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Sulla collocazione delle opere nella Chiesa di San Domenico. La replica di David Camporeale

del 2014-03-02

Immagine articolo: Sulla collocazione delle opere nella Chiesa di San Domenico. La replica di David Camporeale

(ph. Casavanze.it)

Una levata di scudi, tanto inattesa quanto ingiustificata, è venuta dall’articolo pubblicato da Enzo Napoli, che, facendo riferimento al mio contributo del 23 u.s. (di cui non mi menziona come autore), non solo ne contesta, con toni d’insolita supponenza, i contenuti, ma anche, affettando un risibile dottrinarismo, ne mette in discussione i fondamenti teoretici e  documentari.  

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  • E Napoli sostiene testualmente, evidenziandolo in neretto, che “la statua di San Giovanni Battista, opera egregia del Gagini, non è arrivata in Castelvetrano il 5 aprile 1522 (giorno in cui Giovan Vincenzo Tagliavia divenne conte), giacché essa giunse nel mese di settembre, come  inoppugnabilmente risulta da documenti ritrovati dal Di Marzo  e dallo stesso pubblicati,  nel 1880-83, nel secondo  volume  I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI , nonché dal Ferrigno  in un articolo del 1920”.  

    Ma, come si rileva proprio nel testo da lui citato del Di Marzo, che lo riporta nel tomo finale tra i documenti, il contratto che Nino Tagliavia stipulò con Antonello Gagini l’11 maggio 1521 stabiliva che l’opera venisse realizzata dall’artista interamente di sua mano (“bene et diligenter construhere et facere dictam immaginem de eius manu”) e che venisse consegnata nel mese di aprile dell’anno successivo (“et ipsam consignare… per totum mense aprilis anni X. ind. proxime venientis”), in cui era stata preannunciata l’investitura di Giovan Vincenzo a conte: ciò che avvenne nella data del 5 aprile 1522, così come citato nel mio articolo, e attestato dalla nota a margine dell’atto, riportata dallo stesso Di Marzo (“Die V mensis aprilis anni X. ind. 1522”).  

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  • Tuttavia, l’argomento da me proposto non mirava a stabilire la data effettiva di consegna della statua di S. Giovanni Battista, come frainteso dal Napoli, ma ad evidenziare la volontà di Giovan Vincenzo Tagliavia di collegare il proprio apogeo politico al culto del potente Precursore di cui recava il nome: e ciò potrebbe spiegare l’indubbio rilievo che nel programma iconografico della chiesa sembra aver avuto, sin dalla fondazione della chiesa, il culto di S. Vincenzo Ferrer (evidentemente a onore del nobile patrono); non a caso, infatti, a S. Domenico venne riservato l’altare in fondo alla navata laterale destra.  

    Restano pure incomprensibili, nei toni e nei contenuti, le restanti argomentazioni del Napoli, il quale, mostrando delle vecchie immagini dell’altare senza la statua di S. Vincenzo, asserisce che “non fu mai stabilmente collocata sull’altare principale”, inferendo che “quindi non è stato inopportuno non ricollocarla più sull’altare, non essendo, tra l’altro S. Vincenzo il titolare della chiesa”.  

    Prescindendo dal fatto che la storia non si fa con le fotografie (poiché andrebbero ricostruite le cause della rimozione della statua dopo il 1890), si può smentire il Napoli con altre fotografie, come quella pubblicata da Giulia Davì e Maria Pia Demma nel volume Paesi della Valle del Belice, che mostra S. Vincenzo sull’altare maggiore; per non dire che anche una fotografia attuale mostrerebbe l’altare privo della statua, mentre vi era quando sono iniziati gli ultimi restauri, senza che questa discontinuità possa comunque mettere in discussione il fatto che la statua si trovasse effettivamente sull’altare maggiore e che tale collocazione indichi, in ogni caso, un culto preminente.  

    Quanto alla nota enciclopedica sulla cartapesta, gratuitamente riportata dal Napoli, travisa in modo manifesto le mie argomentazioni sulla opportunità di una restituzione filologica del restauro, rispettosa cioè dell’originario programma iconografico, o di quello comunque storicamente determinatosi: e ciò vale sia per la statua di S. Vincenzo (che è certamente ben più antica del 1890), come per la cappella del Rosario, dove a mio avviso è stata inopportunamente collocata la tela di S. Raimondo di Peñafort, che andava lasciata nella collocazione datale nel 1602, sulla parete a sinistra della porta d’ingresso.  

    E non può, ovviamente, accettarsi l’assurda proposizione del Napoli, il quale tenta di giustificare questa arbitraria collocazione con quella effettuata nella cappella di S. Domenico, dove, al posto della tela involata del titolare, è stata ora posta la Sacra Famiglia attribuita al Fondulli, o con l’altra in precedenza attuata nella prima cappella della navata sinistra, dove al posto del dipinto di Gesù nell’orto, eseguito nel 1620 da Orazio Ferraro da Giuliana, nel 1950 venne collocata, sulla scia dell’emozione popolare suscitata dalla visita della statua della Madonna di Fatima, una sua bella riproduzione, realizzata dallo scultore castelvetranese Castrenze Pisani.  

    Va comunque sottolineato che le alterazioni di queste due cappelle hanno prodotto effetti meno sensibili, poiché in esse non è riconoscibile un programma iconografico altrettanto organico e coerente come quello presente nella cappella del Rosario, alla quale ho appunto fatto specifico riferimento nel mio contributo, fungendo da chiave interpretativa dell’intero complesso decorativo.

     Ribadisco, pertanto, il principio che un corretto restauro deve restituire l’autentica facies di un monumento, senza pretendere di modificarne i tratti, rendendola, in tutto o in parte, irriconoscibile.

    David Camporeale

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