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Nel ricordo di Pino Veneziano tra musica, Selinunte, Lucio Dalla e Fabrizio De Andrè

del 2014-09-22

Immagine articolo: Nel ricordo di Pino Veneziano tra musica, Selinunte, Lucio Dalla e Fabrizio De Andrè

Giuseppe Veneziano, detto Pino, nacque a Riesi il 2 luglio 1933. Figlio di carabiniere, fu abbandonato dal padre quand’egli era ancora un ragazzino. La madre, casalinga, non poté più sostenere le spese per farlo studiare e, nel frattempo, mantenere anche l’altro figlio. Pino, a soli sette anni, dovette abbandonare la scuola e cominciare a lavorare per aiutare la famiglia.

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  • Dapprima andò a fare il guardiano di pecore dormendo anche all’addiàccio, poi andò a lavorare come garzone presso il forno d’un amico del paese. Pino aveva diciassette anni quando la madre decise di lasciare Riesi per trasferirsi, insieme ai suoi due figli, nella nostra Castelvetrano dove, peraltro, il marito aveva prestato servizio presso la locale caserma.

    Pino e il fratello furono contenti di lasciare Riesi, perché per loro era un luogo dove avevano sofferto tanto. Giunti a Castelvetrano, Pino andò a lavorare come garzone di bar. Dopo poco tempo ebbe l’opportunità d’andare a fare il cameriere nella vicina borgata di Marinella-Selinunte. Egli rimase estasiato dalla magica atmosfera di quel paesello marino, molto diverso da quello rupestre della sua originaria Riesi.

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  • Erano gli anni sessanta, gli anni della ribellione, degl’ideali e della poesia, che fecero maturare nel rivoluzionario Pino quell’idea di libertà, di combattere il potere, i padroni, la borghesia e tutto ciò ch’era conformismo. Verso la fine degli anni sessanta Pino, insieme al suo amico Gaspare Giglio, meglio noto come Jojò, e a Giacomino Barraco, decise d’aprire a Selinunte il loro primo ristorante: “La Zabbara”.

    Tutte le sere Veneziano deliziava i suoi ospiti con buona tavola e ottime canzoni: “Una commistione di arte genuina e natura incontaminata che attirava molte intelligenze”, dice il suo grande e fraterno amico Jojò. In poco tempo il ristorante divenne il punto d’incontro, oltre che di ottime forchette, anche di molti intellettuali della sinistra comunista che avvertivano nelle canzoni di Veneziano il grido vivo dei siciliani che anelavano alla libertà.

    Il ristorante “La Zabbara”, oltre a diventare una ricca fucina d’idee della sinistra italiana, fu uno dei principali presidi degli iscritti ai più importanti Arci, i circoli comunisti nazionali: dal “25 Aprile” al “Manifesto” del circolo “La casa di tutti”. Come una spugna, Pino, frequentando quei luminari della politica italiana, ebbe la possibilità di maturare la sua idea politica di comunismo. Grazie alle conoscenze fatte trovò nei “Circoli di Ottobre” lo sponsor al suo unico lavoro discografico: un 33 giri del 1975 intitolato “Lu patruni è suvecchiu”, una copia del quale conservo gelosamente fra i miei cimeli più cari. La canzone che dà il titolo all’album è stata proposta come brano d’apertura a un recente concerto di Eugenio Bennato a Catania dalla cantante messinese Francesca Amato, voce del gruppo folk palermitano dei “Curtigghiu”.

    Il 33 giri contiene alcuni brani nei quali si sente tutta la catarsi d’un uomo che non volle arrendersi alle prevaricazioni di un sistema marcio e corrotto. Lo si avverte nel pathos che Pino riusciva a mettere quando cantava le sue canzoni, accompagnandosi con la sua inseparabile chitarra che aveva imparato a suonare alla non giovane età di quarant’anni.

