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L'Aurora e “la parma di la zita”. Storia di una tradizione che continua ad emozionare

di: Vito Marino - del 2018-04-01

Immagine articolo: L'Aurora e “la parma di la zita”. Storia di una tradizione che continua ad emozionare

La parola “Pasqua” deriva dal termine latino pascha e dal greco paska, La parola ebraica pesach significa "passare oltre", "tralasciare", e deriva dal racconto della decima piaga, nella quale il Signore vide il sangue dell'agnello sulle porte delle case di Israele e "passò oltre", colpendo solo i primogeniti maschi degli egiziani, compreso il figlio del faraone (Esodo, 12,21-34).

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  • La Pasqua ebraica risale intorno al 1200 a.C. e rappresenta la liberazione degli ebrei dalla schiavitù sotto gli egiziani. 

    La Pasqua cristiana, che risale tra il II e il III secolo d.C. rappresenta la ricorrenza più importante dell’anno liturgico, perché celebra gli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, con i tormenti interiori, le sofferenze fisiche, il processo ingiusto, la salita al calvario, la crocifissione, la sepoltura e infine la resurrezione. Dal 1500 al 1700 la passione, morte e la resurrezione di Cristo, in Sicilia fu rappresentata ed esaltata con varie funzioni religiose di origine barocca spagnola e tramandate fino a noi.

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  • A Castelvetrano queste funzioni si svolgono nel corso della Settimana Santa che incomincia con la ricorrenza della Domenica delle Palme e termina con la manifestazione dell’Aurora.  

    Per concludere il ciclo pasquale, la Chiesa include nella liturgia anche il giorno dopo Pasqua, detta Pasquetta, un giorno riconosciuto festivo dallo Stato e tanto atteso dalla popolazione per divertirsi all’aria aperta.    

    Oggi a Castelvetrano la funzione dell’Aurora viene celebrata ancora in maniera solenne, come alle origini. La stessa rappresentazione, celebrata in altri comuni siciliani e calabresi prende il nome di "Affruntata",  che deriva da “frunti”, “facci frunti” cioè di persone messe di fronte, quindi: “Incontro”. Dalle numerose comunità ebraiche di Sicilia abbiamo tratto l’usanza di consumare a tavola, durante il pasto pasquale, l’agnello: “Agnus Dei”, eccezionalmente il capretto.

    E’ scomparsa invece l’usanza di consumare nel giorno di Pasqua la “sosizza pasquarola”. Si tratta di una salsiccia di carne di maiale usando il  budello grosso dello stesso animale, preparata prima e fatta asciugare e stagionare per qualche mese.   

    Oltre all’Aurora, un ruolo importante assume il giorno di Domenica di Pasqua il pranzo pasquale, dolci in prevalenza. Fra i dolci consumati in questa grande occasione in primo assoluto c’è la “cassata siciliana”. Inizialmente la cassata era un prodotto della grande tradizione dolciaria delle monache siciliane ed era riservata al periodo pasquale. Un proverbio siciliano recita "Tintu è cu nun mancia la cassata la matina di Pasqua" ("Meschino chi non mangia cassata la mattina di Pasqua").

    La  “picuricchia” (l’agnello pasquale), che ancora molte famiglie preparano in casa è fatta della gustosissima pasta reale a base di mandorle; porta il vello bianco in contrasto con il verde dell’erba su cui è adagiato ed è guarnito di confetti. Infilzato sulla schiena, porta un gonfalone rosso, che pur non rappresentando alcun simbolo antico, è ricorrente in diverse manifestazioni religiose; San Giovanni Battista e lo stesso Gesù Cristo risorto ne portano uno in mano. 

    Famosi sono pure “li cassateddi di Pasqua” (ravioli ripieni di ricotta zuccherata e abbondantemente incannellata) che, essendo buoni, si mangiano in abbondanza e alla svelta, tanto che finiscono subito, lasciando qualcuno più lento a bocca asciutta; da qui il detto “e cu n’appi n’appi cassataddi di Pasqua” (chi ha avuto ha avuto ravioli di Pasqua). 

