino”.

    A questo punto il compare e spalla Ciccio Ingrassia si faceva prestare un “marruggiu, o manicu di scupa”, bastone della scopa, e toccando il corpo di Franchi lo faceva pendere una volta dalla parte della testa e l’altra dalla parte dei piedi.

    Questo divertente meccanismo suscitava l’ilarità di tutti i presenti che, alla fine dello spettacolino, dimostravano tutta la loro generosità mettendo all’interno d’una “coppola” berretto, anche questa prestata da un gentile e disponibile spettatore, qualche monetina. Se non trovavano nemmeno una “coppola”, si rivolgevano al proprietario del bar per farsi prestare il vassoio delle mance. Alla fine della raccolta Franco faceva un cenno a Ciccio per sapere se la raccolta era stata generosa.

    Quando le offerte erano state poco consistenti il Franchi, con quell’espressione tipica di noi siciliani, diceva: “A schifiu finì” “E’ andato a finire male”. L’anno successivo Turiddu Triolo aprì a Castelvetrano il primo negozio di strumenti musicali nella via Selinunte, poco più sotto del cortile Fante e di fronte a quello che, in seguito, fu chiamato “Club Itria”. Negozio che spostò in piazza Regina Margherita di fronte la Villa San Giovanni e che tenne fino al gennaio 1968 quando, a causa del terremoto nella Valle del Belìce, molte attività furono chiuse. Una particolare attenzione la dobbiamo rivolgere alla figura del cantante nei complessi degli anni ’50.

    Egli rappresentava una figura a sé, in quanto non indossava la classica divisa che indossavano di rito tutti gli altri componenti dei vari complessi musicali, ma un abbigliamento sì consono per l’occasione, ma diverso adattato al proprio gusto personale. Possibilmente abito da sera o addirittura smoking, (poi, verso gli anni ’60), anche perché prima non c’era la possibilità di possederlo. Uno di essi, Piero Chiofalo, il cui compito era soltanto quello di cantare, quindi non sapeva suonare alcuno strumento, aveva partecipato da ragazzo a varie feste in famiglia e, poi, nei circoli cantando i brani più in voga.

    Essendo attratto dalle orchestre, vi si piazzava davanti per ascoltare la musica come le zanzare attratte dalla luce. Nel 1959, appena quattordicenne, trovandosi col fratello e la sua fidanzata al Cine Teatro Palme, dove si svolgeva il più bel Carnevale d’allora, si piazzò sotto il palchetto dove suonava il complesso, non facendosi scappare una sola nota. Alcuni giovanotti s’avvicinavano al capo orchestra chiedendo di potere cantare una canzone e venivano, da lì a poco, accontentati. Il buon Piero, che guardava e ascoltava, capiva in cuor suo che anche lui poteva cantare, poiché portava il tempo ed era intonato.

    Cosi, rivolgendosi a un suo parente che suonava nel complesso, chiese: “Mi fate cantare una canzone?”. Gli orchestrali gli risposero: “E perché no?”, ma non lo fecero, di fatto, salire sul palco. Finalmente, dopo tanto attendere, uno degli orchestrali disse ai suoi colleghi: “C’è Piero chi voli cantari ‘na canzuna. Chi fa, lu facemu cantari?”. “O.K. Facciamolo cantare”, gli fu risposto. “Quale canzone vorresti cantare?”. Lui, candidamente e prontamente, rispose: “Piove”, brano con il quale il grande e unico Domenico Modugno aveva da pochi giorni rivinto il Festival di Sanremo. L’aveva già vinto l’anno precedente con la famosa canzone “Nel blu dipinto di blu”, meglio nota come “Volare”. Cominciò così per Piero, come per quasi tutti d’altronde, una forma di “dilettanti allo sbaraglio” senza la più elementare guida.

    A ogni modo Piero se la cavò benino dando inizio a una carriera che, seppur breve, fu costellata da tante soddisfazioni. Abbiamo visto come in quegli anni imperversavano i concorsi canori in occasione delle feste paesane e, siccome erano a buon mercato e offrivano alla gente gradevoli serate di svago, gli amministratori locali del tempo favorivano questo tipo d’iniziative. Di concorsi di voci nuove se ne organizzavano da sei a sette l’anno.

