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Cosa non va nella Chiesa di S. Domenico: "Impiantistica, collocazione delle opere d'arte e non solo".

del 2014-02-23

le installazioni elettriche visibili nel coro all'interno della Chiesa san Domenico

In foto: le installazioni elettriche visibili nel coro all'interno della Chiesa san Domenico

Di recente la Chiesa di San Domenico è ritornata ad essere fruibile al pubblico dopo anni di lavori di ristrutturazione. In tanti hanno esaltato la valenza culturale, architettonica di questa Chiesa. Tuttavia, alcune osservazioni "critiche" le ha evidenziate alla Redazione David Camporeale, giovane castelvetranese laureato in Beni Culturali. Di seguito i suoi rilievi tecnici: "Va meritatamente richiamando un crescente numero di visitatori la chiesa di S. Domenico a Castelvetrano, riaperta al pubblico dopo il recente restauro, diretto dall’arch. Gaspare Bianco, della Soprintendenza di Trapani.  

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  • Nella quasi totalità delle parti trattate, l’intervento di restauro appare tecnicamente realizzato in modo ineccepibile, restituendo appieno l’integrità strutturale, la definizione e la cromia originaria degli elementi del grandioso complesso monumentale che, come rilevato dal Riga nella sua memoria, trova la sua più alta e originale espressione nell’ Albero di Iesse, riconosciuto tra i maggiori capolavori dell’arte del Cinquecento in Sicilia.

    Ma l’atteggiamento esclusivista con cui le istituzioni culturali sono solite operare, senza avvalersi del necessario apporto di qualificati esperti esterni, ha manifestamente compromesso, in taluni aspetti, il risultato finale dell’opera di restauro.  

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  • Dei rilievi devono essere soprattutto mossi alla procedure seguite nella ricollocazione delle opere d’arte mobili, che non si sono debitamente ispirate a criteri filologici: il dipinto su tela di S. Raimondo di Peñafort, eseguito nel 1602 dal pittore trapanese Vito Carrera su commissione del Priore domenicano per celebrare la sua canonizzazione, proclamata l’anno precedente da Clemente VIII, e che si trovava affisso alla parete a sinistra della porta d’ingresso della chiesa, è stato collocato, in modo del tutto arbitrario e inopportuno, nella Cappella del Rosario.  

    Ma va ricordato che S. Raimondo, vissuto tra il 1180 e il 1275, venne chiamato a Roma da Gregorio IX, che lo volle suo penitenziere, incaricandolo altresì di ordinare e codificare il diritto canonico: compito che il grande domenicano portò alla luce nel 1234, dando alla luce i cinque libri delle Decretali, rimaste la più autorevole codificazione della legislazione ecclesiastica per quasi sette secoli, fino a quando, il 28 giugno 1917, Benedetto XV non promulgò il nuovo Codice di Diritto Canonico.  

    Sicché il Peñafort, rappresentato nel bel dipinto del Carrera con i codici che lo hanno reso celebre nella storia della Chiesa, nulla ha a che vedere con la cappella che nelle sue raffigurazione glorifica la celeste Regina della Vittoria di Lepanto, la Rosa Mistica, e le virtù beatifiche del S. Rosario che lei e Gesù Bambino donarono rispettivamente a S. Caterina e a S. Domenico perché, attraverso la preghiera, generasse nel mondo i suoi frutti di grazia.  

    Né può addursi come motivazione il fatto che il dipinto di Orazio Ferraro da Giuliana raffigurante la Madonna del Rosario, eseguito nei primi anni del Seicento, nell’aprile 1982 sia stato mutilato da vandali prima dei quadretti di contorno poi della raffigurazione centrale, restando solo un brandello della parte superiore, conservato a S. Giovanni: in tal caso, la sola sostituzione legittima dell’originale appare una copia, o una riproduzione fotografica, o un dipinto del medesimo soggetto, lasciando così inalterato il rigoroso e suggestivo contesto iconografico.  

    Parimenti, non appare giustificata la rimozione dall’altare principale della statua di culto, che non rappresenta S. Domenico bensì S. Vincenzo Ferrer, come attestato inequivocabilmente dall’attributo della fiamma che arde sul suo capo: scelta verosimilmente compiuta in onore di Giovan Vincenzo Tagliavia, che nel 1470 edificò la chiesa, divenendo barone di Castelvetrano il 13 maggio 1491 e suo primo conte il 5 aprile 1522 (giorno in cui, per onorare l’altro suo santo eponimo, fece giungere da Palermo la stupenda statua marmorea di S. Giovanni Battista di Antonello Gagini, collocandola nella primitiva chiesetta al lui intitolata).  

    Per quanto riguarda l’impiantistica, che si è reso necessario adeguare nell’ambito dell’intervento di restauro, appare disdicevole il posizionamento dei due quadri elettrici di comando alle spalle dell’altare maggiore, dove restano alla vista di quanti si recano a visitare la cappella del coro: sarebbe stata opportuna una maggiore cura per ottenere una più idonea collocazione; e il medesimo rilievo va fatto per il fascio di fili, ricoperto da una guaina di gomma, che passa sul pavimento davanti al sarcofago marmoreo dei Tagliavia e per i coperchi in plastica delle cassette di derivazione che restano spiacevolmente in vista lungo la navata centrale.  

    Utilizzando i mezzi e le tecniche che l’industria di materiali elettrici mette oggi a disposizione, e con il consiglio di installatori esperti, si sarebbe potuto facilmente ovviare a tali inconvenienti. Una maggiore attenzione si sarebbe dovuta prestare anche all’illuminotecnica, sia nella scelta che nella dislocazione dei corpi illuminanti, alcuni dei quali (come i faretti installati nel coro) sono fastidiosamente rivolti verso lo spettatore, abbagliandolo e impedendogli di osservare le figure retrostanti.  

    Tali doverosi rilievi vogliono costituire delle mere indicazioni, informate alle più recenti e avanzate teorie del restauro, ma non intendono minimamente sottrarre alcun merito all’architetto Gaspare Bianco, che ha diretto il restauro con grande professionalità e impegno, né ai suoi valenti collaboratori, che hanno generosamente prodigato ogni sforzo per permetterci oggi di ammirare, come mai prima, la chiesa-mausoleo dei Tagliavia".

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