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L'altare di San Giuseppe, espressione di fede e opera d'arte. A CVetrano rivive la tradizione grazie ai volontari

di: Vito Marino - del 2018-03-15

L'altare di San Giuseppe realizzato da Dora Bologna e da Esposito Teresa è visitabile presso i locali attigui all'ingresso dell'aula consiliare nel Sistema delle Piazze

In foto: L'altare di San Giuseppe realizzato da Dora Bologna e da Esposito Teresa è visitabile presso i locali attigui all'ingresso dell'aula consiliare nel Sistema delle Piazze

L’altare, maestoso nella sua struttura, rappresenta un’espressione di fede, un’opera d’arte, ma anche un pezzetto della cultura castelvetranese smarrita nel tempo, che riprende a vivere dopo più di mezzo secolo di incuria da parte dei privati e delle passate amministrazioni comunali.

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  • Come semplice cittadino e come cultore delle tradizioni popolari siciliane, sento il desiderio e il dovere di ringraziare il sindaco, l’amministrazione comunale e la cooperativa “il sorriso” per l’iniziativa. In effetti, questa iniziativa era rinata e continuava timidamente ad esistere da alcuni anni, per opera dei fedeli, presso la chiesa diroccata di San Giuseppe; quest’anno saranno cinque altari a fare bella mostra di sé, come avveniva ai vecchi tempi. Una cultura che era rimasta latente nella mente di chi ha una venerabile età e oggi rinata. Sarà forse la crisi economica, che ci riporta cultura della scomparsa civiltà contadina.

    Una civiltà povera come povero è nato ed ha vissuto Gesù, ma che ci fa conoscerei i veri valori della vita, che non sono legati al dio denaro ma a qualità più alte che stanno nascoste nell’animo umano. In fondo all’altare è stato collocato un semplice quadro a stampa della Sacra Famiglia, che una volta ornava icapezzali del letto nuziale. Sicuramente non è stato posto come ornamento ma rappresenta un simbolo più che mai attuale della famiglia, formata dal marito, dalla moglie e dai figli.

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  • La famiglia nella storia e tradizione siciliana è stata sempre considerata sacra, indivisibile, e irrinunciabile, con numerosa prole. Oggi si assiste al suo disgregamento con bisticci, separazioni, divorzi, uccisioni fra i coniugi. I giovani evitano il matrimonio o al massimo convivono, ma preferiscono restare single, e godere della libertà, ma come conseguenza tutta la società va male. I ragazzi, senza una famiglia tradizionalmente sana, non trovando il tutore su cui appoggiarsi per crescere dritti, crescono disadattati, si drogano, hanno l’omicidio più facile e si suicidano quando devono superare certi grossi ostacoli. Nelle passate legislature, oltre che a bisticciare fra loro, i cosiddetti “onorevoli” nulla hanno fatto affinché la famiglia, il fulcro principale di tutta la nazione, non vada a finire nella miseria costringendo le persone più buone, più responsabili e sensibili al dolore, a suicidarsi. La dr.ssa Arianna Maniscalco, durante la manifestazione ha relazionato sugli aspetti culturali e sulla genesi degli altari. Il Sindaco, Avv. Felice Errante, e gli assessori Francesca Catania ed Angela Giacalone, presenti alla manifestazione di apertura, hanno illustrato, ai numerosi presenti, lo scopo dell’iniziativa. La devozione del popolo verso San Giuseppe, venerato come protettore dei falegnami, delle ragazze nubili e degli orfani, è stata sempre sentita da tutta la popolazione.

    A Castelvetrano, una volta alla Sua festa provvedeva la confraternita dei falegnami. Il Patriarca incominciò a venerarsi come ricorrenza nel 1479 sotto il Papa Sisto IV, che lo inserì nel calendario per il giorno 19 marzo. Nella Valle del Belìce la devozione per San Giuseppe iniziò nel XVIII secolo. Le radici, però, affondano nelle celebrazioni pagane legate al culto di Demetra prima e poi di Cerere, entrambe divinità delle messi, che in Trinacria, per secoli granaio d’Italia, furono particolarmente venerate.

