• A3 Conad
  • A3 dottor Gianni catalanotto
  • A3bis Farmacia Rotolo
  • Farmacia Rotolo Castelvetrano
  • Orthotecnica A3bis fino al 5 gennaio 2025

Ricordando la musica dell'“Orchestra 2000” e dei “Satelliti” con Gino Rizzo alla batteria

del 2014-10-05

Dopo aver raccontato la storia dei complessi a Castelvetrano nell’era pre-Beatles, cominciamo adesso a vedere quali  sono stati i gruppi musicali che si sono formati, sempre a Castelvetrano, con l’avvento dei Beatles che hanno rivoluzionato totalmente  il modo di fare musica in tutto il mondo. 

  • Fratelli Clemente Febbraio 2023 a7
  • ANNO  1968-1969

    Il 18 gennaio del 1968 la terra ha tremato in tutta la Valle del Belìce. Io non avevo ancora compiuto quattordici anni. Con la mia famiglia ci siamo arrangiati, per i primi giorni, dormendo sia all’interno della nostra Fiat 850 Special sia in alcune carrozze ferroviarie messe a disposizione delle famiglie dei dipendenti delle Ferrovie, come mio padre.

  • h7 immobiliare catalanotto
  • Dopo qualche giorno trascorso nella precarietà più assoluta, mio padre acquistò una baracca che fece montare sul marciapiede della villa “Parco delle Rimembranze”, di fronte casa nostra nel viale Roma, accanto alle baracche di altrettante persone “sfollate”. Questo anche se alla nostra casa il terremoto, per fortuna, non aveva arrecato alcun danno.

    Per la verità quasi tutte le case di Castelvetrano non hanno subito danni strutturali, tanto che l’allora sindaco Vito Lipari non ha ritenuto opportuno dichiarare terremotata la nostra ridente città. Il timore, però, d’eventuali altre scosse, magari più violente, infondeva paura a tutti. Si preferiva, quindi, abitare in baracca, pur con tutte le difficoltà che una situazione come quella comportava. Trascorremmo alcune settimane nelle baracche, poi pian piano ritornammo tutti alle nostre case riprendendo una vita normale.

    Le baracche rimasero, comunque, montate ancora per bel po’ di tempo al solo scopo cautelativo. Fu così che, insieme ad alcuni miei amici amanti della musica, ne profittammo per adibire la mia baracca a studio musicale. L’intenzione era quella di formare un gruppo prendendo a modello, tanto per cambiare, i Beatles.

    Ci serviva la batteria e il basso in quanto io e il mio amico Nino Catalano avevamo già le chitarre che suonavamo discretamente. Ci armammo di grande fantasia, che allora né mancava né poteva mancare poiché i mezzi erano davvero scarsi e gli oggetti di svago ce li dovevamo inventare di sana pianta, e cominciammo a costruire degli strumenti rudimentali che avrebbero dovuto sostituire quelli veri.

    Adoperammo una “bagnera” bacinella di plastica, una “curdina” corda di nylon e un “vastuni” manico di scopa. In pratica, capovolgendo la “bagnera” e praticandole un foro al centro del fondo, abbiamo introdotto il bastone in quel foro. Abbiamo attaccato, poi, la “curdina” alle due estremità del bastone passando per il bordo più largo della “bagnera”. Così facendo, tendendo il bastone, la corda di plastica s’irrigidiva e, facendo finta di suonare un vero strumento, emetteva dei suoni acuti, mentre flettendolo la corda si ammorbidiva emettendo dei suoni gravi. In pratica bastava un buon orecchio e si potevano emulare delle vere note più o meno esatte col sistema di flettere e tendere la corda. Il suono a sua volta veniva amplificato dalla pancia della “bagnera”che fungeva da cassa armonica. L’improvvisato bassista fu Nino Nastasi.

    Per la batteria, invece, reperimmo quanti più possibile fustini di Dash, naturalmente vuoti, che funsero da timpani. Per bacchette usammo “li sagnatura”, i mattarelli per dolci.

    Per i piatti, invece, raccogliemmo i coperchi dei lampioni che illuminavano tutto il viale Roma, posti sopra il marciapiede della succitata villa che, a causa del terremoto, erano caduti per terra. Li attaccammo con dello spago al tetto della baracca ed ecco che la batteria, anche se molto artigianalmente realizzata, fu pronta per essere suonata. Il batterista, o simil-tale, fu il mio carissimo amico e compagno di liceo, Mario Lipari.

