Tra bancarelle, presepi e “cosi duci”. Ricordando il Natale di un tempo
di: Vito Marino - del 2018-12-25
Siamo già in piena ricorrenza natalizia, la festa più attesa dell’anno, ricca di religiosità, folklore e tradizioni. Per qualcuno sarà il primo Natale, per qualcun altro forse l’ultimo. Certamente tutti festeggeranno la festività, per come si usa ai giorni nostri: con luminarie per le strade e in casa, acquisti anche di cose non necessarie e di regali costosi, creando un’atmosfera di benessere e di consumismo sfrenato.
L’atmosfera natalizia collettiva si percepisce di più nei supermercati durante gli acquisti, nella visita della “casa di babbo Natale”, con la vista dell’albero di Natale e delle bancarelle posti in piazza Garibaldi e nelle luminarie. Ogni epoca storica ha le sue caratteristiche, e nel mio lontano passato, fin dove arrivano i miei ricordi, diciamo fra gli anni ’40 e ’50’ del 1900, l’atmosfera era del tutto diversa. Non posso giudicare se era più bella o più brutta, perché il passato, anche se trascorso in pessime condizioni, si colora sempre di nostalgia e di romanticismo, e sembra più bello.
In quegli anni la ricorrenza natalizia univa la religiosità alla tradizione popolare, fatta di presepe, “cosi duci” e canti natalizi. l’atmosfera natalizia era sicuramente più sentita, anche se di soldi se ne vedevano ben pochi. Alcune settimane prima, le famiglie erano tutte indaffarate a fare le grandi pulizie della casa ed a preparare il presepe e “li cosi duci”.
Il presepe era preparato da quasi tutte le famiglie; per la sua preparazione oltre ai pastorelli, si utilizzava materiale povero, come pietre, pezzi di sughero grezzo, terra di campagna, muschio tolto dai vecchi muri umidi, fiocchetti di cotone a simboleggiare la neve. Ricordo che io e mio fratello abbiamo preparato i pastorelli modellando dei pezzi d’argilla e facendoli asciugare vicino al fuoco del focolaio. Attorno al presepe la sera mia madre ci faceva recitare il rosario e altre preghiere.
Oltre al presepe, allora esisteva in molte famiglie il culto dell’altarino in casa, possibilmente sistemato in una nicchia incassata nel muro. I nobili tenevano l’altare in un’apposita stanza.
“Li cosi duci” erano dei dolci preparati in casa da quasi tutte le famiglie; chi non aveva il forno li andava ad infornare dalla “cummaredda”, a buon rendere. Oggi questi dolci si trovano facilmente in tutti i forni e supermercati, sono di ottima fattura, ma non creano più quell’atmosfera natalizia di una volta, quando varie famiglie di amici e parenti preparavano i dolcetti messi attorno allo “scannaturi” (spianatoio), con sotto il braciere con la carbonella accesa per riscaldarsi. Durante la lavorazione chiacchieravano e negli intervalli giocavano a carte.
Nell’aria si sentiva il caratteristico odore di legna d’ulivo bruciata e di biscotti appena sfornati. Ogni famiglia ne faceva una buona provvista, riempiendo un paio dei capienti cassetti del canterano. Allora le famiglie generavano anche 15 figli e i dolci si consumavano in poco tempo. In quegli anni tutti i lavori si eseguivano a forza di braccia e l’arrivo di figli, specialmente maschi era considerato un dono della Provvidenza.
Li “cosi duci” (dolci di Natale) erano di varia natura e nome; così avevamo: “li cosi di ficu, lu chini, li mustazzola, li tetù, li muscardini, li quaresimali, li viscotti picanti”. I più importanti erano “li cosi di ficu” perché più gustosi e si presentavano bellissimi per tutti i lavori artistici barocchi (fiore o palma) che venivano eseguiti con la lametta da barba o con un coltellino a lama sottile.
Allora non esisteva il vocabolo specifico “dolce” e “dolciere”, in sua vece si usava dire: “cosi duci di Natali” o “Cosi duci di li morti”; il “cosaducuiaru” era il dolciere, che allora faceva pochi affari, visto che i dolci si preparavano in casa. Il giorno di Natale, oltre ad assistere alle funzioni religiose in chiesa, si passeggiava, freddo permettendo, lungo la “strata di la cursa” (Via V. Emanuele), “a lu chianu” (piazza Garibaldi), e lungo la via Garibaldi.
Nelle stesse vie o davanti le chiese principali sostava con la bancarella “lu siminzaru”, che vendeva “calia, simenza, e pastigghia” (ceci e semi di zucca abbrustoliti e castagne secche) o il venditore di “bombolona” (caramelle preparate da lui stesso). Ai quattro canti e davanti ai cortili c’erano gruppi di persone, che, mentre chiacchieravano si “godevano” il passeggio, per come si diceva allora. Per i ragazzi la festività era molto attesa, perché erano liberi da impegni scolastici e di lavoro (a quei tempi andavano “a lu mastru”, cioè ad apprendista artigiano, nelle ore o giornate libere), e potevano giocare spensieratamente in tutti gli spazi liberi delle le strade, piazze e cortili, ancora non occupati dalle macchine posteggiate o in transito.
I ragazzi, inoltre nelle festività principali ricevevano dai genitori e parenti più intimi “li boni festi” una piccola somma di denaro come regalo. Nel preparare il pranzo di Natale, chi se lo poteva permettere comprava la carne di vaccina o di maiale “a la chianca” (macelleria); “lu vucceri o chiancheri” (il macellaio) intorno agli anni ’40 – ’50 apriva la sua bottega soltanto la domenica e nelle feste principali. Le altre persone usavano tirare il collo al gallo o alla vecchia gallina, che venivano rispettivamente cucinati a ragù o in brodo; se nel cortile c’era un “gaddurinia” (tacchino) veniva prescelto, perché le bocche da sfamare erano molte.
Ricordo che allora preferivo mangiarne la cresta della gallina; certamente si trattava di un capriccio di bambino. Oggi, se mi capita di assaggiare la cresta di una gallina casereccia, sento il sapore dei vecchi tempi, di quella atmosfera natalizia fatta di niente, di una società e di una famiglia molto povera, ma ricca di sentimenti e spiritualmente più sana.
Per quanto riguarda i canti in chiesa, in Sicilia, nel lontano passato, era frequente trovare, accanto alle celebrazioni liturgiche, altre manifestazioni celebrative devozionali canore, come “triunfi, novene, e ninnaredde”. Queste manifestazioni, che erano fortemente avvertite dal popolo, venivano diffuse dai “ninnariddara” e dai “ciaramiddara”.
Oggi, in piena civiltà del benessere e del consumismo, ai bambini non si insegna più che il Natale rappresenta la nascita di Gesù, quindi che si tratta di una festività religiosa, ma si aspetta il momento per aprire i regali posti sotto l’albero di Natale, portati da un fantascientifico “Babbo Natale” venuto con la slitta dal Polo Nord. Quindi il Natale e l’Epifania, festività prettamente religiose, diventano delle feste profane fatte di regali.