Quando "l'abbanniata" era un lavoro in concorrenza con il "tammurinaru"
di: Vito Marino - del 2018-03-14
Bandire, dar pubblico avviso gridando o cantando, vendere all’incanto la mercanzia, imbonimento, è la traduzione che si può dare in italiano al vocabolo siciliano “abbanniata” o “vanniata”.
Una volta il venditore ambulante, che teneva la sua mercanzia in una cassettina messa a tracolla o su una bicicletta oppure su un carrettino spinto a mano o trainato dall’asinello, tramite “l’abbanniata” stimolava il compratore ad acquistare. “l’abbanniata” (l’imbonimento), che significa letteralmente: rendere buono, stimolavano il compratore ad acquistare.
“La robba abbanniata è mezza vinnuta”, “lu putiaru socc’avi abbannia” sono dei proverbi dei vecchi tempi, che si riferiscono a tale sistema di vendita. Così, i venditori, per meglio essere ascoltati, ma seguendo anche antiche tradizioni, spesso improvvisavano un canto con melodia araba.
Questi canti spesso rassomigliavano allo stile di canto dei carrettieri, cha a loro volta provenivano dai canti arabi. Alcuni studiosi musicologi, infatti, hanno abbinato questo genere di canto fra quelli popolari.
Fra questi ambulanti c’erano gli strilloni, un ramo di venditori che vendevano cultura, notizie, politica, che si sgolavano con le notizie della sera. C'erano poi i venditori di sale, carbone, caffè caldo; c’era lu pignataru, lu ciusaru, lu granciaru, lu ghiaccioaru, lu pisciaru, lu caliaru; ricordo finanche un venditore di veleni per topi che cos’ strillava ”assa pigghia, assa mancia, la camula pei topi”.
Ma c’erano anche gli artigiani senza lavoro, che giravano di casa in casa per trovarsi la clientela: lu stagnataru, lu conzalemmi, lu conza seggi. Fra le “abbanniate” c’era anche quella del “tammurinaru abbanniaturi”. Malgrado l'abbanniaturi con la sua voce possente si facesse sentire in tutto il quartiere senza megafono, "lu tammurinaru" attirava di più l’attenzione delle persone. Allora non c’era ancora l’inquinamento acustico di oggi e l’abbanniata si sentiva anche lontano. In quegli anni, quando passava una macchina e specialmente un pulman che allora chiamavamo autobus tutti si voltavano a guardare.
Mi è rimasto impresso nella mente uno strillone che vendeva il giornale di Sicilia a Marsala, dove ero andato a studiare, fra gli anni 1956 – 1960. Aveva una voce stridula caratteristica che si sentiva a distanza.
Ma anche a Castelvetrano avevamo il nostro strillone, ma si trattava di una persona mite, che strillava appena, che si avvicinava alle persone timidamente, quasi a chiedere l’elemosina. Ed elemosina significava il suo guadagno, visto che doveva vivere di un mestiere che vendeva cultura, una mercanzia che ancora oggi stenta ad essere consumata.
Allora i giornali arrivavano da Palermo con il treno a pacchi indirizzati al cartolaio Velardi che rappresentava il distributore di tutta Castelvetrano. Costui, aperti i pacchi, li raggruppava per i vari cartolai della città e li mandava con un ragazzo. Un certo numero stabilito spettava allo strillone.
Generalmente di mattina si vendeva “Il Giornale di Sicilia" perché di pomeriggio c’era il giornale “L’ORA” un giornale molto seguito perché trattava problemi di mafia e di corruzione.