    Non eravamo certo i Beatles, ma che ce n’importava, a noi interessava soltanto potere suonare. Iniziammo a provare in maniera molto approssimativa in quanto mancavamo di tutto: da qualche amplificatore che potesse dare energia alle chitarre e al basso, all’impianto di amplificazione che ci avrebbe permesso di cantare utilizzando un microfono. Nella baracca, fra l’altro, non avevamo nemmeno la luce elettrica.

    Pensammo, nel frattempo, che se qualcuno di noi avesse imparato a suonare l’organo, nell’immediato futuro avremmo potuto ampliare il nostro repertorio. Mi feci avanti io, anche perché era lo strumento che preferivo suonare sin da bambino. La chitarra era stato soltanto un ripiego per problemi di natura economica. Col ricavato della vendita di un bel po’ di giornaletti, (fumetti di cui facevo la collezione), acquistai la mia prima “pianola” a ventola che ancora oggi posseggo, perfettamente funzionante.

    Eravamo, nel frattempo, rientrati a casa. Qui cominciai a trasferire tutte le mie conoscenze armoniche dalla chitarra alla pianola. Capivo che la musica, almeno quella teorica, doveva essere uguale su tutti gli strumenti. In effetti bastò applicare quelle stesse regole che avevo imparato sulla tastiera della chitarra che piano piano gli accordi vennero fuori da soli anche sulla tastiera della pianola. Nel giro di pochi mesi fui in grado d’accompagnare quasi tutte le canzoni d’allora. Chiamammo il gruppo: “I Riflessi”.

    Nell’estate dello stesso anno ebbi accesso al primo campeggio femminile che fu organizzato a Triscina dai padri “Rosminiani” di S. Ninfa. Essi avevano innalzato una tendopoli che, in seguito, divenne una colonia con tanto di fabbricato, bagni con docce, campo da tennis e calcetto. Oggi quello spazio è gestito dal professor Tonino Vaccarino che vi ha realizzato un cinema all’aperto: l’“Arena Samafé”.

    Ricordo ch’ero l’unico ragazzo ch’era stato autorizzato a potere partecipare alla vita del campeggio, ma soltanto in orari pre-serali. Mi trovavo, in pratica, in mezzo a cento belle ragazze, più o meno mie coetanee, messe in cerchio attorno a un falò. Il mio compito era quello di farle cantare con le canzoni d’allora. Meno male che gli anni sessanta sono stati gli anni più prolifici, sotto questo aspetto, e io mi tenevo continuamente aggiornato. Mi chiamavano “Gigi la chitarra” perché non me ne separavo mai.

    Spezzai qualche cuore in quei quindici giorni di campeggio, al quale seguirono altri quindici giorni in cui eravamo, invece, tutti maschietti. D’altronde era l’età delle prime “cotte” e io subii il fascino di qualcuna di quelle belle ragazze, ma questa è tutta un’altra storia.

    In quel periodo frequentavo la parrocchia di S. Francesco di Paola e fu in un giorno di quell’anno che padre parroco  Antonino Trapani. ci fece una sorpresa. Giunti in parrocchia trovammo tutta la strumentazione nuova, moderna ed elettrica, che il parroco aveva comprato nel nuovo negozio di Natale Curti a Mazara del Vallo. Noi non avevamo alcuna possibilità d’acquistare strumenti nuovi. L’unico negozio che vendeva strumenti musicali a condizioni vantaggiose era la ditta “Bagnini” in piazza di Spagna a Roma. Non so come, ma riuscivano a vendere i loro prodotti a solo mille lire al mese. Naturalmente ci volevano dieci anni prima di finire di pagarli, ma era pur sempre un’opportunità.

    Comunque, a noi de “I Riflessi”, il problema ce l’ha risolto il buon padre parroco acquistando: un vero organo elettrico, una vera batteria con tutti i piatti, un vero basso elettrico, una vera chitarra elettrica con i relativi amplificatori, nonché una vera amplificazione con tanto di eco per dare alla voce quella peculiare caratteristica molto utilizzata in quel periodo. Non stavamo più nella pelle, finalmente un vero complesso. Ci buttammo a capofitto sui nuovi strumenti e cominciammo a elaborare un nostro repertorio.

