C'era una volta "Lu cafè e lu cosaduciaru". Dal "Caffé Stella" al Bar Buscaino tra storia e ricordi
di: Vito Marino - del 2018-07-17
Giorni fa, passando per la “strata di la cursa”, cioè la Via Vittorio Emanuele, l’ex salotto cittadino di Castelvetrano ho visto dei sigilli apposti dal Tribunale Fallimentare di Marsala sulla saracinesca chiusa, della pregiata “Pasticceria - Gelateria – Bar Buscaino”.
Castelvetrano in questi ultimi anni ha subito un degrado incredibile: edifici pubblici in disfacimento, strade sporche all’inverosimile, immondezze a montagne, non ritirate da mesi, amministrazione comunale commissariata; per quanto riguarda le attività commerciali, nel centro storico si nota l’apertura di nuovi negozi luminosi e rimessi a nuovo: nuove speranze, nuove iniziative, che purtroppo svaniscono dopo pochi mesi, con la chiusura inevitabile dell’attività.
Lo stesso non può dirsi delle industrie, perché non ne abbiamo avute, ma qualche artigiano ha chiuso. La chiusura di Buscaino non era per niente attesa, perché si trattava di una ditta molto seria e di una lunghissima esperienza nel settore.
Si tratta di una pasticceria sorta nel 1922, premiata, fra le migliori della città. Evidentemente la così detta crisi economica, che preferisco chiamare pessima amministrazione degli Enti Pubblici sta portando al lastrico industria, artigianato e commercio; quindi, la ditta Buscaino è stata l’ennesima vittima.
L’evento poco piacevole mi ha provocato una stretta al cuore, perché questa chiusura definitiva significa una ennesima famiglia sul lastrico e una parte della storia di Castelvetrano che se ne va via.
Ogni momento della storia dell’umanità ha le sue caratteristiche, il suo modi di vivere, di operare, trascorrere il tempo libero. Una volta la borghesia trascorreva il tempo libero nei circoli e nei bar, mentre operai e contadini si incontravano nella “putia di lu vinu” o taverna, per come più genericamente era chiamata. Eravamo ancora in piena civiltà maschilista, per cui circoli, bar e taverne erano riservati esclusivamente agli uomini.
Intorno agli anni ’50, ancora non c’era la televisione; quindi questi locali rappresentava un momento d’aggregazione sociale molto bello, dove si potevano anche trattare affari commerciali di compravendita, assunzioni, compromessi; evidentemente in questi locali si beveva, consumando magari qualcosa di solido e, principalmente, si chiacchierava. Cito l’esempio di un avventore abituale:
Per alcuni decenni (anni ’60 – ’80) si vedeva ogni sera nell’arco di tutto l’anno Penzavecchia, un “spirugghiafacenni” seduto in un bar abituale per lavoro; doveva consegnare documenti già “sbrigati” a Trapani e ricevere le ordinazioni per il giorno dopo.
Allora molti uffici pubblici erano concentrati a Trapani, come Provincia; non c’era internet e per ogni pratica la burocrazia chiedeva una infinità di documenti; questa persona, come mestiere sbrigava questi documenti.
Nelle taverne si incontravano operai e contadini nel poco tempo libero che avevano la sera, dopo un duro e lungo lavoro della giornata, oppure quando non c’era lavoro o le intemperie impedivano di recarsi in campagna.
In certe taverne fra i frequentatori, che appartenevano agli ultimi scalini della scala sociale, allora molto marcata, accadevano liti, risse, fatti di cronaca anche efferati, causati dal fumo del vino, che saliva alla testa. Per questo motivo le taverne sono passate alla storia con ricordi poco puliti.
Il caffè, come bevanda ha una lunga storia che risale agli inizi del 1900 quando, in mancanza di un apposito locale il caffè si vendeva per le strade: “Cauru cauru è, accattativi lu cafè...”, “Susitivi chi tardu è, accattativi lu cafè”.