    “Lu campanaru”, fatto in origine di pasta frolla dolcificata, ha la forma di “cucciddatu” (ciambella molto lavorata) con l’uovo sodo colorato posto da un lato; con la stessa pasta e con la stessa lavorazione si facevano “li vaccareddi”, aggiungendo una forma di vitella con più uova sode. Come avveniva con i “pupi di zuccaru”, con la “palma di la zita, così anche per “li vaccareddi” se ne facevano di forma più grossa per i fidanzati. Anche la “minnulata o cubaita” (da kubbat, di origine araba) fatta di zucchero e mandorle o noci o sesamo, continua a far parte della ricorrenza  “pasqualora”. Infine c’è il classico “cannolu”, che viene consumato in ogni occasione, per la sua notorietà e bontà. Nelle tradizioni ebraiche c’era pure un dolce pasquale a forma di colomba.                                   

    L’UOVO NELLE TRADIZIONI POPOLARI 

    Nelle feste religiose si celebra e si rinnova una grande metafora: la fine del tempo, che muore ma che si rinnova con maggiore virilità. 

    Il mistero pasquale ne è il più grande esempio, poiché alla morte segue la resurrezione del Dio Salvatore; quindi l’uovo diventa la rappresentazione pasquale poiché  sin dall’antichità, è stato considerato il simbolo della nascita, della vita, l’origine dell’uomo e della stessa divinità: “omne vivum ex ovo”, dicevano i latini, cioè ogni cosa che vive viene da un uovo.

    Antonino  Buttitta riferisce che le società arcaiche attribuivano all’uovo un significato di simbolo della cosmogonia “in quanto il suo richiamo al significato primigenio della Pasqua come rito inteso a rigenerare la natura”.

    In occasione della ricorrenza pasquale si usava mangiare uova sode colorate; la colorazione ha origini superstiziose, contro le potenze occulte maligne. 

    Quando l’industria dolciaria ha messo in commercio il gustosissimo uovo di cioccolato, si è persa la tradizione dell’uovo dipinto. Così il fidanzato in occasione della ricorrenza pasquale incominciò a regalare un uovo grande di cioccolato alla fidanzata, facendo mettere dentro dal dolciere un regalo d’oro, comprato per l’occasione.

    Presso gli ebrei era consuetudine consumare uova per il Capodanno; ma quando la Pasqua fu spostata alla prima domenica successiva al plenilunio di primavera, tale usanza si trasferì a questa nuova data. 

    I cinquanta giorni che si succedono dalla domenica di Resurrezione alla domenica di Pentecoste (la discesa dello Spirito Santo), si celebrano nell’esultanza e nella gioia come in un sol giorno di festa, anzi, come la Grande Domenica. Una volta questa “Grande Domenica” pasquale si chiamava “Pasqua d’Uovo” perché si festeggiava regalando (e mangiando) uova sode colorate, benedette in chiesa. Ancora oggi nei comuni siciliani di origini albanesi, si regalano uova colorate.

    Durante la scomparsa civiltà contadina, l’uovo rappresentava un mezzo di scambio. Allora circolava poco denaro nelle tasche del popolo e il baratto, specialmente fra le donne che abitavano nei cortili, era molto praticato.

    L’AURORA

    A Castelvetrano il rito religioso dell’“Aurora” risale al 1660 per iniziativa dei Padri Carmelitani Scalzi di Santa Teresa. Alle origini la “Confraternita del Rosario tra agricoltori” composta da agrumari (siniara), curava e portava in processione la statua della Madonna, così detta dell'Aurora (per distinguerla da quella “Addolorata”), mentre la confraternita di San Giuseppe dei falegnami e bottai, portava in processione la statua di Cristo risorto e quella dell'Angelo. 

    Scomparsa la compagnia del Rosario, è la confraternita di San Giuseppe, ancora esistente, a curare l’annuale appuntamento dell’Aurora. La ricorrenza si è sempre celebrata “A lu Chianu” (la piazza per antonomasia, la piazza principale della città) l’attuale Carlo d’Aragona (ex Piazza Garibaldi), ma da quanto scrive il Ferrigno, fino al 1920, ogni sette anni, la funzione dell’Aurora si svolgeva nella Via S. Gandolfo (poi Via del Monastero o Strata di la Batia granni - oggi Via Ruggero Settimo) per fare assistere, da dietro le grate,  anche le suore di clausura che c’erano a quei tempi nel Monastero della Santissima Annunziata.