    Fu lo stesso padre parroco che c’invitò a suonare alla Messa: “Perché non imparate i canti domenicali e li accompagnate con i vostri strumenti”. Pensavamo: “Ma ch’è impazzito? Gli strumenti elettrici in Chiesa, che vuole fare scappare la gente?”. Lui, però, insistette, grandezza d’una persona! Insomma nacque la famosa “Messa beat”. I canti non erano più le solite litanie di stampo più o meno gregoriano, ma dei veri e propri brani rock e suonati, fra l’altro, a un volume non certo contenuto. Alla formazione si aggiunse un altro mio compagno di liceo, Peppe Asta, al sax.

    Avevo organizzato, nel contempo, un coro abbastanza nutrito di ragazzi e ragazze che frequentavano la parrocchia con i quali abbiamo provato i nuovi canti della Messa beat. La domenica, invece di tenerli uniti tutti intorno all’altare, li facevo sistemare sparpagliatamente fra la gente. Questo permise che anche le persone cantavano stimolate da un vicino che cantava a sua volta e non a bassa voce. Mettere, invece, il coro tutto da una parte avrebbe prodotto il risultato che la gente sarebbe rimasta ad ascoltare senza partecipare. Insomma con quei brani rock, ma con i testi religiosi, gli strumenti a tutto volume, il coro così ben distribuito, la gente invece di andarsene nelle altre chiese per assistere alla Santa Messa, vennero in massa nella nostra.

    Ogni domenica essa si riempiva da scoppiare, producendo affari d’oro per la chiesa e per il sacrista, se la vogliamo porre su questo piano. Tutto grazie alla lungimiranza di padre  Antonino Trapani.. Siamo stati imitati, poi, da tante altre parrocchie anche dei paesi vicini.

    A esempio il mio amico Ignazio Graziano mi ricorda che anche loro, d’accordo con i padri Francescani della Chiesa dei Cappuccini di Castelvetrano, in particolare con padre Agostino, decisero di dare vita alla S. Messa beat. L’esperienza, però, non ebbe un risultato positivo in quanto i fedeli, a sentire tutto quel frastuono di strumenti elettrici, per non parlare della rumorosissima batteria, si lagnarono e nel giro di poche domeniche sfumò il sogno di rendere più frizzante la Santa Messa. I ragazzi sospesero la Messa beat, ma rimasero nella chiesa, dove padre Agostino mise a loro disposizione dei locali che adibirono a sala prove per il gruppo.

    Ancora oggi, quando qualche amico o conoscente più o meno avanti negli anni m’incontra, mi dice con mia grande soddisfazione: “Gigi, com’era bellu quannu sunavi tu a la Chiesa”“Gigi com’era bello quando c’eri tu a suonare in Chiesa”.

    L’anno dopo, era il 1969, con la stessa formazione de “I Riflessi” suonammo per tutte e quattro le serate di Carnevale che avevamo organizzato presso la sala giochi della parrocchia. Fu la nostra prima uscita ufficiale. Dopo un paio di serate, avendo avuto un ottimo riscontro da parte dei tanti ragazzi e ragazze che vi avevano partecipato, ci montammo la testa e ci sembrò d’essere diventati dei divi. Così, nel bel mezzo della terza serata, escogitammo di mettere un disco che diffondesse la musica al posto nostro.

    Questo, però, doveva essere fatto in contemporanea. In pratica, a uno a uno, sospendevamo di suonare, mentre il disco si soprapponeva a noi. Ciò per evitare che ci fosse stata un’interruzione nel ballo. Lo scopo era quello di profittarne per scendere fra coloro che ballavano e invitare le ragazze che, secondo noi, si sarebbero strappate le vesti pur di potere fare un ballo con uno di noi. Chi ha coniato il detto “Fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” non è stato assolutamente un falso profeta.

    In pratica nessuno di noi riuscì a ballare, in quanto tutte le ragazze ci diedero la classica beffarda “coffa”. Si può ben immaginare con quale stato d’animo siamo risaliti sul palco: da guerrieri perdenti, feriti nell’orgoglio, vinti e umiliati dai vincitori.

    L’anno 1969 fu un anno molto proficuo per la nascita a Castelvetrano di nuovi complessi musicali. Un altro fu quello de “I Satelliti”, con l’indimenticabile fantasista Gino Rizzo alla batteria, (ancora giovanissimo ha trovato la morte in un incidente automobilistico occorsogli lungo l’autostrada A 29 all’altezza delle gallerie vicino Salemi), i fratelli Scarpinati, Vincenzo al basso e Calogero Lillo all’organo, Nicola Giaramita alla chitarra, Piero Callaci voce solista.

