25 Aprile tra storia e questioni irrisolte dopo tanti anni
di: Alfonso Indelicato - del 2015-04-26
(ph. www.pu24.it)
Il 25 aprile 1945 segnò la sconfitta del Fascismo. Nessuno può, ovviamente, dubitare di questo e non prenderne atto.
Da allora abbiamo preso un’altra strada: abbiamo libere elezioni, un parlamento, libertà di stampa, una pluralità di formazioni politiche e sindacali che consentono ad ogni cittadino di trovare una casa per le proprie idee.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che non tutto è andato come doveva. Osservando la situazione attuale, si potrebbero infatti cogliere tanti segnali di una crisi – non solo economica – di cui non si vede la fine, segnali tanto chiari e tanto noti che non è neppure il caso di chiamarli per nome.
Ma tant’è, indietro non si torna, diceva colui che del Fascismo fu il capo e che pagò con la vita una guerra sbagliata e rovinosa, anche se non priva di episodi di incredibile eroismo da parte del nostro esercito impegnato su sette fronti.
Festeggiare il 25 aprile, dunque, dovrebbe essere un evento fisiologico per una Nazione che contempla la propria storia e ne vuole ricordare i passaggi epocali.
Ma così non è, e non sarà finché non saranno affrontate e risolte alcune questioni, le quali immancabilmente si presentano come convitati di pietra alle prime note della fanfara che celebra in piazza quella giornata che per alcuni fu di gioia e speranza, per altri di desolazione e paura.
Non si tratta tanto di ritornare sugli episodi oscuri della Resistenza: quelli oramai sono cosa nota anche al grande pubblico, soprattutto grazie all’opera del giornalista scrittore Giampaolo Pansa.
Lo stesso presidente emerito Giorgio Napolitano li ha ricordati in un recente intervento sul Corriere che conteneva diversi passaggi condivisibili dal lettore di qualsivoglia orientamento.
Lasciamo da parte, dunque, la conta e la contrapposizione dei morti: opporre la strage di Schio alle Fosse Ardeatine è operazione che non porta lontano, e probabilmente irrispettosa sia per gli uni che per gli altri sterminati.
Di tutte queste problematiche – le quali sono storiche, ma anche, e purtroppo, di politica attuale – vogliamo qui evidenziare solo la seguente, che poniamo in forma di domanda.
I militi che combatterono nella Repubblica Sociale erano, rispetto ai partigiani, esseri umani di serie B o erano piuttosto persone che fecero la loro scelta per motivazioni simili a quelle dei primi: chi per caso, chi per avventura, chi per obbedienza, chi per convenienza, chi per malaffare, chi per un ideale?
Detto altrimenti: c’era fra partigiani e aderenti alla RSI una differenza antropologica, oppure non c’era?
E se non c’era (come noi crediamo) perché non si possono ricordare oggi pubblicamente anche questi morti, questi che erano anch’essi italiani, come lo erano i primi?
Perché essi vengono invece commemorati in cerimonie appartate, quasi clandestine, e spesso protette dallo schieramento di forze dell’ordine contro manifestazioni ostili?
Si suole rispondere a questa domanda dicendo che essi combattevano dalla parte sbagliata.
Ma è facile dirlo oggi, dopo che la storia patria ha operato tante svolte, e siamo così diversi, e così diversa è l’Italia da quella che affrontò i drammi del settembre-ottobre 1943.
I ragazzi che scelsero il grigioverde della divisione Monterosa o si arruolarono nella Decima MAS non avevano memoria del parlamentarismo giolittiano, e non potevano neppure antivedere la democrazia post-bellica.
Non avevano dunque termini di paragone rispetto al regime in cui erano vissuti. Non meritano forse un posto nella nostra storia, essi che erano, come i loro avversari di quel tragico tempo che fu, italiani?