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La Novena di Natale e la “ninnaredda” di Natale. Canti, storie e tradizione di un’epoca che fu

di: Vito Marino - del 2020-12-24

Immagine articolo: La Novena di Natale e la “ninnaredda” di Natale. Canti, storie e tradizione di un’epoca che fu

(ph. Il Castelvetranese doc)

Novene, ottave e tridui erano preghiere particolari accompagnate da canti, dedicate a santi o a particolari ricorrenze festive religiose. Dai miei lontani ricordi e fino agli anni ’50, la ricorrenza natalizia univa la religiosità alla tradizione popolare, fatta di presepe, “cosi duci” e canti natalizi.

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  • Durante tutta la ricorrenza Natalizia in chiesa si effettuavano preghiere particolari accompagnate da canti: Dal 29 novembre al 7 dicembre si svolgeva “La nuvena di la Madonna” (la novena dell'Immacolata), seguita dalla novena di Natale, che andava dal 16 al 24 dicembre. Il ciclo si chiudeva con l'ottava dell'Epifania (detta semplicemente ottava) che si celebra dal 29 dicembre al 5 gennaio. 

    Il triduo (triinu) consisteva in una prestazione musicale limitata ai tre giorni conclusivi dell'ottava (3-5 gennaio), e veniva richiesto dalle famiglie meno abbienti o da quanti, se pure in ritardo, non vogliono rinunciare al "suono" della zampogna.

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  • Novene, ottave e tridui si celebravano di mattina molto presto e di sera (dall'imbrunire). Le novene, così chiamate, poiché di norma si celebravano per nove giorni consecutivi, simboleggiavano i nove mesi di gestazione della Vergine Maria; nove erano le candele poste sul davanzale dell'altarino da accendere una per ogni giorno di recita.

    A Castelvetrano la “Novena di Natale si celebrava in chiesa, dopo la prima messa delle 4,30, che il popolo chiamava “la missa di lu addu”, con preghiere e canti. I canti, regolarmente in lingua siciliana si cantavano intonati da un coro all'unisono, con l'accompagnamento di violino, mandolino o chitarra e “ncincirincì” (cerchietto o tamburino con sonaglini).

    Allora, la prima messa era celebrata di consuetudine così presto, per permettere ai contadini di assistervi prima di andare al lavoro. Dobbiamo ricordarci che eravamo ancora in piena civiltà contadina, quando l’80% della popolazione viveva d’agricoltura e l’asinello ed il mulo erano i mezzi di locomozione molto lenti di allora; i contadini, pertanto, dovevano partire dal paese molto presto per raggiungere il posto di lavoro.

    Questi canti venivano chiamati “NINNAREDDA, un vocabolo ormai scomparso dall’uso comune, che deriva da NINNA NANNA. Nella festività natalizia, la ninna nanna si riferiva al neonato Gesù che, come ogni bambino di questo mondo, non voleva prendere sonno.

    La ninna nanna era accompagnata contemporaneamente dall’annacata, equivalente allo spagnolo canciones de cuna, (canzone di culla, di “naca”), quindi: “annacata”. “La ninnananna di la sèggia” (della sedia) è caratterizzata da andamento sillabico e struttura ritmica, che combaciavano col dondolio di andata e ritorno della sedia, sulla quale sedeva la mamma col pargoletto in braccia.

    Alcuni brani della “ninnaredda” riguardavano anche la nascita di Gesù, altri la Sacra Famiglia, ricordata dalla tradizione popolare siciliana come una normale famiglia terrena con i suoi problemi quotidiani di fame, freddo, lavoro e amore familiare.

    I brani erano cantati in lingua siciliana, intonati da un coro all'unisono, con l'accompagnamento di violino, mandolino o chitarra e “ncincirinci” (cerchietto con sonaglini). Il più cantato era “lu viaggiu di San Giuseppi”, detto anche “lu viaggiu dulurusu” (il viaggio a Betlemme); altri canti erano: "La notti di Natali, Ninu Ninu lu picuraru, La Marunnuzza ‘n cammara siria, La ciaramedda, Sutta un peri, Dormi nun chianciri, Maria lavava, Ora veni lu picuraru, Dormi oh figghiu dormi, I tri Re (l'arrivo dei Magi); San Giusippuzzu di fora vinia, Ralligrativi pastura, Ha binutu lu lignamaru, Cchissu chi chianci mi pari Gesuzzu” e due versioni della Salve Regina (Sarvi Riggina di la Mmaculata, Sarvi Riggina di Natali).

    Si tratta di melodie che facevano parte della fede e delle tradizioni di un mondo contadino arcaico povero, ma ricco di semplicità, umiltà e amore familiare. Di questi brani, “lu parruccianu” , (il committente) ne sceglieva tre (tri caddozzi) in cui normalmente si articola ogni esibizione. (“caddozzu” è qualcosa di limitato; ad esempio un caddozzu di sosizza è lungo circa 20 centimetri delimitato dalla legatura di rafia alle due estremità).

