Quando il Natale era tempo di "cosi duci" e non di regali di smartphone
di: Vito Marino - del 2014-12-11
Ogni anno, regolarmente arriva il Santo Natale e con Esso tornano gli acquisti, le offerte a prezzi agevolati, le luminarie, le grandi abbuffate e… gli auguri; tanti auguri elargiti a piene mani, ad incominciare dalle nostre affettuosissime autorità. In giro, fra negozi e supermercati di paesi e città, si percepisce un’atmosfera diversa dai normali giorni dell’anno.
Tante volte mi sono domandato se dentro di ognuno di noi ci sia effettivamente gioia o il trasporto dell’atmosfera natalizia, una “routine” che si ripete ogni anno come l’alternarsi delle stagioni, come la nascita e la morte.
La gioia natalizia dovrebbe essere diversa da quella leopardiana, intesa come momentanea cessazione del dolore, una felicità insolita e più grande, scaturita dall’Io più profondo, fatto di perdono e amore per il prossimo. Ma questa gioia non può nascere spontanea, ci devono essere tanti elementi concomitanti che sommati danno la gioia natalizia. Anzitutto la fede Cristiana, che purtroppo lascia molto a desiderare, quindi la sicurezza economica e la salute, anch’essi in via d’estinzione.
Troppe brutte notizie arrivano dal mondo martoriato ancora dalle guerre, dalla fame, dalle malattie! In Italia abbiamo un governo instabile che, invece di risolvere la crisi con criteri di uguaglianza fra i cittadini continua a proteggere le caste, a conservare prestigi e privilegi di chi ha in mano le retini dei poteri. Intanto la disoccupazione avanza spaventosamente fra la stragrande percentuale della popolazione. Il Natale inteso come insegnamento di fede viene appena scalfito dal pensiero collettivo.
Oggi il Dio del Perdono, della Fratellanza e dell’Umiltà è stato messo di nuovo in croce; in sua vece regna il dio denaro, quello che porterà alla distruzione i popoli più evoluti. Come cultore delle nostre tradizioni non posso fare a meno di pensare al Natale dei vecchi tempi, in seno ad una popolazione di poveri contadini.
Essi aspettavano il Santo Natale, per fare li cosi duci, per andare a messa, per tirare il collo al gallo e per pranzare uniti in famiglia. Una gioia immensa fatta di niente, di umiltà, di amore fraterno, di un’atmosfera che sapeva di famiglia unita e di numerosa prole, che con la loro semplice presenza riempivano l’aria di gioia infantile. Bastava fare il presepe in casa, assistere alla messa delle quattro di mattina e ascoltare la “ninnaredda” in occasione della Novena di Natale o udire di mattina ancora al buio il passare dei “ninnariddara” con i loro violini, per provare la gioia più profonda.
Fra le mie riflessioni natalizie considero la verità gattopardiana come vera e immutabile nello spazio e nel tempo, penso come il re di una volta oggi si chiami presidente della repubblica, alla nobiltà che si chiama deputato, senatore, manager; penso alla borghesia che oggi è costituita da impiegati regionali, portaborse degli onorevoli, notai e professionisti.
I “bravi” di una volta, al servizio dei baroni, oggi si chiamano mafiosi e sono al servizio della classe politica. Il popolo che per la prima volta nella storia dell’umanità aveva acquistato il suo giusto ruolo nella società di cuore pulsante, con discrete prospettive economiche, oggi sta ritornando alla povertà della civiltà contadina. La classe dominante, approfittando dell’ignoranza politica, e dell’inerzia popolare provocata dal benessere ha di nuovo preso il sopravvento e lo sta riducendo alla miseria antica.
Questo Natale dovrebbe essere all’insegna della riflessione intima collettiva più profonda: se alzare orgogliosamente la testa e dire basta o continuare la vecchia filosofia popolare siciliana, che io cito spesso, del “calati iuncu chi passa la china”.