    Brani quali “Piazza della Loggia”, una della sue canzoni contro la guerra, in cui con la sua possente voce e la forza drammatica che egli metteva quando cantava (forse sarebbe meglio dire quando recitava le sue canzoni), parlava di poveri innocenti che, mentre cercavano la pace, hanno trovato la morte. Qui si nota maggiormente la sua idea politica di sinistra, il suo odio latente verso i fascisti che definisce: “…..porci assassini, figli di puttana e figli di madre troia….”.

    Come nel brano “Nivuri su’ li bummi” “Nere sono le bombe”, dove ancor più emerge la sua anima comunista e antifascista definendo i neri (fascisti), insieme ad alcuni preti, “l’anonima assassini” e dove profetizza la “…giustizia popolare”.

    Egli  mentre faceva politica riusciva a sublimare il suo messaggio utilizzando la poesia. Ne “Li scarsi” “I poveri”, scriveva: “Rosso è il sangue. Rosso è il sole. Rosso è il fuoco. Rossi sono tanti fiori. Rossi siamo tutti i poveri. Ma allora di nero cosa c’è. C’è solo la merda”, a rilevare la sua assoluta distanza da tutto ciò che rappresentava l’ideologia fascista.

    Per, poi, passare a “La jatta” “La gatta”, il brano che maggiormente tutti ricordano, nel quale parla di una gattina che cede alle lusinghe d’un gatto col quale fa l’amore. Pino ci fa notare che quel rapporto è assolutamente naturale e non di convenienza come fanno gli uomini che il sesso lo comprano e le donne che lo vendono.

    Nel brano “Lu sicilianu” “Il siciliano”, sua prima composizione, dice che “Lu sicilianu è ‘nta tuttu ‘u munnu”, “Il siciliano si trova in tutto il mondo”, paragonandolo a un gitano. Non c’è paese al mondo in cui, a causa della forte emigrazione di cui ha da sempre sofferto la nostra tanto amata e bella Sicilia, non ci sia un siciliano che vi lavori.

    Ne “La festa ddi li porci” “La festa dei maiali”, parla dei ricchi che ostentano opulenza e che definisce porci perché, secondo lui, mangiano e bevono come dei maiali indifferenti verso la povertà dilagante. In “Patri e figghiu” “Padre e figlio”, non vuole rassegnarsi alla prevaricazione del ricco sul povero al quale vorrebbe togliere il potere, inneggiando al lavoro come unica risorsa di vita e di dignità umana (chiaro manifesto comunista “….i musicisti con il cuore rosso e in prima fila con la falce e il martello”. E nel “Lu patruni è suvecchiu” “Il padrone è in più”, ricorda a chi lavora che l’unico padre che abbiamo è il sole che “…..feconda la terra, nostra madre naturale”, non il padrone che è di troppo “suvecchiu”.

    Ignazio Buttitta, il maggiore poeta siciliano dialettale contemporaneo, nella sua introduzione al disco di Veneziano definisce quest’ultimo“…un popolano che fa cultura…che canta la libertà e la giustizia, e ve la versa nei cuori con la voce”. Due grandi amici di Pino furono Rosa Balistreri, famosissima cantastorie siciliana originaria di Licata, e Francesco Ciccio Busacca altro notissimo chitarrista cantastorie siciliano originario di Paternò.

    Poiché l’attività del ristorante “La Zabbara” era prettamente stagionale, si svolgeva cioè soltanto nel periodo estivo, Pino e Jojò, insieme all’amico Ignazio Fontana, che entrò nella società al posto di Barraco, presero in gestione anche il vicino ristorante “Miramare”. Pino poté, così, continuare la sua attività sia ristorativa sia politico-musicale anche durante gli altri mesi dell’anno. In seguito la gestione del “Miramare” passò a Ignazio Garzia e Pino, sempre con il suo inseparabile amico di sempre Jojò, approdarono al “Lido Azzurro”, altro ristorante ubicato nei pressi del “Miramare”.