    Vi partecipavano una trentina di ragazzi e ragazze ogni concorso. Vi partecipò anche Piero. Dopo la prima, la seconda e, finanche, la terza partecipazione, non successe nulla di rilevante. Alla quarta e ultima partecipazione, in occasione della trasmissione televisiva, “Telesquadra”, capì che forse non era il caso di continuare, anche perché i risultati d'ogni manifestazione erano quasi una fotocopia.

    Vincevano sempre gli stessi cantanti, una volta Mike Milazzo e l’altra Giuseppe Santangelo, o viceversa. Decise così d’abbandonare. Fu allora che successe un fatto nuovo. Il complesso “Musichiere” cercava un cantante e incaricò il trombettista Angelo Mazzotta di parlare con Piero, anche se non aveva brillato rispetto a tanti altri cantanti. Cominciò così l’avventura di Piero Chiofalo nel mondo canoro castelvetranese, che durò dal 1960 al 1968. Tre anni con il complesso “Musichiere”, tre anni con i “Franco Franchi” e due anni con i “Diavoli Lucani”, a Potenza.

    Qui, forse, avrebbe potuto capire che c’erano in lui delle qualità, visto ch’era stato scelto fra dieci cantanti che s’erano presentati al provino. Una peculiarità che posso non permettermi di citare è che Piero all’epoca era definito il Tony Dallara di Castelvetrano. In effetti, il suo modo d’interpretare le canzoni che cantava somigliava molto a quel divo degli anni cinquanta e sessanta. Il vero Tony Dallara, peraltro suo carissimo amico e commilitone durante il servizio di leva del fratello di Piero, il mio carissimo amico Salvatore, me l’ha presentato durante una sua relativamente recente tournée in Sicilia e con il quale abbiamo condiviso una cena a Caltanissetta.

    Ci ha anche invitato l’indomani a Trapani, dove si è esibito all’Arcoin, l’annuale Fiera Campionaria. Per quanto riguarda Piero, terminata l’esperienza di Potenza ed essendosi sentito, a torto, vecchio per continuare a cantare, a soli 22 anni, appese il microfono al chiodo. Nel 1980, intanto, cominciai a frequentarlo e mi resi subito conto che aveva delle potenzialità canore non indifferenti. Cominciai, così, a stimolarlo perché ritornasse a cantare il suo repertorio. Malgrado le mie insistenze, però, non sono mai riuscito, per le ragioni più diverse, a convincerlo. Nel 2001, in occasione di una serata di poesia a Triscina, essendoci un buco nel mini spettacolo, lo invitai a cantare.

    Lui accettò, destando una positiva curiosità in chi lo stette ad ascoltare. Grazie a questa iniezione d'allegria e di piacere, riprese finalmente a cantare creandosi un repertorio esclusivo di cui, ritengo, è il naturale e più originale interprete.

    Gli ho anche affidato il mio brano più conosciuto, “Lady Blues”, del quale ha fatto una versione oserei dire unica. Piero, infatti, interpreta la musica da night (e dintorni) in maniera veramente eccelsa. Così, durante le estati che seguirono, la casa di Piero a Triscina è diventata teatro d’indimenticabili serate. Vi hanno partecipato decine e decine di persone, tutte più o meno coinvolte in recite di poesie, esibizioni canore, strumentali e quant’altro di varietà e con il desco sempre imbandito. Piero, finalmente, era fra i protagonisti. C’è anche da dire che egli, lungo il cammino della sua vita, non è stato solo appassionato di musica. Ha nutrito, infatti, diverse passioni sviluppando la sua innata creatività.

    Ha gestito al meglio la sua tabaccheria, “La Pipa”, per la quale tantissimi anni fa ho composto le musiche per uno spot pubblicitario. E’ stato ideatore e fondatore degli sport equestri a Castelvetrano: equitazione e trotto. E’ stato direttore di “Tele Castelvetrano”, il primo net work a Castelvetrano. E’ stato fondatore del secondo net work locale, “Ondablu” per la quale, su invito dello stesso Piero, ho composto l’omonima sigla.

    Ritornando, comunque, al Piero cantante, termino dicendo che adesso ha al suo attivo alcuni CD auto prodotti nei quali ha registrato decine e decine di brani da lui egregiamente eseguiti. Non possiamo che lodare il suo coraggio e fargli tanti auguri. Dicevamo del complesso il “Musichiere”. Era l’anno 1960. Il nome gli fu dato prendendolo dalla prima, in assoluto, fortunatissima omonima trasmissione televisiva a quiz, condotta da quel grande presentatore che fu Mario Riva. Riva, il cui nome era Mariuccio Bonavolontà, oltre a essere un bravissimo presentatore era anche un attore di varietà, di rivista, di commedie musicali e di cinema. La sua brillante carriera fu, purtroppo, tragicamente interrotta il 21 agosto di quell'anno quando di anni ne aveva soltanto quarantasette.