    Essendo tutti giovani e sprovvisti sia di auto sia di patente, si sono rivolti a Mariano La Barbera, inteso “Makumba”, mio grande e fraterno amico che ci ha lasciato qualche anno addietro in maniera inaccettabile: “morti arrubbata”, come usiamo dire nel nostro dialetto. Mariano, essendo più grande di età e proprietario di una Fiat 850 Super truccata, si era messo a disposizione dei ragazzi per accompagnarli nei posti dove andavano a suonare.

    Una volta, sempre accompagnati da Mariano, parteciparono a un Festival di complessi e voci nuove che si svolse a Bisacquino. I “Satelliti” vinsero il primo anno con “Visioni” dei New Trolls e l’anno successivo con “Davanti agli occhi miei”, sempre dei New Trolls. Purtroppo, avendo vinto anche l’anno precedente, la commissione ritenne opportuno non consegnare il premio promettendo che l’avrebbero spedito a casa, cosa che, invece, regolarmente disattesero. Il loro manager era Francesco Cicciu Palazzo.

    Un altro gruppo musicale che si formò nello stesso anno fu quello dei “Draghi”, composto da: i fratelli Pino e Renato Adorno, rispettivamente al basso e alla batteria, Rocco Giuseppe Rallo, detto Johnny, alla chitarra, Paolo Ingrasciotta, lu zu Paulu per rispetto in quanto era molto più grande degli altri ragazzi, al trombone. C’erano anche due elementi che provenivano da Salaparuta: Calogero Castronovo alla chitarra e Giuseppe Gruppuso all’organo. Anche il loro impresario-manager fu sempre Cicciu Palazzo. Gli amici avevano preso l’abitudine di chiamare Desmo il batterista, per via della sua passione per le motociclette. Quella di Renato, infatti, montava una testata marca “Desmo”.

    Un giorno, durante un matrimonio che i “Draghi” effettuarono a Partanna, mentre Paolo Ingrasciotta suonava il suo trombone a tiro muovendo la culisse avanti e dietro, s’avvicinò il padre dello sposo e gli disse che non gradiva essere preso in giro in quanto un suo cugino, che suonava il trombone nella banda del paese, lo teneva integro e non rotto come quello di “lu zu Paolu”. Prova un po’ a spiegargli che la tipicità di quello strumento sta proprio nel movimento opportunamente modulato della culisse.

    Il soprannome Johnny di Rocco Rallo proveniva dal fatto che egli, oltre a suonare discretamente la chitarra imparata frequentando la bottega di Paolo Sorrentino, era un bravo giocatore di pallone. Fu durante una partita in cui nessuno riusciva a segnare un goal che Johnny, con una bella mossa a sorpresa, ingannò il portiere e con un abile tiro alla fosbury riuscì a violare la porta della squadra avversaria.

    Nel contempo, con tutto l’entusiasmo e il fiato che aveva in corpo esclamò: “Te ‘ccà! Talia comu ti segnu all’inglesi, a la Johnny Charles” “Tieni! Guarda come segno all’inglese, alla Johnny Charles”. Questi era un noto giocatore, gallese, della Juventus al quale, fra l’altro, Rocco (da quel momento in poi, e ancora fino ai giorni nostri, solo ed esclusivamente “Johnny”), somigliava anche grazie alla sua apprezzabile altezza.

    Per quanto riguarda Renato, anche lui mio compare in quanto io e mia moglie abbiamo battezzato sua figlia Linda, a quell’epoca non era ancora maggiorenne. Profittando del fatto che suo padre era brigadiere della Pubblica Sicurezza, quando doveva andare a suonare a Salaparuta, si faceva accompagnare sul posto dalla volante che lo andava anche a prendere la notte quando finiva di suonare. Tipo molto bizzarro già da ragazzino, ebbe l’ardire di lasciare in asso, durante un Veglione di fine anno a Salaparuta, il suo complesso solo perché il comitato organizzatore della festa non volle fare entrare il suo fraterno amico Peppi funcia. Quella sera lo sostituì alla batteria Paolo Ingrasciotta.

    Un altro aneddoto che Renato mi racconta è quello accadutogli al “Jolly Hotel” di Castelvetrano. Quella sera era lì non per suonare, ma per ascoltare un gruppo formato solo da ragazze provenienti dal nord. Durante un passaggio, la batterista bucò la pelle del rullante e, scusandosi con il pubblico, chiese se per caso c’era qualcuno fra i presenti che la potesse aiutare. Renato, sotto questo profilo da sempre generoso, disponibile e altruista, si offrì di prestarle il rullante della sua batteria. La collega lo ringraziò e Renato corse subito a casa a prenderlo. La serata poté così continuare tranquillamente.

