“Lu postu d'aria” e la “cacciata di lu furmentu” tra sacralità e canti
di: Vito Marino - del 2019-06-15
Dopo la mietitura il frumento si portava con il carro 'a lu postu d'aria' (all'aia) per la trebbiatura. Il trasporto avveniva di sera al tramonto (a la rifriscata) o di mattina presto, per evitare che il calore rendesse rigida la spiga e si rompesse durante il trasporto. Il carro poteva portare 25 regne (covoni), che resentavano anche un’unità di misura: '1 mazzu'. L'azione di portare il cereale all'aia, era detta "strauliari" o "straguliari": da "straula" o “stragula”.
La “stragula” (treggia), una sorta di slitta o di carro rudimentale senza ruote, tirato da buoi, usato nelle regioni montuose, per il trasporto di cose...”. Questo sistema rudimentale di trasporto, che non richiedeva strada o mulattiera, perché usava due aste che strisciavano sul terreno.
In qualche zona interna della Sicilia a cavallo delle province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta, li strauli rimasero in funzione ancora per una ventina d’anni dopo la seconda guerra mondiale. Nelle nostre zone montuose o collinari, servite solo da mulattiere, “un cavaddunciu”, formato da 6 “regni”, si trasportava sul dorso di muli e legati alla sella, disposti “3 a manu manca e 3 a manu ritta" (cioè 3 fasci a sinistra e 3 a destra).
Questa consuetudine proviene da un lontano passato, quando le strade di comunicazione fra i vari paesi (comprese le nazionali e le provinciali) non esistevano. Infatti, le prime regge trazzere sono state costruite dai Borboni nel 1778. Anche nei vecchi atti notarili, fra le servitù risulta scritto “con diritto di passaggio con la mula barda”. “Lu vardunaru” era il mulattiere che esercitava il mestiere di trasportatore in proprio o alle dipendenze di terzi, servendosi del mulo.. "Lu postu d'aria" (l’aia) si preparava in genere qualche giorno prima dell’inizio della trebbiatura, scegliendo sempre un posto ventilato, preferibilmente esposto al vento di tramontana situato in un luogo ben arieggiato e senza alberi.
Il terreno doveva essere battuto; non troppo duro, perché avrebbe fatto rompere i chicchi sotto gli zoccoli dell’animale, non troppo sciolto, perché il terriccio si poteva mescolare al grano sporcando tutto il raccolto. Qui, al fine di separare il chicco, si procedeva alla "cacciàta cu la vestia" (trebbiatura con l’animale). I covoni di frumento, sciolti dalle “liame” si spargevano sull’aia a cerchio per farli asciugare bene dalla “acquazzina” (rugiada) della notte, quindi nelle ore più calde, verso le ore 10 incominciava la cacciàta.
Col caldo tutta la spiga diventava asciutta, rigida, cristallina e facilmente lasciava uscire il chicco dalla spiga. A questa regola faceva eccezione solo l’orzo, che si trebbiava di buon mattino, per conservare intero il fusto che veniva utilizzato come “pagghia longa” con cui s’imbottivano i materassi. Si “cacciàva”, facendovi trottare sopra l’animale disponibile, generalmente un mulo. Quando il frumento messo a cerchio sull’aia era molto, i muli si appaiavano.
Gli animali si bendavano per non far sentire loro i capogiri; un contadino “lu caccianti” si metteva al centro del cerchio e, trattenendo con le mani “lu capu” (l’estremità) di una lunga corda legata ai "crapisti" (testiera), incitava l’animale con la "zotta" (frusta) e lo costringeva a fare differenti e numerosi giri concentrici allargando e accorciando la corda e spostandosi lui stesso di qualche passo. Intanto altri lavoratori (turnanti), riaccostavano le spighe attorno all’aia col tridente per mantenere la forma circolare dell’aiata.
Il tridente doveva essere di legno, perché più morbido e non arrecava danni al terreno dell’aia. Ogni tanto un turnanti dava il cambio al caccianti che sopportava lo sforzo maggiore. Infatti, oltre a dimenarsi continuamente sferzando le bestie, doveva pure eccitarle con canti propiziatori: Prima di iniziare la “cacciàta”, “lu cacciànti”, dopo essersi fatto il segno della croce diceva:
“Sia ludatu e ringraziatu lu Santissimu e Divinissimu Saramentu”; e gli altri rispondevano: “Sia ludatu e ringraziatu ogni mumentu”. Durante il lavoro, per far sentire la sua presenza agli animali, e per non far perdere loro il ritmo li incitava continuamente: “ohhh, oravà, avanti, forza, curremu” o simili, inoltre recitava a viva voce una specie di poesia:
- “Gesù, Giuseppe e Maria e trasi l'ancilu 'n cumpagnìa;
e Diu ci metti la Santa Paci.
Paci e cuncordia e viva la Bedda Matri di la Misiricordia
- e Misiricordia sia e viva Gesù Giuseppi e Maria.
Ad ogni ura, ad ogni mumentu
Sia ringrazialu lu Santissimu Sacramentu.