    Con il subentrare del Cristianesimo, intorno al IV secolo, la tradizione è pervenuta sino a noi con un diverso tipo di altare, aggiungendo alla simbologia arcaica pagana, quella sacra cristiana. Oggi tutta questa rappresentazione teatrale barocca si fa ancora per fede cristiana ma anche per folclore, affinché non vada perduta questa inestimabile tradizione.  

    Da una donna anziana ho appreso, ma ne ho avuta conferma da altre fonti, che ad iniziare dal 1° mercoledì dopo l'Epifania e fino alla ricorrenza, si festeggiava il Santo in chiesa con "li mercuri sulenni" e "li mercuri vasci". I primi, finanziati con i soldi raccolti fra i fedeli, con funzioni più solenni; i secondi, celebrati gratuitamente dalla chiesa, erano meno appariscenti. In quelle occasioni si cantava "lu viaggiu di San Giuseppi" con accompagnamento d’organo e violino e si recitava "lu rusariu di San Giuseppi".

    Alla fine della funzione, avveniva lo sparo dei “mascuna” (mortaretti), “tammurinata” e “scampaniata”, tre manifestazioni che hanno da sempre accompagnato le principali feste religiose. Si tratta d’espressioni esteriori barocche che allietano e fanno da contorno alle ricorrenze festive religiose.

    In merito un proverbio antico dice: -“Nun c’è festa senza parrinu e mancu senza tammurinu”-. Se la memoria non m'inganna, a Castelvetrano il festeggiamento si effettuava nei giorni 17, 18 e 19 Marzo. Nei giorni 17 e 18 la gente portava fiori in chiesa al Santo, che veniva posto su un altare molto in alto con una scalinata piena di candele accese.

    La chiesa era “apparata” (addobbata) con lunghi drappi colorati ornati con fregi e angeli dorati, tutta una fastosità barocca molto usata in quei tempi per le feste religiose più importanti. “L’apparaturi”, era, come sempre, “don Pippinu Vajana”. Durante i primi due giorni, nella Via V. Emanuele (la strata di la cursa), per allietare la popolazione, si effettuava la corsa dei “giannetti” (cavalli da corsa).

    Nel pomeriggio del giorno 19 iniziava la processione del Santo, che girava per le vie della città. Alla processione partecipavano i “fratelli” della confraternita dei falegnami e bottai che, vestiti tutti di bianco, con saio, cappuccio e visiera portavano delle aste sormontate dalla figura di San Giuseppe. C’erano sempre “li virgineddi”, bambini vestiti da angeli che portavano i “gigli bianchi di San Giuseppe”. Il corteo era preceduto dai “tammurinara” e seguiti dalla banda musicale.

    Alcuni fedeli, che avevano fatto promessa al Santo per ricevere grazie, camminavano a piedi scalzi e portavano i ceri accesi in mano. Il Santo veniva posto sul carro trionfale ornato di fiori e piante verdi. Al rientro della processione, verso la mezzanotte, si sparava “lu iocu di focu” (i fuochi pirotecnici). In onore di San Giuseppe, mia madre, davanti al presepe di Natale, recitava “lu rusariu di San Giuseppi” e cantava “lu viaggiu di San Giuseppi” Dei due brani conservo le parole ed il motivo (che ho trascritto in musica).

    Il terremoto che avvenne a Castelvetrano la notte del 15 gennaio 1968 arrecò pochi danni alla chiesa a Lui dedicata, posta in Piazza Diodoro Siculo (ex Chianu di lu puzzu di li Sitti); ma, dopo alcuni mesi di transennamento, l’amministrazione comunale di allora pensò bene di demolire chiesa e convento annesso e così risparmiare tempo per le pratiche di ricostruzione. Da quella data tutte le tradizioni sul Santo andarono in disuso. Secondo la tradizione, una persona bisognosa, pregando il Patriarca nel chiedere una grazia, può promettere una festa in Suo onore: “Lu votu”.