    Dopo avere suonato un paio di brani, le ragazze del gruppo pensarono d’invitare Renato a suonare qualche pezzo insieme a loro. Renato non se lo fece ripetere due volte. Praticamente fu lui a finire la serata, visto che avevano trovato una buona intesa musicale. Al termine gli offrirono anche di partire con loro, ma siccome Renato era ancora minorenne non ha potuto accettare perdendo, di fatto, un’occasione forse unica di potere fare il musicista professionista.

    Quasi in contemporanea i due musicisti di Salaparuta, Johnny, Renato e Gianni Corsentino alla chitarra, di Partanna, formarono un altro gruppo, i “Falchi” il cui manager, tanto per cambiare, era sempre Palazzo.

    Un altro complesso nato in quegli anni, fu quello de “I Ragazzi Arcobaleno”. Esso fu caratterizzato dalla particolare divisa fatta di pantaloni a campana molto larga (30 cm. di diametro) di diversi colori, uno per ogni elemento del complesso e un maglione a dolce vita anch’esso di diverso colore, cosicché i ragazzi sembravano un vero arcobaleno musicale. La formazione era composta da: Nino Nastasi al basso, Franco Cicciu Morrione alla chitarra solista, Franco Cicciu Triolo alla batteria e Franco Leto alla chitarra accompagnamento. Morrione era soprannominato “scricchiu”, a causa della sua statura corporea piccola e magra, “scricchiata” per l’appunto.

    Questo soprannome gli fu affibbiato da un suo carissimo amico del quale, però, non ricordo il nome. Quel che ricordo è che, purtroppo, fece una brutta fine quando, per gioco, si tuffò dal “ponte di ferro” alla foce del fiume Modione. Caduto violentemente, andò a conficcarsi la testa nella fanghiglia dell’alveo del fiume, dove morì sia soffocato dal fango sia dall’acqua stessa nella quale in pratica annegò. Questo davanti agli occhi atterriti dei suoi amici che dapprima avevano applaudito al coraggio del loro amico, ma poi, non vedendolo riemergere, si sono preoccupati e hanno avvisato le forze dell’ordine. Dopo un po’ sono sopraggiunti i pompieri che ne hanno estratto il corpo oramai senza vita. I suoi amici hanno assistito alla scena senza che potessero fare nulla. Essi mai avrebbero potuto immaginare che per un ludico tuffo si potesse fare una fine così atrocemente orrenda.

    Il manager de “I Ragazzi Arcobaleno” fu Salvatore Turiddu Triolo. A lui toccavano due parti: una perché metteva a disposizione sia l’impianto d’amplificazione sia l’auto e una perché contrattava gl’impegni. L’auto era una Fiat 850. Gli strumenti venivano sistemati sul portabagagli e gli strumentisti all’interno della macchina.

    Un giorno, trovandosi a passare sotto il piccolo e basso ponte di via del Re, proseguimento della via Agesilao Milano, meglio noto come “lu punticeddu”, e avendo sistemato il nuovissimo amplificatore 777 Meazzi di Nino Nastasi sul portabagagli, questo rimase incastrato con tutta la macchina nella bassa volta del piccolo ponte. Dovettero fare marcia indietro, “scorticando” maggiormente l’amplificatore e senza che potessero scendere dall’auto, in quanto l’auto si sarebbe alzata ancora incastrandosi di più. Alla fine sono riusciti a uscire da quella incresciosa situazione. A farne le spese fu l’amplificatore di Nastasi.

    Un altro particolare che posso raccontare è che spesso, quando si doveva provare, Franco Triolo se n’andava al cinema, del quale era molto appassionato, mancando di fatto alle prove. In quei casi Nino passava alla batteria e provavano lo stesso, anche se solo in tre. La loro, comunque, era una grande passione che coltivavano come quasi tutti noi musicisti veraci che suonavamo più per il piacere che ne traevamo che per un riscontro economico. I soldi, infatti, che riuscivamo a racimolare nei pochi impegni in cui andavamo a suonare, non bastavano a volte nemmeno a pagare le spese d’affitto dello studio dove facevamo le prove e delle bollette di luce che, puntualmente, arrivavano e dovevano essere onorate.

    Nino, allora fidanzato con Anna che poi sposò, aveva composto un brano a lei dedicato che aveva chiamato, per l’appunto, “Anna” (da non confondere con quello più famoso di Lucio Battisti). Un giorno, avendo deciso di regalarle la medaglia dell’amore (+ di ieri – di domani, della Ditta UNOAERRE), è dovuto ricorrere all’amico Franco Leto che, detraendola dalla sua quota, gli prestò la metà della somma occorrente per l’acquisto della medaglia.