    Inoltre, le strade e le piazze dove si svolgeva il rito e passava la processione erano cosparse di foglie verdi e di fiori. Cospargere di fiori e di verde le strade dove passano i simulacri dei Santi o che portano a luoghi di culto, è un rituale che  continua anche oggi in tanti posti.

    A  Salemi, durante gli altari di San Giuseppe le strade si cospargono di foglie di alloro, mentre a Cagliari, per la festa di Sant’Efisio del primo maggio le strade sono coperte di petali di fiori. 

    Alla sua origine la manifestazione iniziava alle ore 06,30, cioè allo spuntare del sole, appunto all’Aurora. Secondo il Vangelo, a quell’ora tre pie donne recatesi sulla tomba di Gesù, la trovarono vuota. In seguito, con il subentrare del benessere, ma anche per fare assistere anche i bambini che a quell’ora ancora dormono, fu spostato alle ore 9.  

    Cito qui di seguito una notizia storica riportata dal Ferrigno: “Il 18 aprile del 1813, giornata di Pasqua, la regina Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando, re delle Due Sicilie, assistette assieme al figlio Leopoldo di anni 23, alla funzione dell’Aurora affacciata dal balcone del Palazzo Ducale; frequenti erano le visite della regina alle suore del monastero dell’Annunziata, assistendo al lavoro di ricamo; le suore giornalmente fornivano per la tavola della regina, dolci e pane di farina bianca di “maiorca” (grano tenero siciliano). 

    In quella Pasqua  la statua della Madonna venne restaurata, per conto della Società del SS. Rosario, dal pittore palermitano Vito Miceli, per come risulta nell’atto del 17 marzo 1813 del notaio Castelli; fra le minute sono specificate le parti da restaurare e le modalità da adottare.      

    Dopo alcuni anni di contrasti fra: l’arcipretura di allora, che scorgeva in questa manifestazione le memorie pagane, e la confraternita di San Giuseppe, la Pasqua del 2015 è stata felicemente portata a termine con la presenza del clero e delle confraternite.                                      

    IL FOLKLORE E CAMPOBELLO

    Mi ricordo che fino agli anni ’50 molte persone venivano dai paesi vicini col carretto o col calesse, ma principalmente erano di Campobello; chi se lo poteva permettere, arrivava col carretto “patrunali” tutto scolpito e dipinto e con il cavallo bardato a festa. Moltissime erano le ragazze accompagnate immancabilmente dai mariti, padri o fratelli. Per la civiltà maschilista di allora,  potere uscire di casa per assistere ad una rappresentazione unica per quei tempi era una buona occasione per le donne. All’ingresso del paese dovevano proseguire a piedi. Intorno agli anni ’60 arrivavano pochi carri e si sistemavano direttamente ”a lu chianu”.

    Essi si trovavano avvantaggiati, rispetto a tutti gli altri spettatori, perché potevano godersi la cerimonia, standosene comodamente seduti sulle sedie poste sul carro e con una visione panoramica di tutta la Piazza.  Secondo Giovanni Asaro in “A Castelvetrano l’Aurora” pubblicato in “Il Faro” (a.8, n.15, Trapani 1966), le donne portavano vestiti dai sgargianti colori e nelle dita di entrambe le mani portavano anelli di varia fattura; inoltre si ornavano con  collane, bracciali, lunghi orecchini; sul capo portavano fazzoletti di seta dai cento colori, fermati da spilloni d’oro o colorati. Di questa usanza rimane il detto: “ma chi sì camubbiddisa?” Oppure: “Pari ‘na camubbiddisa a l’Arora” per indicare una persona vestita in maniera strana, “bagiana” (vistosa).    