    A causa del diffuso analfabetismo questi canti, assieme a tanti altri, come del resto tutta la cultura della civiltà contadina, da tempi immemorabili si tramandavano oralmente da padre in figlio, o da  bocca a bocca, come vuol dire qualcuno.

    Non dobbiamo dimenticare che tutta la cultura popolare non era seguita dalla nobiltà, che era erudita e nelle condizioni di trascrivere anche canzoni e scrivere musica; ma la nobiltà allora seguiva la musica sinfonica e lirica e la letteratura degli autori più famosi italiani ed esteri e non si abbassava a seguire il popolino, che detestava. Per tale causa, moltissimo del patrimonio culturale popolare si è perduto nel tempo.

    A Castelvetrano negli anni ‘90 il prof. Matteo Bentivoglio e il prof. Giuseppe lo Sciuto hanno riesumato una parte di questi canti. Il prof. Bentivoglio li ha armonizzati a quattro voci e il coro Castroselino da lui diretto e del quale ne facevo parte anch’io, li ha cantati presso chiese e locali pubblici. Sciolto il coro, questa tradizione continuò presso la parrocchia di San Giovanni Battista, per alcuni anni.

    Atri brani sono stati riesumati e musicati da me, per un repertorio a una sola voce. Per rilanciare la “ninnaredda”, il 28/12/13 presso il Circolo della Gioventù di Castelvetrano sotto il patrocinio del Comune di Castelvetrano, il sottoscritto ha organizzato, assieme ad Arianna Maniscalco, consulente del sindaco di quegli anni, uno spettacolo culturale, dove il coro di parrocchia della chiesa di San Giovanni, diretto da Paolo Catania ha cantato il repertorio sopra riportato.

    Speravo una riconferma per l’anno successivo, ma senza esito. Personalmente ricordo, che nei primi anni del dopoguerra ’45, ai quattro canti di via Denaro, davanti l’edicola votiva del “Signuruzzu di la caruta”, all’aperto, si cantava la ninnaredda, accompagnata da strumenti a fiato.

    -I “NINNARIDDARA” erano dei suonatori di violino e cantori, generalmente poveri e spesso non vedenti, che, per sbarcare il lunario, suonavano nei circoli, dai barbieri e, in occasione del santo Natale intonavano le nenie natalizie chiamate “ninnaredda” o “canti di naca”.

    Costoro “a li sett’arbi” (di mattino ancora al buio), giravano per le strade suonando detti brani musicali. Nelle strade silenziose di allora, le note echeggiavano e si diffondevano nell'aria creando un'atmosfera di festa.

    Chi era interessato li invitava a suonare in casa davanti al presepe o all'altarino; poteva trattarsi di una suonata occasionale o per tutta la novena. Al suonatore si dava un misero compenso, a volte in natura, come: "Li cosi duci di Natali” e un bicchiere di vino.

    Cercando fra i miei sbiaditi ricordi d’infanzia rivedo Giuseppe Ricupa, un suonatore di violino cieco, chiamato, con l’appellativo di quei tempi: “don Pippinu l’orvu”, che sbarcava il lunario suonando dai barbieri e facendo il “ninnariddaru”. Di lui parla Giovanni Asaro, in un articolo “La settimana di passione nei canti popolari castelvetranesi” del 1966 su “Il Faro”, dove afferma che era un virtuosissimo del violino ed aveva una voce calda e pastosa, era un autodidatta ed è morto giovane.

    Dagli anni sessanta in poi, con la globalizzazione le nostre care ninnaredde sono andate in disuso e, durante le festività natalizie si cantano brani, come: Adeste Fideles, Jingle Bells, Noel Noel, ecc. provenienti da paesi stranieri con culture diverse dalla nostra.

    Così, a poco a poco scompaiono tutte le nostre tradizioni centenarie ereditate dai nostri nonni, inghiottite dalla globalizzazione e sostituite da quelle provenienti da altri popoli con una civiltà completamente diversa dalla nostra; una civiltà vuota di valori umani, dove ogni individuo egoisticamente vive un mondo a sé, disordinato, ritmato dal tempo velocissimo che va via.

    Per fortuna nella mente di noi adulti resta il ricordo di quel tempo che fu e si può ancora documentare la cultura di un mondo scomparso. E’ nostro compito e dovere riesumare il passato per trasmetterlo ai giovani e ai nostri posteri. Questa trasmissione di dati ed eventi storici, questa corrispondenza attraverso il tempo passato, presente e futuro rappresenta anche una battaglia vinta contro il nulla eterno.

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