    Nel frattempo entrai anch’io a far parte di questo complesso, all’organo, e Gino Sciacca voce solista. Fu, però, un’esperienza breve.

    Terminata l’avventura con i “Ragazzi Arcobaleno”, Nino Nastasi formò un nuovo complesso: i “Figli del Sole”. Vi fecero parte: Antonio Vivona alla chitarra elettrica, Massimo Trapani alla  batteria, Vittorio De Simone al sax e clarino, Baldo Leone alla chitarra elettrica, Anna Pellicane voce solista e lui, naturalmente, al basso. L’impresario era il noto pasticciere Nicolò Cocò Vivona.

    Paolo Filippi, che si occupava anche di produzione discografica, propose ai “Figli del Sole” d’incidere il brano “Anna” di Nino Nastasi con l’etichetta Unifunk di Milano. I ragazzi avrebbero certamente aderito all’iniziativa, ma le spese per realizzare il disco non erano assolutamente alla loro portata.

    Nel 1969, venticinquemila lire per ogni minuto di sala di registrazione più le spese per la copertina e la tiratura, almeno 3.000 dischi, erano una somma impossibile da racimolare e non se ne fece nulla. Il chitarrista Baldo Leone, oltretutto, doveva da lì a poco partire per il servizio militare. Vittorio De Simone, poi, andò a suonare con i “Dioscuri” di Mazara, poiché a un matrimonio a “Le Mirage”, lo sentì suonare Vito Messina Barazza, che già suonava con i “Dioscuri”, e volle portarlo con lui.

    Da ricordare che quando andavamo a suonare compilavamo i “Programmini musicali”, i “Bordereaux” o “Borderò”, dove inserivamo i brani che andavamo suonando durante l’impegno di matrimonio o la serata. Al compilatore arrivava poi, dalle varie Case Editrici, tutta una serie di partiture musicali, gratis, molto utili a chi sapeva leggere gli spartiti. Ben pochi, a dire il vero.  Eravamo, infatti, tutti ragazzi che avevamo imparato a suonare a orecchio, sfruttando soltanto la nostra grande innata passione per la musica.

    Continuando la carrellata di complessi che si formò in quell’anno a Castelvetrano, andiamo adesso ai “Pop ‘84”. Il gruppo era formato da: Vincenzo Chiofalo, inteso “Bassittuni” (praticamente soleva portare le basette molto lunghe e pronunciate stile oggi il cantante dei “Luna Pop”, per intenderci) al basso elettrico, Vincenzo La Barbera all’organo, Gaspare Spanò alla batteria e Luigi Gino Sciacca alla chitarra e voce solista. Il loro impresario, tanto per cambiare, era Ciccio Palazzo, nonché procacciatore d’impegni, anche se non sapeva a chi passarli prima visto che gestiva diversi gruppi.

    Un giorno i “Pop ‘84” furono invitati ad aprire il concerto che Gianni Nazzaro tenne, accompagnato dal suo gruppo, presso la sala “4 Stagioni” di Menfi. Il gruppo di Nazzaro, però, era sprovvisto di strumenti musicali, così utilizzò quelli dei “Pop ‘84”. Alla fine del concerto toccò a quest’ultimi continuare ad animare la festa facendo ballare tutti gl’invitati. Successe che in quel periodo i vari gruppi che si formavano utilizzavano l’inno del partito comunista, “Avanti popolo”, anche per fare ballare le persone.

    La stessa cosa fecero i “Pop ‘84”, proponendo l’inno sotto la veste d’un ballo genere tarantella. Non potevano, certo, immaginare che le persone che stavano ascoltando erano tutti simpatizzanti di destra, nostalgici fascisti per intenderci. Essi, non appena sentirono l’inno dei loro nemici politici, invece di mettersi a ballare minacciarono gli orchestrali di malmenarli se non avessero cambiato immediatamente musica.

    Un’altra volta, sempre nella stessa sala che si trova a ridosso della magnifica spiaggia del “Lido Fiori”, i ragazzi, finito di montare gli strumenti ed essendo ancora presto, ne profittarono per fare un bel bagno, visto che si era nella stagione estiva.