Tagghia e ntratagghia, l'amu a fari comu la canigghia veni lu ventu e si la pigghia.
Mula pulita guardati la vita.
Il Pitré cita un altro genere di strofe, evidentemente in ogni zona le usanze erano diverse Intanto altri uomini col tridente “vutavanu l’aria” rimettevano nel cerchio tutte le spighe che si erano spostate fuori dell’aia.
Quando doveva far fermare gli animali, recitava gli ultimi versi:
- Santu Nicola beddu lu Santu bedda la parola, a la turnata st'armaluzza fora”-.
Sembrerà strano, ma l'animale, quando sentiva queste ultime parole, capiva che in quel momento aveva finito di lavorare e si fermava per andarsi a riposare un poco e mangiare. Tutta questa operazione che si chiamava “turnata” (dal francese tourner = girare), si ripeteva tre o quattro volte. Ogni volta sempre con i tridenti di legno, si “vutava l’aria” (si rimescolava l’aiata) per evitare che rimanessero spighe non trebbiate. (tutti gli attrezzi agricoli, compresa la pala, che dovevano strisciare sull’aia erano di legno, per evirare che il metallo rovinasse il terreno battuto).
Quindi con i tridenti di legno lanciavano la paglia in aria, ormai tritata, che spinta dal vento si spostava fuori del cerchio. L’operazione avveniva quando spirava il vento di tramontana (a mezzogiorno) o di ponente, nel pomeriggio L’operazione successiva, l’annittata, riguardava l’allontanamento della “ciusca” (pula) mediante una pala di legno Il vento, che non doveva essere troppo forte, perché si portava via tutto e neanche troppo leggero, perché ricadeva tutto per terra, provvedeva a portare via la parte più leggera.
Se non c’era vento, si doveva aspettare anche intere giornate; quando ricominciava a soffiare il contadino diceva “E trasi l’Ancilu” e subito riprendeva il lavoro interrotto. Dopo la “spagghiata” o la “nisciùta di la pagghia”, se il vento non era stato tanto generoso restava ancora assieme al chicco di grano un poco di “ciusca” (pula) e “gruppa” (nodi dello stelo); il contadino riempiva un canestro, lo alzava in alto e lasciava cadere lentamente il contenuto; oppure, con la pala di legno lanciava in aria il grano con le parti estranee, che sotto la spinta del vento volavano via.
Le eventuali spighe rimaste intere si mettevano da parte. Sa non c’era vento si procedeva intanto a togliere col tridente la paglia più grossolana, quindi si setacciava la parte rimasta contenente anche il grano, con il “crivo” di cuoio dai buchi larghi rotondi, appeso al tripporu formato da tre assi di 'zabbare' (aste lunghe di infiorescenza di agave).
Una seconda cernita si effettuava con “lu sbarratozzu” un grosso crivello dai buchi quadrati e piccoli, Se era necessario si ripassava la cernita con un vaglio dalle trame più strette. Il contadino, durante tutto il lavoro della trebbiatura, tratteneva la camicia fuori dei pantaloni, per evitare che la “ciusca” potesse entrare dalla cintola e dare fastidio. Pertanto, quando qualcuno portava la camicia in quelle condizioni, si diceva scherzosamente: “devi andare a spagliare?” "La trarenta” (tridente tutto di legno), “lu furcuni” (tridente di ferro col manico di legno) e “lu furcali” (furcuni con parecchi rebbi o denti); erano degli attrezzi, che servivano per spostare i covoni e la paglia.
Finalmente il grano era insaccato, con la pala di legno e portato in paese. Siccome i feudi coltivati a frumento erano molto lontani dal centro abitato, si formavano le “retine” di sette mule, generalmente di notte, per evitare il caldo diurno. Qui incominciava il lavoro per la donna. I chicchi si dovevano setacciare con il “crivu d’occhiu” (detto così perché aveva dei buchi a forma di un occhio) per togliere eventuale terriccio, qualche sassolino, e un poco di “ciusca” (residui di paglia e la pula), semini di altre piante, finiti assieme al grano durante la mietitura, e i chicchi piccoli o rotti, non commerciabili; quindi il grano si doveva “assiddiiri” (selezionare quello migliore per la semina e quello rimasto per la macina) uno per uno, togliendo anche pietruzze, chicchi bucati dal parassita chiamato “munaceddu” (punteruolo), le sementi estranee come il “gioggiu” (loglio, un semino rosso velenoso) e qualche animaletto; quindi si doveva ancora lavare e metterlo al sole ad asciugare; infine conservare in appositi contenitori d'argilla 'giarre' o nei 'cannizzi'.
Nel lontano passato si usavano le fosse granarie. A proposito del loglio, una volta si diceva che mangiandolo faceva dimenticare le cose dette o udite e se era presente anche in piccole quantità nel grano macinato, faceva girare la testa a chi si mangiava quel pane. Il “gioggiu” si dava a mangiare alle bestie indomabili, per renderle più mansuete Anche per le fave, ceci, orzo e avena, si doveva fare pressappoco lo stesso lavoro; quando si trattava di piccole quantità, la trebbiatura si effettuava manualmente con un mazzuolo di legno.