Anoressia: "un disturbo alla moda"
di: Desirè Giancana - del 2012-06-15
(ph. universonline.it)
In Italia si calcola che ogni anno almeno 6.000 persone si ammalino di anoressia nervosa e i dati sono,purtroppo,destinati a crescere. Gli individui affetti sono per lo più istruiti,economicamente avantaggiati,di sesso femminile,adolescenti e radicati nella cultura occidentale. Ma cos’è l’anoressia? Letteralmente la parola significa “senza appetito” ma in realtà il malessere è molto più complesso e non si può ridurre ad una semplice inappetenza. Si tratta più propriamente di una “repulsione nei confronti del cibo”. Cerchiamo allora di comprendere cosa rappresenta, in genere, il cibo.
Il cibo è l’equivalente psichico del sentimento dell’amore e la nostra vita emotiva non è mai disgiunta dai simboli legati alla nutrizione. Amore e cibo sembrano potersi sostituire a vicenda e questo è evidente in taluni stati emotivi;dalla veglia funebre che sfuma nel “banchetto di consolazione” agli innamorati che,proprio perché colmi d’amore,perdono l’appetito, da quelli che invece sperimentano le pene d’amore e scoprono un’immediata “vocazione” per i dolci, all’obeso che dimagrirà solo se si sentirà più amato. Con lo stesso meccanismo si spiega la golosità delle persone anziane,non più sorrette da valide prospettive affettive.
Un ultimo esempio ci viene dall’esperienza, certamente comune, delle cene a buffet;infatti, mi è capitato spesso di osservare il comportamento davvero singolare di persone distinte,assolutamente impeccabili un attimo prima e,poi, un attimo dopo,davanti ad un abbondante buffet, scatenarsi in una danza quasi tribale di avvicinamento alla tavola imbandita e iniziare una lotta per il “procacciamento del cibo” da Homo Erectus, suscitando in me un umorismo di pirandelliana memoria.
In pratica i nostri bisogni psicologici si rispecchiano nelle nostre abitudini alimentari. Si può allora parlare di valore psicologico di taluni cibi, come per esempio il cioccolato che consola e ricompensa una perdita affettiva, i cibi afrodisiaci(frutti esotici) che risvegliano la libido, cibi che sottolineano lo stato sociale(caviale), cibi per adulti(vino, caffè). Il nutrimento è dunque collegato nell’inconscio con il bisogno di cure amorevoli,poiché soddisfa simultaneamente il bisogno fisico della fame e il desiderio psichico della sazietà. Posta la connessione fra cibo ed eros torniamo all’anoressia. Perché l’anoressica rifiuta il cibo?
Ciò che sul piano diagnostico caratterizza l’anoressia nervosa è la ricerca fanatica della magrezza in rapporto a un’opprimente paura d’ingrassare. Gli elementi che concorrono a predisporre un terreno fertile sul quale può innestarsi il disturbo sono di origine psichica(l’anoressia si sviluppa a partire da un’immagine distorta del proprio corpo che si percepisce, malgrado tutti i sacrifici,come inadeguato), di origine familiare(la malattia insorge come modalità di risoluzione di un conflitto intrafamiliare che altrimenti resterebbe inespresso)e di natura socioculturale(l’anoressia è diffusa principalmente nelle culture che propongono la magrezza quale canone assoluto di bellezza,promuovendo perciò l’esilità a virtù). Questi tre fattori interagiscono nel determinare l’insorgenza della patologia.
L’anoressia è l’espressione,dunque,di un disagio psichico, familiare e ambientale insieme, in cui il malato “mette in scena” il suo dramma,attraverso il suo corpo,che reagisce distaccato dai messaggi affettivi della psiche in termini di rappresentazione verbale. Il corpo, che normalmente funge da cuscinetto fra stimoli interni e stimoli esterni,tra ciò che è dentro e ciò che è fuori da NOI (e il cibo rappresenta l’elemento che noi da fuori mettiamo dentro, ingerendolo) diviene depositario di questo conflitto e “si ammala”, giungendo fino a forme estreme di masochismo e autodistruttività. In quest’ottica l’anoressia rappresenta l’estremo tentativo di cura del Sé,mediante uno spietato autocontrollo della disciplina del corpo.
La metamorfosi kafkiana illustra in modo assai eloquente il rapporto fra psiche e soma,vale a dire della nostra relazione col mondo. Il disturbo psicosomatico è cioè l’incapacità di relazionarsi a sé stessi e con gli altri. La difficoltà nei rapporti interpersonali è sublimata dalla “perversione del cibo” che viene utilizzato quale strumento per controllare gli altri(nella fattispecie i genitori che, preoccupati, si concentrano sulla sola necessità di fare mangiare il malato,anziché concentrarsi sulla immaturità affettiva di cui veramente soffre).Il problema viene poi amplificato dall’assente coscienza di malattia da parte dell’anoressica e quindi di totale chiusura e rifiuto di qualsiasi aiuto.
Ad aumentare questa incoscienza, a mio parere, contribuiscono molto anche i messaggi veicolati quotidianamente dai mass media. La malattia è oggi più che mai impregnata da un senso di competizione rispetto all’essere “la più magra” e “la più straordinaria”(io direi la più straordinariamente magra!). In una società opulenta e ben nutrita come quella occidentale lo “stare a dieta” è diventato, infatti, una norma sociale che agisce come pressione di persuasione in ragazzine adolescenti impressionabili.
E poiché l’adolescenza è un periodo estremamente delicato, di passaggio dalla dipendenza dell’infanzia alla autonomia della fase adulta, gli adolescenti sono assai più sensibili al giudizio degli altri e il valore personale è maggiormente legato all’immagine esteriore. Per le ragazze il corpo è un potente mezzo di comunicazione e di relazione ed essere magre può diventare un requisito essenziale per sentirsi ed essere accettate. Questo è il messaggio che manda la società.
L’idealizzazione della magrezza viene spinta all’esagerazione nelle anoressiche che, confrontandosi con questi modelli,perdono ulteriormente stima e fiducia in se stesse. Siamo di fronte ad un’epidemia sociale, ad un “disturbo alla moda”, in cui l’anoressica diviene la rappresentante di una struttura in crisi, che comprende la famiglia e l’organizzazione sociale. Bisognerebbe riflettere di più su i punti di riferimento che offriamo alle adolescenti e cercare di fornire loro un aiuto concreto, a cominciare dalle agenzie di socializzazione tradizionali,quali la famiglia e la scuola.
Un supporto valido che inizi dal ridisegnare il rapporto con il cibo, con il corpo,con l’idea di bellezza,con il riconoscimento e infine verbalizzazione della malattia, fino al raggiungimento della guarigione.