Mia madre mi raccontava che verso gli anni ’20 – ’40, quando ancora non si sapeva dove stesse di casa l’igiene, era facile sentire per le strade “l’abbanniata” del venditore di caffè. La bevanda calda, oltre che nei bar, si poteva comprare anche in un qualsiasi “putiaru” (bottegaio); infatti, nel rione San Giovanni c’era una bottegaia soprannominata, per questo motivo, “La cafittera”.
Una volta la bottega rappresentava un piccolo supermercato, nel senso che poteva vendere merce di qualsiasi genere. Il caffè generalmente si vendeva verde dalla bottegaia; nelle case di allora non mancava mai “l’atturraturi”, spesso sostituito da un tegame di terracotta fuori uso, e “lu macina cafè” (il classico macinino con la manovella, oggi messo in bella vista come soprammobile). Molte famiglie si preparavano il surrogato in casa con l’orzo o il grano o i semi di “spinapuci” (pungitopo) torrefatto.
Fino agli anni ’50 circa, come bibite esistevano in commercio solo le gassose ai vari gusti. Volendo preparare in casa una bibita fresca, gradevole e dissetante, si aggiungeva un po’ di caffé all’acqua fresca del pozzo o del “bummuliddu di Sciacca” per ottenere “l’acqua cafiata”. Ma, con l’arrivo della corrente elettrica, che a Castelvetrano avvenne nel 1911, per interessamento dell’allora sindaco Antonino Saporito, incominciarono a sorgere, dopo il 1915 attività industriali e commerciali utilizzando questa nuova energia più efficace e pulita.
Fu intorno a quegli anni, che nacquero i primi bar, divenuti successivamente famosi, come Il Caffé Stella, posto in Piazza Principe di Piemonte, più comunemente conosciuta come “Piazza del caffé Stella”; un bar ampio, elegante, pulito e ricco di specchi alle pareti; famosa era la granita di limone che servivano la mattina d’estate.
Nella stessa piazza c’era un altro bar, meno rinomato, ma noto a tutti per gli assurdi racconti di caccia, (della specie del “Barone di Munchausen) raccontate dal proprietario, cavalier Zonfrillo. In Via Vittorio Emanuele c’era l’Extrabar, dove si sedeva a godere il passeggio il famigerato Salvatore Giuliano e altri illustri personaggi. Nella stessa via più avanti a toccare piazza Matteotti c’era il bar – pasticceria – gelateria Buscaino.
Intorno agli anni ’50, il centro della vita mondana, il cosiddetto salotto di Castelvetrano si andava spostando da piazza Garibaldi, “Lu Chianu”, la piazza per antonomasia, verso piazza Matteotti e verso “la villa di lu Santu Patri” (Parco delle Rimembranze).
Il passeggio cittadino, allora era molto in voga fra la cittadinanza, con esclusione della nobiltà, un rituale di vita mondana, che si ripeteva, tempo permettendo, ogni sera, e con maggiore partecipazione nei giorni festivi e domenicali per tutto il periodo estivo. Prima si svolgeva da piazza Garibaldi (oggi piazza Aragona) alla villa Garibaldi (oggi Falcone e Borsellino); dopo gli anni ’50, si riversò verso l’altra parte del paese.
Allora le località balneari di Triscina e Tre Fontane non esistevano e Selinunte era poco frequentata. Pertanto, gli affari della ditta Buscaino andavano a gonfie vele, perché qui si svolgeva il passeggio. Allora tutti i viaggiatori per spostarsi si servivano del treno e tutti gli alberghi si trovavano attorno alla stazione.
Il caffè Buscaino veniva a trovarsi, rispetto agli altri, più vicino alla stazione e i viaggiatori che arrivavano, oltre ai 2000 ferrovieri che vi lavoravano a turno erano costretti a passare davanti a questo locale e, secondo le loro abitudine a servirsene.
Allora per le strade passavano pochissime macchine e qualche carrozza, per cui i tavolini dei caffè occupavano, oltre ai marciapiedi, una fetta delle strade e delle piazze. Anche allora questi locali erano frequentati assiduamente da viziosi, scansafatiche, da chi stava bene economicamente, ma anche da studenti squattrinati, che dopo aver consumato un caffè fra due o più amici, si servivano di quel locale, come punto di ritrovo e come posto per socializzare.