    Questa solennità si compone del “mmitu, tavulata ed artaru”. A grazia ricevuta, il fedele prepara l’altare promesso e una “cena” o “tavolata” dove invita “la Sacra Famiglia” (una famiglia bisognosa) in casa propria, E’ noto che durante la civiltà contadina, la povertà e la fame regnava presso le famiglie più umili della classe operaia e contadina.

    Questa regola dura di frugalità veniva interrotta in quel giorno, con un banchetto composto da più di “centu e una pitanza”. Tutti prodotti ricavati dalla campagna e cucinati in tanti modi. Era il massimo che una persona, durante la civiltà contadina di allora poteva offrire ad un santo per la grazia ricevuta. Quando ero bambino (anni ’50), ricordo che a Castelvetrano la mattina della ricorrenza, vedevo passare in processione: "don Mariddu lu tammurinaru" (Mario Pompei), che si dava da fare a percuotere il tamburo per attirare l'attenzione della gente.

    Al suo seguito c'era "la Sacra Famiglia" con: “San Giuseppe” (un vecchietto appoggiato ad un lungo bastone con il giglio fiorito, una tunica turchese che lo ricopriva fino ai piedi e la testa inghirlandata), la “Madonna” (una ragazza con una lunga veste celeste ornata con ricami e merletti) e “lu Bomminu” (Gesù, un bambino vestito di bianco con nastro azzurro ai fianchi); seguivano alcune verginelle (delle bambine avvolte di bianchi  veli e con il giglio in mano), i fedeli completavano il gruppo.

    Questo corteo, dopo avere girato per alcune strade del paese, si dirigeva verso la chiesa del Santo, per una funzione religiosa, quindi si recava in casa di chi aveva fatto il voto. La casa si riconosceva per i rami di palma posti ai fianchi della porta d’ingresso.

    Per rispettare il cerimoniale, la Sacra Famiglia trovava la porta chiusa. San Giuseppe bussava alla porta e dall’altra parte si chiedeva: “Cu è? soccu vuliti?” (Chi è? cosa volete?). La risposta era: “Su tri poviri piddirini, chi addumannanu arrisettu” (sono tre poveri pellegrini che chiedono sistemazione). Siccome nessuno apriva, la scena si doveva ripetere tre volte; alla terza volta la porta si apriva al grido di “Viva Gesù, Giuseppi e Maria” e clamorosi applausi.

    Questi “invitati” alla “tavulata”, una volta erano scelti fra le persone più bisognose, a cui mancava addirittura il pane per sfamarsi; oggi sono scelti fra volontari devoti, per allietare la festa. A mezzogiorno in punto, dopo che il prete aveva dato la benedizione, si serviva il pranzo in una stanza adiacente all'altare, su una tavola lunga, coperta da una tovaglia bianca, mentre fuori si sparavano "li mascuna" (i botti).

    Ancora oggi, secondo la tradizione, sul tavolo del banchetto, accanto a ciascuno dei “Santi” invitati, sono posti tre pani di diversa forma. Davanti a “San Giuseppe” è posto un pane a forma di bastone, simbolo della saggezza; davanti alla “Madonna” un pane a forma di palma, simbolo della pace. Infine, davanti al “Bambino Gesù” è posto un pane a forma di sole, simbolo della Signoria di Cristo sull’universo.

    La prima pietanza del banchetto è rappresentata dall’arancia, seguono gli assaggi di un’infinità di pietanze, come la “Pasta di San Giuseppe”, frittelle varie di verdure, ortaggi e frutta di stagione, pesci, uova (niente carne perché è periodo di quaresima); infine, ci sono i dolci di tutte le varietà in uso nel paese come pignulati, minnulati, sfinci, cannola, cassateddi, cassati, dolci a base di ricotta, nonché molti altri a base di pasta di mandorla.

    Durante il pranzo, tre ragazze da marito servono a tavola ed imboccano, come atto di umiliazione, gli invitati; infatti, secondo la tradizione, gli “invitati” non devono toccare il cibo. Ad ogni portata, servita a tavola, c’è un rullo di tamburo con “evviva Gesù Giuseppe e Maria”, con la risposta di tutti “evviva”.