    Si da il caso che quel giorno gli sposi giunsero in anticipo e, invece di trovare i musicisti pronti al loro posto per accoglierli con la classica marcia nuziale, li trovarono spensierati a nuotare nelle chiare e calde acque di quella parte del mare mediterraneo.

    Non mi meraviglio affatto di questo incidente di percorso, poiché anch’io con i miei colleghi dell’“Orchestra Duemila” ci siamo trovati nella stessa identica situazione in occasione d’un matrimonio che si svolse, allora, presso la sala “Delfino” di Marsala.

    I “Pop ‘84”, sempre nella sala “4 Stagioni”, ebbero l’opportunità d’aprire anche un concerto della famosa cantante catanese Marcella Bella.

    Per quanto riguarda l’“Orchestra 2000” l’anno prima, quello del terremoto, era entrato a farne parte il terzo fratello Giammarinaro, Mario, anche lui “muluni” per via del cognome della nonna, Melone, in sostituzione di Nanà Bivona, inteso “lu gibillinisi”, proprio perché proveniva da Gibellina. Mario aveva cominciato a imparare i primi rudimenti sulla batteria già all’età di quattordici anni. Per comprarsene una che fosse tutta sua, fu costretto a lavorare. Lo fece presso una barberia del paese e vi rimase fino a quando non riuscì a racimolare i soldi necessari per potere acquistare la sua prima Ludwig, la migliore marca di batterie allora esistente. Egli fu, in parte, osteggiato dai suoi fratelli che non erano d’accordo sul fatto che anch’egli intraprendesse la carriera di musicista. Ciò, naturalmente, per il solito motivo affettivo di non distoglierlo dallo studio.

    La passione, però, per la musica nella famiglia Giammarinaro era più forte d’ogni altra cosa. Anche Mario, quindi, come quasi tutti noi, si fermò soltanto al diploma, ennesima vittima sacrificale immolata sull’altare dell’amore per la musica. Stessa sorte subì mio compare Pino Adorno, laureato mancato dopo essere stato incantato dalle lusinghe della musa Euterpe.

    Pino entrò nell’organico dei “2000”, al basso, in sostituzione di Alberto Tumbiolo di Mazara, cosicché la formazione risultò composta da: i tre fratelli Giammarinaro al gran completo, Vito alla chitarra solista, sax e clarinetto, Nello alla chitarra accompagnamento e tromba, Mario alla batteria, Simone Agola alle tastiere, Pino Adorno al basso e, occasionalmente, Giovanna Russo che sostituiva Tina Di Maio perché si trovava in stato interessante del figlio Silvio, futuro eccellente pianista.

    Durante un matrimonio alla sala trattenimenti “Colorado” di Strasatti (allora non c’era né “El Colorado Rio” né il “Simposio di Minoa”) gl’invitati, tesi per problemi personali fra le due famiglie, a un certo punto e dopo la classica goccia che fa traboccare il calice, si misero a bisticciare anche in maniera violenta.

    Cominciarono a volare bottiglie, sedie, tavoli e quant’altro in una max rissa che coinvolse quasi tutti. L’orchestra, naturalmente, si fermò subito di suonare, anche per allontanarsi onde evitare che qualche oggetto volante li colpisse. Uno dei parenti intimi degli sposi, però, li pregò di continuare e far finta di niente. Finì, praticamente, proprio come nei film western col pianista che, mentre suona, deve stare attento a scansare le bottiglie che gli arrivano dritto sulla testa.

    Un’altra volta, dopo avere montato gli strumenti nella sala di Nino Genco a S. Ninfa, i ragazzi della “2000” aspettavano ansiosi l’arrivo degli invitati che, stranamente, ritardavano molto più del previsto. Quando non sapevano più cosa pensare, finalmente giunsero alcuni parenti degli sposi a informare i musicisti che la cerimonia nuziale non aveva avuto luogo in quanto lo sposo non s’era presentato all’appuntamento. Al complesso non rimase altro che smontare gli strumenti e tornare alle proprie abitazioni. Si seppe, in seguito, che il promesso sposo ebbe un attacco di panico proprio poco prima della cerimonia. Egli rimase nascosto per diverso tempo all’interno di una stalla, non facendosi trovare da nessuno, per paura che lo obbligassero a sposarsi ugualmente.

    Anno di grande fermento musicale il 1969 che ha visto il formarsi del maggior numero di complessi sia a Castelvetrano sia negli altri paesi vicini. Uno di questi fu quello de: “Gli Atomi”. Esso era formato da Giovanni Patti al basso e voce, Gino Sciacca alla chitarra e voce, Aldo Giaramita alla batteria, Baldo Mastrantoni alla fisarmonica, Pippo Asta al sax e Peppe Vetrano (di Bisaquino) alla chitarra.