Come avviene oggi, anche allora gli avventori, seduti comodamente, come se fossero merce esposta in una vetrina vivente, si prendevano il fresco nelle sere estive, e si godevano il passeggio; nello stesso tempo parlavano di sport, di politica e, principalmente giudicavano e criticavano le persone più in vista della città, sindaco in testa, e chi aveva la disavventura di passare in quella strada.
Quando l’Italia pensò bene di assicurarsi un posticino al sole d’Africa con le conquiste coloniali e con la creazione dell’impero, per motivi bellici e politici internazionali, il prezzo del caffè diventò proibitivo e difficilmente si trovò in commercio. Il popolo si vendicò verso il Re d’Italia con questa rima: - “Quannu era re / aviamu lu cafè, / ora ch’è ‘mperaturi / n’arristà l’atturraturi".
A proposito di caffè, che oltre ad essere una gradevole bevanda, è un simbolo, un cerimoniale da consumare assieme ad altre persone amiche, riporto una conversazione tratta dal primo capitolo del romanzo “L’amante inglese” di Leda Melluso, dove il conte Guido Guarneri e Fabrizio Ruffo, principe di Castelcicala, per passare il tempo, bevono un caffè stando assieme in lieta conversazione:
<<Lento, troppo lento... una brodaglia... acqua di polpo. Non capisco questo improvviso amore dei napoletani per il caffè. Una moda, solo una moda che non può attecchire in città>>, sbotta il principe allontanando con la mano la tazza di porcellana […].
Non è un caso del resto che nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 guarda caso di Vincenzo Cuoco, a un certo punto si legga che un condannato a morte, «prima di avviarsi al patibolo volle bevere il caffè>>.
Ma il bar Buscaino era rinomato principalmente per la pasticceria, forse la migliore di Castelvetrano. Intorno al 1930 – ’40, la carne, la frutta e i dolci erano considerati alimenti voluttuari. Oggi i ragazzi ne consumano oltre il necessario e stanno diventando tutti obesi. In quegli anni il vocabolo “dolce” non esisteva, in sua vece c’era un vocabolo generico: “cosa duci”.
Fra i dolci del passato possiamo citare “li Bombolona” (le caramelle artigianali di una volta), “tetù, muscardina o ossa di morti (per chi aveva buona dentatura), mustazzola, quaresimali, viscotti picanti” (tutti biscotti artigianali); ma la frutta di “marturana” e “li pupa di zuccaru” erano i più famosi e si regalavano ai bambini “lu iornu di li morti” (il due novembre).
Nella stessa ricorrenza era consuetudine, da parte “di lu zitu”, di portare a “la zita” un cesto con “lu pupu di zuccaru”, che rappresentava una coppia di fidanzati; erano statuette antropomorfe di zucchero, decorate con colori sgargianti e vivaci dei carretti siciliani, vuote di dentro, con la forma di ballerina, bersagliere, soldato a cavallo con il fiocco colorato, tamburino, tutto un folclore e colore, che ci ricordano la dominazione araba in Sicilia.
La “marturana” è un tipico dolce siciliano, più precisamente di origine palermitana, famoso nel mondo, a base di farina di mandorle e zucchero e confezionato in forma di frutta. Deve il suo nome alla Chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio o della Martorana.
"Lu toccu", praticato nelle taverne, negli anni ’50 diventò di moda nei bar, durante il caldo estivo, utilizzando la birra ghiacciata come bevanda anziché il vino. Si trattava di un particolare gioco delle parti, basato su un cerimoniale di tipo cavalleresco, che consisteva nel creare una specie di tribunale presieduto da un Capo aiutato da un sottocapo; il Capo doveva decidere se i giocatori potevano continuare a bere oppure no, chi restava escluso dal gioco era costretto a non bere, ma a pagare lo stesso la sua quota.
Anche in quegli anni di magra c’erano sempre “li liccuti” (i golosi) che rinunciavano ad altre spese più necessarie per la famiglia e si prendevano il lusso di prendere al bar, il caffè, la “friscabella” (il gelato), ma anche "li bombolona" ed altre “liccumii” (golosità).