    Quella fatidica sera, presso la splendida cornice dell'arena di Verona, si stava svolgendo la serata finale del Festival “Il Musichiere”. Riva in quel momento si trovava dietro le quinte quando, inciampando accidentalmente in alcuni fili, cadde da un'altezza di tre metri andando a finire fra alcune assi e degli attrezzi ch'erano stati lasciati sotto il dietro del palco.

    La rovinosa caduta gli procurò la frattura della sesta vertebra dorsale e diverse altre fratture alle costole. Immediatamente ricoverato in ospedale, la morte lo colse dieci giorni dopo a causa di sopraggiunte complicazioni polmonari e cardiache.

    L'Italia dello spettacolo quel giorno ha perduto uno dei migliori protagonisti del palcoscenico italiano. Per quanto riguarda il nostro “Musichiere”, gli elementi che ne fecero parte furono: Angelo Mazzotta alla tromba, Gaspare Aggiato al sax tenore, Michele Aggiato al sax contralto, Nino Parrino alla fisarmonica, Gaspare Galfano alla batteria, Paolo Filippi e Francesco D’Anna alle chitarre, Piero Chiofalo voce solista. Indossavano una divisa con dei pantaloni neri e una camicia del tipo spagnola con fiocchetto al posto della tradizionale cravatta, con giacca colore blu a strisce bianche.

    Nel complesso avevano l’abitudine, durante le feste di Carnevale al Cine Teatro Palme organizzate dalla Società Operaia, di strapparsi le maniche delle camicie delle divise e di gettarle per aria, a imitazione di Adriano Celentano, che l’aveva fatto in TV mentre cantava la famosa canzone: “24.000 baci”.

    Durante, poi, l’esecuzione di “Ciliegi rosa”, famoso brano in cui i trombettisti più estrosi mettevano in mostra tutta la loro bravura e padronanza dello strumento nel momento d’interpretare una particolare nota lunga glissata, Gaspare interrompeva il ritmo della batteria e, cominciando a sbatacchiare un campanaccio, gridava: “E il pappagallo ammaestrato tutto indovina”. Questo perché, in quei tempi, passava per le strade di paese un signore con una tromba del tipo usata dagli spazzini per segnalare la loro presenza.

    Teneva un pappagallo appoggiato sulla spalla sinistra. Con appena cinque lire faceva scartare dal variopinto pappagallo ammaestrato, da un contenitore di legno, dei bigliettini colorati con tanti pensierini e consigli utili per la vita. Per fare sentire alla gente che stava passando, la sua frase era proprio quella che Galfano gridava ai matrimoni. La R.A.I. organizzò in quel tempo una manifestazione chiamata “Il Microfono d’Argento”.

    La manifestazione si tenne al Cine Teatro Capitol ed era presentata da Nunzio Filogamo che cominciava tutte le sue trasmissioni con il famoso. “Miei cari amici vicini e lontani, ovunque voi siate, vi giunga la mia più cordiale buona sera”. A proposito del Cine Teatro Palme, prima che il signor Costa di Trapani lo costruisse, i nostri compianti Preside Luciano Messina e il cavaliere del lavoro Giovanni Paola, papà dei miei carissimi amici Francesco Ciccio, compagno di Liceo, e la sorella Rita, avevano creato in tutto quello spazio l’“Arena delle Palme”.

    Questo nome lo avevano scelto per via di due palme sistemate ai lati del palcoscenico sul quale avevano costruito un muro bianco sul quale erano proiettati i film. Luciano Messina aprì, poi, l’“Arena Italia” sempre a Castelvetrano, in via Marconi dove funzionava l’omonimo albergo di proprietà della signorina Catanzaro. Ricordo che mio padre mi portava spesso all’arena perché, anche lui come me, amava moltissimo questo genere di spettacolo. Un altro cinema funzionante in quel periodo era il Cinema Leone ubicato al pianterreno dell’albergo Selinus di via Bonsignore, poi sede del Banco di Sicilia e oggi sede degli uffici locali del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. 

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