Quando non c'era la tecnologia e si giocava in strada "a lu badduttulinu" e non solo
di: Vito Marino - del 2019-09-11
Ad una certa età non si può parlare della propria infanzia, senza sentire una stretta al cuore, una rabbia mal repressa contro il tempo crudele, malvagio e traditore. Alla mente ritornano echi di cose smarrite: luoghi, visi, giochi, usi e costumi; un mondo del tutto diverso da quello attuale, scomparso per sempre nel nulla. Ai tempi della mia infanzia i giochi erano sempre collettivi e vi partecipavano i ragazzi del rione con schiamazzi, bisticci, pianti e risate.
Prima di passare alla descrizione del gioco volevo dare una visione del mondo giovanile di quegli anni Desidero far presente che eravamo nell'immediato dopo guerra con “picciuttuna” o “giuttuna” (giovinastri) sbandati, che non andavano a scuola, possibilmente orfani, senza una guida sicura, scalzi, magri, con i capelli incolti, con pochi vestiti addosso, logori e rattoppati.
Essi portavano per cultura, ma anche per motivi economici, i pantaloni corti anche d'inverno fino anche a 18 anni, spesso camminavano a piedi scalzi e così si presentavano a scuola. In tasca tenevano spesso una tortula con la relativa “filazzata”; in senso dispregiativo, venivano chiamati “linnari” (uova di pidocchi), erano figli della miseria e della violenza, nati e cresciuti nel terrore della guerra.
Nonostante tutto, essi giocavano e “s’allianavanu” (si divertivano) a più non posso, specialmente nel tardo pomeriggio, quando avevano terminato i compiti di scuola o di lavorare 'a lu mastru' (apprendista alla bottega d'artigiano). Fra i ragazzi c’era sempre qualcuno “sconza iocu” (che godeva nel rovinare il gioco degli altri), qualche altro “’ngangarusu” (grande, ma con azione bambinesca) o, “attaccaturilla” (attaccabrighe), “pizzipiturru” (presuntuoso e arrogante), “’nguirriusu” (creatore di scompigli) o “vicariotu” (degno della Vicaria, carcere di Palermo); i ragazzi “cchiù fissa, carmuci e mammulini” (meno vivaci, che cercavano ancora la mamma) "o piscia e trema”, erano sempre “cucchìati” (presi in giro) dai ragazzi “sperti” o “figghi di buttana” (per come si diceva in maniera scherzosa a quelli più svegli), per questo i bisticci avvenivano di continuo con bernoccoli sulla testa, qualche “mercu” (segno, taglio) sulla pelle, “nasu scattatu” (epistassi), pianti e minacce.
Quando bisticciavano senza picchiarsi, facendo il segno della croce con la mano destra su quella sinistra, dicevano:
- “Sciarra e peri torti e dumani t’agghiorna la morti”
- In altre occasioni dicevano:
- “Ti ringraziu e ti schifiu, quannu mori ti vegnu a viu”
- Quindi aggiungevano:
- “Finiu e finau di fari paci”.
Tante volte due ragazzi dopo avere bisticciato formavano due gruppi, portando ognuno con sé i propri seguaci; quindi incominciavano a picchiarsi in maniera collettiva. Dopo avere chiarito i loro dissidi in questo modo, tutto finiva lì e ricominciavano a giocare.
Pertanto, la strada di allora, indirettamente rappresentava una palestra per l'atletica leggera, ma anche per la vita; qui s’imparavano i trucchi della sopravvivenza ed a socializzare. Fra gli innumerevoli giochi, ne trascrivo alcuni:
- “A LU BADDUTTULINU” Di domenica, quando c’era la partita di pallone allo stadio, ricordo che a Castelvetrano, in Piazza Dante preparavano una buca poco profonda con un rialzo su tre lati di legno. I concorrenti, messi ad una certa distanza dovevano lanciare con la mano otto palline.
Vinceva il concorrente che ne faceva entrare di più.
- “A LI BOCCI”. (Oggi questo gioco è tornato molto di moda) o a 'li bocci cu ravogghia e palisa'; la “ravogghia” era un anello di ferro (dentro cui doveva entrare la “boccia”) provvisto di uno spuntone che, conficcato nel terreno, reso morbido da un poco d’acqua, poteva girare quando veniva toccata dalle bocce; la palisa era una bacchetta di legno, che serviva per spingere le bocce; c'era anche una linea di demarcazione oltre la quale la palla di legno pesante andava a 'nanna'.
- “A LA FUSSETTA”- Per i più piccoli e per chi non aveva la possibilità di giocare a li bocci, si doveva accontentare di fare una buchetta per terra e cercare di farvi entrare una pallina di vetro, di metallo o addirittura le noccioline.
- “A LI CIAPPEDDI”. Poiché il gioco delle bocce era costoso, aguzzando l'ingegno si è arrivato ad un gioco simile, ma più economico:
“Li cciappeddi”; si trattava di pezzi di piastrelle di cemento o di terracotta per pavimenti o pezzi di marmo segato, trovati nelle discariche; resi tondeggianti. Li ciappeddi si lanciavano con la speranza di farle arrivare il più vicino possibile al 'boccinu' (una ciappedda più piccola delle altre).
I giochi: “a li bocci, e a li ciappeddi” avevano lo stesso regolamento; in linea generale era il boccino (una palla più piccola), che regolava il gioco, perché faceva punti e vinceva chi si avvicinava di più al boccino.