    Capitava spesso che noti artisti, passando da Selinunte, si fermassero a pranzare presso il ristorante di Pino. Egli offriva ai numerosi clienti, oltre a un impeccabile servizio anche se non fatto di stereotipati formalismi, le sue canzoni che suscitavano grande interesse in chi le ascoltava.

    Fra i nomi più altisonanti che hanno avuto la fortuna d’ascoltare l’artista Pino Veneziano ci sono stati: Lucio Dalla, Fabrizio De Andrè e il poeta argentino Jorge Luis Borges, uno dei più importanti e influenti scrittori del XX° secolo. L’incontro con il grande maestro avvenne nell’anno 1984, due anni prima della sua scomparsa. Egli, oramai diventato cieco a causa d’una grave malattia agli occhi, quando sentì Pino cantare quelle canzoni così emotivamente partecipate, volle conoscerlo personalmente.

    Raccontano gli amici presenti a quel fortunato incontro che Borges tastò con le sue mani il volto di Pino, solco dopo solco, ruga dopo ruga, per coglierne ogni minimo aspetto fisico che gli potesse far capire quanto, da quel volto provato, trasparisse dell’animo di quel piccolo-grande poeta, figlio adottivo di Castelvetrano.

    Anche De Andrè apprezzò moltissimo i testi di Pino e lo volle accanto a lui nel suo primo concerto che tenne in quel lontano 1980 in Sicilia. Al “Lido Azzurro”, dove a fine serata Pino cantava le sue canzoni di protesta, una sera andarono a cenare alcuni noti personaggi dell’entourage mafioso locale, abituali frequentatori del lido. Essi chiamarono Pino al loro tavolo per ascoltare la sua musica più da vicino. Pino, per nulla intimorito o indisposto, s’avvicinò al loro tavolo e dedicò a quei particolari clienti una canzone improvvisata al momento che recitava: “Cu minchia siti e chi minchia vuliti” “Chi siete e che cosa volete”. Questo per rimarcare che Pino, oltre a essere un poeta e un comunista, era anche un convinto antimafioso.

    La visita che, però, Pino gradì sopra ogni altra, fu quella d’un gruppo di suoi compaesani che si trovarono a passare dal suo ristorante per rifocillarsi. Dal loro linguaggio intuì che provenivano dalla provincia nella quale lui era nato. Chiese il paese e loro risposero Riesi. A Pino brillarono gli occhi: “Anch’io sono di Riesi” disse con enfasi, mentre una luce intensa trasparì dal suo viso raggiante. Erano trascorsi molti anni oramai dall’ultima volta che aveva avuto dei contatti con qualcuno che lo legasse alle sue origini.

    Guardando quei vecchietti, tanti ricordi riaffiorarono nella sua mente sopita. Qualcuno gli chiese qual’era il suo cognome. Lui rispose: “Veneziano”. Sentendo quel nome uno dei gitanti lo informò che conosceva un certo Veneziano ch’era ospitato presso una casa di riposo di Gela.

    A Pino gelò il sangue. Pensò a suo padre che ricordava a malapena e del quale non aveva più notizie da tantissimo tempo. L’amico Jojò gli disse che forse sarebbe stato il caso d’andare a trovare quell’anziano signore suo cognonimo. Correva l’anno 1984 quando Pino varcò la porta dell’istituto per anziani di Gela. Con lui c’era anche Jojò. Chiesero del signor Veneziano e qualcuno li accompagnò nella stanza in cui alloggiava. Poche parole, qualche domanda, la conferma che quel signore, oramai giunto all’ultimo stadio della sua vita, era proprio suo padre.

    Lo sguardo di Pino si fermò, poi, su una chitarra appesa al muro. Chiese se la suonasse anche lui e il padre rispose di sì. Jojò la prese e la mise nelle mani tremolanti del vecchio Veneziano che cominciò ad accarezzarla. Fece, poi, ascoltare loro alcune sue composizioni in dialetto siciliano. La stessa cosa fece, in seguito, anche Pino. Non ci potevano essere dubbi: quell’anziano e malandato signore era proprio il papà di Pino. Due persone molto distanti fra di loro accomunate dalla passione per la musica.

