"Quel giorno all'obitorio e il ricordo indelebile nella mia mente"
del 2017-05-10
Alcuni anni orsono, a seguito d’un incidente mentre giocavo al pallone, ho subito la frattura del tendine d’Achille, per il quale sono stato sottoposto a un intervento chirurgico di tenorrafia achillea. Nei giorni in cui rimasi ricoverato all’ospedale “Vittorio Emanuele” di Castelvetrano, mi servivo per gli spostamenti d’una sedia a rotelle. Un giorno, dovendo scendere al piano terreno, utilizzai l’ascensore. Dopo esservi entrato facendo girare le ruote della carrozzina a forza di braccia, ho premuto il pulsante piano zero.
Ero solo sull’ascensore che dopo qualche istante si fermò, poiché aveva raggiunto la destinazione richiesta. Si aprirono le porte e nuovamente utilizzai le braccia per far muovere le ruote della carrozzina, ma in senso opposto, cioè indietro, visto ch’ero salito in avanti. Uscito dall’ascensore, le porte si richiusero e lo sentii ripartire verso i piani superiori da dove qualcuno l’aveva chiamato. Nello stesso istante m’accorsi che i locali da me raggiunti non erano quelli del pianterreno. Pensai ch’ero andato a finire in qualche deposito merci, poiché c’era penombrae l’assenza completa di persone.
Richiamai l’ascensore in evidente stato di disagio. Questo, però, ritardava a tornare. Evidentemente altre parsone lo stavano utilizzando per le loro necessità. Durante la snervante attesa, ebbi modo di capire ch’ero andato a finire nell’obitorio dell’ospedale.
Mamma mia! Mi spostai un poco più avanti e vidi che le due stanze, una alla mia destra e l’altra alla mia sinistra ospitavano due cadaveri. Per la verità ho così supposto, ma dalla mia postazione vedevo solo le bare. Un brivido mi corse lungo la schiena. Non è che sia particolarmente pauroso, ma quella fantozziana situazione non era delle più piacevoli.
L’essere seduto, fra l’altro, s’una sedia a rotelle non mi permetteva certo di potermi muovere a mio piacimento. Estremamente teso, ritornai davanti l’ascensore che giunse da lì a poco tempo. Quando finalmente fui nuovamente all’interno dello stesso, emanai un sospiro di sollievo e fra un sorriso sardonico e una non celata espressione pavida, finì quella tragicomica esperienza.
In tempi più recenti mi sono trovato nuovamente all’interno di quei locali a me invisi, per andare a piangere degli amici che hanno esalato il loro ultimo respiro all’interno dell’ospedale. L’ultima volta che ho rivissuto questa triste e mesta esperienza è stato un anno fa in occasione della dipartita di mia madre. Anche lei è morta in ospedale, qui a Civitavecchia, e la sua salma è stata traslata nella camera mortuaria ubicata anch’essa nei piani seminterrati come a Castelvetrano.
Rivivere quei momenti, a parte la situazione personale, mi ha molto scosso. Non sono i cadaveri a farmi paura, ai quali mi sono abituato da tempo, avendo avuto molti parenti e amici d’accompagnare nel loro ultimo viaggio, ma soffro per un’atavica innata repulsione a tutto quello che non appartiene al mondo dei vivi.
Rimanere in un luogo così freddo (i locali devono essere opportunamente refrigerati per ritardare la decomposizione dei cadaveri), angusto, tetro, silenzioso, mi da un senso d’assenza dalla realtà, di vuoto esistenziale difficilmente decifrabile.
La persona cara, parente, amico o familiare che sia, è lì fredda, inerme o, forse, non c’è più fluttuando adesso in una nuova eterea dimensione. Salme, cadaveri (etimologicamente carne data ai vermi), corpi morti in attesa d’essere sepolti sotto un cumulo di terra o bruciati all’interno d’una funerea fornace per la cremazione, ecco cosa rimane di noi dopo l’ultimo passaggio in quell’angusta e vuota stanza obitoriale dell’ospedale.