    I colori sgargianti e gli ornamenti d’oro facevano parte dei costumi siciliani antichi ormai scomparsi a Castelvetrano, ma che si conservavano ancora a Campobello. Questa usanza è ancora molto viva in Sardegna, dove in occasione di alcune ricorrenze festive partecipano da tutti i paesi della Sardegna, vestiti con i costumi locali sardi tradizionali e ricchi ornamenti d’oro. I colori vivaci usati nei vestiti, ma anche nei dipinti dei carretti e delle barche rispecchiano la luce e i colori intensi, che esistono realmente in natura sulle terre del Mediterraneo e anche in Africa.

    A proposito di Campobello, una volta c’era la seguente usanza: negli accordi di fidanzamento spesso scritto, e riportato nell’atto matrimoniale stilato dal notaio, si stabiliva che nel primo anno di matrimonio lo sposo doveva portare la sposa a Castelvetrano in occasione dell’Aurora e della Fiera della Tagliata (terza domenica di settembre). Questa usanza iniziata nel 1759 rappresentava “la prima nisciuta” per la coppia.

    Non dobbiamo dimenticarci che fino agli anni ’50 circa, il basso reddito della popolazione non permetteva ancora di fare il viaggio di nozze e, visitando Castelvetrano, la città più vicina, per quei tempi, già era un successo. 

    La folla che assisteva alla manifestazione è stata sempre così numerosa che è diventata proverbiale; infatti, in altri casi simili si dice: - “Ma chi c’è la Rora?” –  C’è anche un detto che dice: “ficiru l’Arora” per indicare la gioia di due persone che, dopo tanto tempo, s’incontrano e corrono per abbracciarsi. - “Sarvatìllu pi la matina di Pasqua” (conservatelo per il mattino di Pasqua) si dice di un qualsiasi capo di vestiario caratteristico, molto vistoso, spesso si tratta di un cappello, perché era proprio durante la funzione dell'Aurora che apparivano certi cappelli d'uomo e certi scialli di donna dai colori assai vivi che si vedevano solo in quella ricorrenza.

    La manifestazione dell’Aurora, tuttora, si fa tutti gli anni anche con condizioni di tempo proibitive; si è svolta durante la guerra e anche nell’anno del terremoto del 1968. Pertanto, voce di popolo dice: “Se non si fa, se la prende Trapani”. In mezzo alla numerosissima folla non mancavano di assistere alla funzione anche le signorinelle in età di matrimonio. In una civiltà maschilista, esse approfittavano delle feste religiose, per uscire di casa e mettersi in mostra a caccia di mariti.                                         

    LA FUNZIONE DELL’ AURORA

    Non mi soffermo a descrivere nei dettagli la funzione dell’Aurora, perché ancora si svolge allo stesso modo di quando fu istituita. La caratteristica sta nell’angelo che, portato a spalla, corre velocemente dando la sembianza di volare, per dei volteggi che praticano i giovani portatori alla piccola e leggera statua dell’angelo.

    Una volta, ci riferisce Giovanni Asaro, i portatori erano preceduti da un altro corridore che portava un nodoso randello che roteava sulla sua testa gridando: “largo largo”, poiché la folla assiepata tendeva a chiudere il corridoio, dove loro dovevano passare di corsa. Altre volte passavano i carabinieri a cavallo per fare largo tra la folla. Ieri come oggi, la statua del Cristo risorto vestito di rosso fiammante e con una bandiera dello stesso colore,  viene posto vicino la chiesa Madre, assieme all’angelo, mentre quella della Madonna in un angolo della Via G. B. Vico (una volta Largo di li Putieddi).

    L’angelo per tre volte annuncia alla Madonna incredula la resurrezione di Cristo; alla fine, tutta ammantata di nero si muove e va incontro a Suo figlio che si muove anche Lui, fin quando avviene l’incontro festoso fra madre e figlio, fra il giubilo generale della gente. Nell’ultimo tratto, tramite un marchingegno, alla Madonna vengono allargate le braccia, come per abbracciare Gesù, mentre viene  fatto cadere il manto nero, permettendo a molti uccelli o colombe, messi apposta nella corona regale di volare via; la Madonna appare con un ricco manto celeste, costellato di fiori d’oro e d’argento.