    Un po’ di rancore covava ancora nel cuore tradito di Pino, ma dopo la richiesta di perdono da parte del padre egli dimenticò tutto il male che gli aveva procurato e gli promise che lo avrebbe portato a Castelvetrano. Dopo qualche giorno andò a prelevarlo insieme al fratello che lo volle a casa con lui. Qui morì qualche anno dopo davanti al sorriso rassicurante dei suoi figli.

    La morte del padre rattristò moltissimo Pino. Un’altra gravissima perdita, però, che segnò per sempre il suo animo ferito fu la scomparsa dell’amatissima moglie, Letizia, morta nell’anno 1979. Pino non si sollevò più dalla perdita della preziosa compagna e qualche anno dopo, era il 1986, decise di ritirarsi dall’attività di ristoratore.

    Aveva soltanto 53 anni, ma ne dimostrava molti di più. La vita dura, molto dura aveva inciso nel suo corpo lasciando tutti i segni d’una stanchezza sia fisica sia mentale e spirituale. Per arrotondare la pensione che percepiva dall’I.N.P.S. dovette arrangiarsi a fare il posteggiatore presso il locale Parco Archeologico.

    Qui intratteneva i visitatori con le sue canzoni che continuava a comporre con la stessa forza e incisività di sempre. Senza la presenza e la carica vitale di Pino, Jojò non volle rimanere da solo a gestire il “Lido Azzurro” che cambiò gestione. Egli si ritirò al suo amore iniziale, “La Zabbara” che, poi, trasformò in “Lido Zabbara”. Qui, ancora oggi, delizia i suoi amici e clienti con dei pasti tipici, naturalmente a base di pesce fresco e dell’ottimo vino, nel ricordo dei tempi che furono e del suo fraterno amico Pino.

    Veneziano morì qualche anno dopo, nel 1994. Il suo spirito libero adesso, finalmente, poteva volare in una dimensione ben più alta da quella terrena e con quell’immenso bisogno d’amare ed essere amato. Nel brano “A Santu” “A Santo”, scriveva: “Tre quintali d'amore, centomila carezze vorrei dare, ma nessuno le vuole”. Il giorno prima del suo addio al mondo materiale, aveva festeggiato il suo sessantunesimo compleanno accanto a suoi cari e ai suoi amici più fedeli. Oggi riposa nel nostro cimitero accanto a quel padre tanto odiato e tanto amato allo stesso tempo.

    Nell’anno 2004, su interessamento dell’Associazione “Pino Veneziano”, si organizzò a Selinunte la prima edizione dell’omonimo Premio. Anche quest’anno, per festeggiare il ventesimo anniversario della morte di Pino Veneziano, il 26 luglio, l’Associazione Culturale a lui intestata e presieduta da Jojò ha organizzato una magnifica serata presso la splendida cornice del suggestivo Parco Archeologico di Selinunte. Sono intervenuti ospiti di tutto riguardo quali i maestri Enzo e Lorenzo Mancuso e il regista Davide Gambino, sotto la direzione artistica di Umberto Leone.

    A Selinunte è rimasto uno dei due figli di Pino, Bruno, titolare della pizzeria-ristorante “Africa”, mentre l’altra figlia sposata, Mariella, vive a Palermo. Durante la stagione estiva essa torna a Selinunte sia per aiutare il fratello Bruno nella gestione del locale sia per annusare quegli odori e gustare quei sapori che solo l’incantevole sito selinuntino può regalare. I familiari di Pino e i suoi amici più affezionati si rammaricano del fatto che Pino non è iscritto alla S.I.A.E. cosa che lo espone alla speculazione di “artisti” che nulla hanno a che dividere con la sua storia e con quella del nostro territorio.

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