    Servito il pranzo, si scioglie il voto ma, davanti all'altare continuano le preghiere ed i canti dedicati a San Giuseppe, ancora per una diecina di giorni; i numerosi fedeli, che vanno a fare "lu visitu", ricevono come dono "panuzzi" e dolci. L'altare, frutto di vera fede religiosa dedicata al Patriarca, rappresenta anche un vero capolavoro d'arte popolare. Per la sua costruzione, per la preparazione delle pietanze e specialmente dei pani e "panuzzi" riccamente lavorati, occorrono decine di giorni di lavoro e vi partecipano tutti i vicini di casa.

    La struttura in legno dell’altare prevede alcuni ripiani (di solito tre) a forma di gradinata, coperti da una tovaglia bianca; in cima agli scalini è posta un’immagine della “Sacra Famiglia”. I doni posti sull’altare: pane, agrumi, fiori, rametti di mirto, d’alloro, d’ulivo e di palma, raffigurano offerte di ringraziamento a Dio, per i prodotti avuti dalla terra ed un auspicio di buon raccolto.

    Per i contadini di una volta, il grano, era tutta la ricchezza di una famiglia. Si lavorava un intero anno, per portare a casa la provvista alimentare del prossimo anno. Da esso si ricavava l'alimento, direi unico per sopravvivere, che, pertanto, si considerava come qualcosa di sacro. Degno degli onori, riportato sull’altare di San Giuseppe, il pane di frumento, nelle forme e figure più diverse, rappresenta il simbolo della nostra cultura e della tradizione cristiana.

    Così, c’è la figura della sfera, con la scritta J.H.S. (Jesus Hominum Salvator); la scala, la croce, la corona di spine e i chiodi, che rappresentano la passione di Cristo. “Li cucciddati”, a forma di sole, simboleggiano la luce divina. “La serra e lu marteddu”, i ferri del mestiere del Patriarca; i cuori indicano l’amore fra i membri della Sacra Famiglia. Inoltre ci sono le figure di colomba, aquila, pavone, fiore, foglia, sacra famiglia, calice, stella, ecc. "Li panuzza" sono dei panini in miniatura lavorati così bene da farli diventare dei veri capolavori d’arte, da fare invidia ai migliori ceramisti di Capodi-monte.

     A documentare la sacralità del pane a Salemi, per la festa di San Biagio (il 3 febbraio) fra gli ornamenti di alloro, mirto e fiori, emergono i tradizionali pani fatti di pasta non lievitata e cotti al  forno, chiamati “cuddureddi” e “cavadduzzi”. I primi simboleggiano la gola di cui San Biagio è protettore, i secondi ricordano la liberazione dalle cavallette nel 1542. Per la ricorrenza di San Giuseppe conserviamo una consuetudine rimasta immutata da secoli: “lu tianu di San Giuseppi”.

    Il condimento è preparato con tutte le verdure di stagione, cucinate nelle maniere più varie, con l’aggiunta di uva passa, pinoli e sarde fresche. In un tegame si dispone a strati la pasta già cotta, alternata con il condimento e abbondante salsa di pomodoro; sopra si dispone uno strato di mollica e “mennuli atturratati” (mandorle abbrustolite) e il tutto va a finire nel forno per la cottura finale. Una volta, chi non aveva il forno in casa o per evitare di “camiallu” (riscaldarlo), questa pietanza si sistemava in un tegame di terracotta, che si disponeva sulla “fornacella” col carbone acceso. Sopra, su un particolare coperchio di terracotta, si sistemava altro carbone acceso (focu sutta e focu supra). I dolci tipici della ricorrenza erano “li sfinci di San Giuseppi”.

    Proprio in questi giorni è stato realizzato l'altare di San Giuseppe ad opera di Dora Bologna e di Teresa Esposito ed è visitabile presso i locali attigui all'ingresso dell'aula consiliare nel Sistema delle Piazze.

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