    Il fatto curioso che posso riportare fu quando, essendo andati a suonare a una festa ed essendo molto giovani, si trovarono in mezzo a una riunione festosa di professioniste del piacere (prostitute, peripatetiche). Non si persero d’animo e cercarono di fare ugualmente la loro bella figura. Il problema fu quando alla fine le “gentili signore”, per ricambiare la prestazione dei ragazzi, si offrirono di pagare “in natura”. A quel punto qualcuno preferì non farsi pagare, mentre qualcun altro accettò il baratto ben volentieri. Non me ne vogliano le mogli di chi ha accettato, tanto non si sa chi lo ha fatto.

    Non so se fu il terremoto dell’anno prima, come la pioggia quando fa uscire tutte le lumache, a fare spuntare schiere di musicisti che si misero insieme per formare tutta quella serie di complessi che, ancora oggi, suscitano il nostro interesse. Aggiungo, quindi, anche il gruppo de “Gli Anonimi”, formato da: i fratelli Grande, Giuseppe alla batteria e Martino alla chitarra, Vincenzo Scirè al basso, Francesco Russotto all’organo e Paolo Calcara alla chitarra accompagnamento.

    La storia degli “Anonimi” parte quando un giorno Martino, allora dodicenne, trovandosi nel magazzino di ricambi d’auto di Signorello e Clemente, prese un pezzo di cartone, trovato lì per caso, e non avendo cosa fare pensò bene di praticarvi due fori, alle estremità, ai quali annodò un elastico che teso emanò un suono. Si accorse, poi, che premendo l’elastico il suono risultava diverso e se cambiava il punto di pressione, esso modulava nuovamente. In pratica non scoprì certo né la carta vetrata tantomeno l’acqua calda, ma la chitarra, anche se già altri prima di lui l’avevano inventata.

    A quel punto necessitò d’uno strumento vero e proprio. Visto che il padre non volle saperne, Martino, per racimolare i soldi e comprarsi una chitarra fu costretto ad andare a raccogliere l’uva nelle campagne del professore Curseri. Questi in un primo momento aveva detto di no sia per la minore età di Martino sia per il fisico macilento, emaciato. Visto e considerato, però, che egli insistette molto, vedendo ch’era fortemente motivato e che il nobile scopo era di soddisfare il suo amore per la musica, lo accontentò, ma gli fece fare dei lavori più leggeri.

    Quando, dopo alcuni giorni di estenuante lavoro, Curseri gli consegnò i soldi che aveva faticosamente guadagnato col proprio sudore, si recò subito nel negozio di Granata alla fine del Corso V. Emanuele, dove comprò la sua tanto agognata chitarra. Martino, tornando a casa tutto contento, fece vedere la chitarra al padre che non gli disse nulla e lo lasciò fare.

    Frequentando, poi, sia la bottega di Paolo Sorrentino sia qualche amico che già conosceva gli accordi armonici, imparò presto anche lui. Coinvolse, quindi, il fratello Giuseppe che scelse la batteria e si rivolse a Franco Triolo, il quale fu ben lieto d’insegnargli quel che lui, a sua volta, aveva imparato da altri. Quando sia Peppe sia Martino dimostrarono al loro padre ch’erano pronti per suonare, egli li accontentò acquistando una batteria marca Hollywood al figlio Peppe e una chitarra con relativo amplificatore 444, prodotti dalla Ditta Meazzi, a Martino. A quel punto insieme a Vincenzo, Francesco e Paolo hanno formato il complesso degli “Anonimi”.

    A quei tempi, durante le feste di matrimonio, la gente per potere ballare richiedeva spesso dei balli di musica liscio. Un giorno accadde la stessa cosa agli “Anonimi” i quali, però, non avendo curato questo genere musicale, hanno avuto notevoli difficoltà. In pratica l’unico brano liscio che sapevano suonare era il tango della “Cumparsita”. Non conoscendo altri brani, alle incessanti richieste di musica liscio furono costretti a ripetere più volte sempre lo stesso pezzo, finché un signore s’avvicinò al palco dove essi suonavano e chiese: “Ma chissa sula sapiti sunari?” “Sapete suonare soltanto questa?”.

    Vuoi essere aggiornato in tempo reale sulle notizie dalla Valle del Belìce? Clicca “Mi piace” su Castelvetranonews.it o seguici su Twitter