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Ricordando le case antiche di “petra e taiu” con i forni per fare il pane in famiglia

di: Vito Marino - del 2014-11-15

Immagine articolo: Ricordando le case antiche di “petra e taiu” con i forni per fare il pane in famiglia

(ph. www.fotografieitalia.it )

La casa rurale del contadino dei vecchi tempi era composta da un solo vano, umido, senz’acqua, senza gabinetto e, spesso, in coabitazione con gli animali domestici. Il tetto si presentava alto ad uno o più spioventi, sorretto da travi di legno e coperto da “canali” (tegole - il coppo siciliano).

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  • A seconda della disposizione delle tegole, il tetto era chiamato: “A canali anniati”, perchè le tegole erano disposte nella stessa direzione dei “serratizzi” (listelli di legno) “a canali ‘ncasciati”, perchè le tegole erano disposte in senso contrario ai listelli di legno e, quindi, erano più rialzate “attittati” (simile al tetto), quando sui listelli si sistemavano “li parmarizzi” (mattoni d’argilla rettangolari della misura di un palmo) e sopra si assestavano le tegole.

    Le tegole erano disposte su due strati, quelli di sotto si chiamavano “currenti” perchè su di esse correva l’acqua piovana ed erano più stretti e più concavi, sopra c’era lo strato dei canali di copertura.  

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  • I muri erano fatti con materiale povero “petra e taiu” (pietra calcarea e malta composta da terra di campagna mista a calce), a volte “listiati” (intonacati a mano libera in maniera molto rustica lasciando intravedere la sporgenza delle grosse pietre) e imbiancati con latte di calce con “lu scuparinu” (una piccola scopa di palma nana cardata).  Il bianco dei muri, era una tradizione lasciataci dagli arabi e fu continuata fino agli anni ’50, quando una ventata di modernismo ha cancellato questa caratteristica.

    In Spagna, invece, in una provincia chiamata “pueblos blancos”, tutti gli edifici di interi paesi sono volutamente imbiancati, per rispettare antiche tradizioni e, nello stesso tempo attirare l’attenzione dei turisti.    

    Il pavimento spesse volte era in terra battuta, mentre un solaio copriva solo una parte del vano e fungeva da stanza da letto. Per salirvi si usava una scaletta di legno a pioli. Secondo le esigenze, il solaio serviva come “pagghialora” (pagliera o fienile). Al magazzino si accedeva da uno stretto uscio che, nella parte superiore, fungeva anche di finestra.

    C’era spesso una mangiatoia per il mulo o cavallo, un “cufularu” per cucinare a legna, e una “furnacella” o “tannura”. Alle pareti si trovavano appese foto di famiglia e immagini sacre.

    I mobili erano pochi, poveri ed antichi, come l’immancabile “buffetta” (tavolo rustico), “lu cascebancu” (la cassa nuziale di noce scolpita o di semplici assicelle di legno a colori vivaci, dove si teneva conservato il corredo della sposa) ed il letto di ferro con la “cuttunina” (la trapunta di cotone).

    Poche sedie, qualche sgabello di legno e qualche “firlizza” (sgabello di ferula) o zabbaruni (da zabbara = agave) un ceppo grosso di agave  per sedersi fuori. Non mancava quasi mai il forno, perché le bocche da sfamare erano troppe e una “fornata” di pane  bastava per pochi giorni. La famiglia era composta dalla numerosa prole (tutta quella che Dio mandava loro) e spesso dai genitori e dai nonni. Un odore stagnante di stalla, a cui si erano abituati, parlava di un mondo che si era fermato da secoli.

    Per fortuna la stanza era arieggiata dalla porta sempre aperta di giorno, dall’eventuale finestra e, spesso dal tetto coperto di semplici “canali”, da cui, purtroppo, entrava anche freddo. Questo locale era un focolaio d’infezione che procurava malattie gravi con alta percentuale di mortalità, specialmente infantile, che arrivava anche al 90%.

    L’illuminazione serale era garantita dalla fioca luce di “lu spicchiu”, una lucerna di terracotta formata dal piede, con sopra un contenitore per l’olio e “lu micciu” di cotone da accendere.

    Non esisteva gabinetto e i bisogni fisiologici si eseguivano di giorno sotto le piante, mentre di notte dentro il “cantaru” (cantere o pitale) detto anche “sillittu o sillettu" che, di mattina, si svuotava nella concimaia o sotto un albero o nei “cumuna” (terreno libero che si trovava spesso nelle periferie).

    Il cantere era fatto di terracotta smaltata e aveva quattro manici, per essere trasportato più facilmente. Spesso davanti la porta d’ingresso si trovava un fico, un pergolato d’uva o un gelso. All’ombra di queste piante si trascorreva la giornata eseguendo i lavori più vari e qui si mangiava.   

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