    Segue lo sparo di mortaretti, mentre le campane di tutte le chiese suonano a distesa; la banda musicale suona allegri brani d’occasione. Una curiosità storica, degna di essere citata è il colore rosso acceso posto sul viso della Madonna e dell’Angelo; questa tradizione forse risale dal Paleolitico Superiore (40.000 a.C.), quando i cadaveri si dipingevano in questo modo, per dissimularne il pallore cadaverico. Il rosso e l'ocra, di solito sono interpretati come colori richiamanti il sangue e, pertanto, la vita. Cristo risorto, infatti, viene raffigurato con manto rosso fiammante e con una bandiera dello stesso colore.

    Un’altra curiosità è l’aureola che porta Cristo Risorto porta in testa non è a forma di cerchio, ma di semicerchio a simboleggiare la fetta di sole che si vede spuntare la mattina presto durante l’aurora.  La stessa funzione dell’aurora veniva presentata anche in altri comuni siciliani e calabresi e, in certi paesi  prendeva il nome di "Affruntata"  da “frunti”, “facci frunti” cioè di persone messe di fronte, quindi “Incontro”. 

                                                                 LA "PARMA DI LA ZITA"

    Il giorno della Domenica delle Palme, durante la messa si benedicono le palme intrecciate dai “parmari” e semplici rametti d’ulivo, simboli della pace e della vita eterna, che i fedeli, terminata la messa, si portano in casa perché preservi dalle malattie e dalle disgrazie e doni la pace. In molte zone dell'Italia, con le foglie di palma intrecciate, i palmari formano una composizione particolare, che in Sicilia si chiama semplicemente “la parma”, in Sardegna si chiama “Sa pramma pintada” (la palma intrecciata). Per l'intreccio, i parmari usano la foglia della palma da datteri, detta “fimminedda” messa ad imbiancare al buio per qualche giorno.

    La “parma” riccamente lavorata, simboli della pace e della vita eterna era considerata anche come oggetto di trasmissione non verbale di un messaggio d’amore; infatti alcuni portavano la palma sulla tomba dei propri estinti, come sentimento d’affetto; il fidanzato portava una palma particolare alla fidanzata, chiamata: “la parma di la zita”, la cui altezza e grossezza dimostravano e quantificavano il grande amore che nutriva per la futura sposa.

    In un’altra tradizione locale di allora, il fidanzato, nel primo anno di fidanzamento doveva comprare alla fiera “di la Tagghiata” una collana alla fidanzata; mentre, in occasione della ricorrenza del 2 novembre, il fidanzato doveva regalare borsa, ombrello e guanti, oltre ai “pupi di zuccaru” (una tradizione lasciataci dalla dominazione araba), raffiguranti “lu zitu e la zita” (una coppia di fidanzati). Quando l’industria dolciaria messe in commercio l’uovo di Pasqua di cioccolato, il fidanzato approfittava di questa occasione per regalare alla fidanzata, oltre all’uovo, un oggetto di valore che vi faceva inserire dentro dal dolciere.

    Effettuare in determinate ricorrenze regali particolari alla fidanzata, da parte del fidanzato, non deve intendersi come un freddo obbligo rituale in sé stesso, ma una forma di vassallaggio e di cavalleria che l’uomo nutriva nei riguardi della donna; sentimenti tramandati attraverso i secoli e arrivati fino ai nostri giorni, provenienti dalla dominazione dei Normanni in Sicilia.

    Infatti, durante il regno di Federico II, attraverso la ricca letteratura francese, riguardante le gloriose gesta dei Paladini di Francia, con le loro regole di cavalleria molto favorevoli verso i deboli, si assistette ad un ingentilimento nei costumi, che si è protratto attraverso i secoli lasciando un solco indelebile nella nostra civiltà maschilista.

    Quindi in fidanzato, nei riguardi della fidanzata usava una forma di vassallaggio e di cavalleria che lo spingevano, senza chiedere un ritorno, a fare dei regali fuori del normale. Cesare Abba, nelle sue “Noterelle sulla Sicilia del 1860”, così scrive:- “...siamo in paesi dove la donna è cara più della vita, più della libertà.” -

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